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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

Malastrana VHS

Archivi Mensili: agosto 2013

Night of the demons 2

30 venerdì Ago 2013

Posted by andreaklanza in demoni, N, Recensioni di Davide Comotti, splatteroni, streghe

≈ 1 Commento

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kevin s. tenney, night of demons 2, notte dei demoni

Il cult horror americano La notte dei demoni (1988) di Kevin S. Tenney, poco conosciuto in Italia, deve aver riscosso invece un gran successo in patria, visto che ne sono stati fatti due sequel. Nel 1994, Brian Trenchard-Smith diresse La notte dei demoni 2 (Night of the demons 2), proponendo una vicenda sostanzialmente identica alla precedente e in grado di regalare ancora un discreto intrattenimento. Ritorna il personaggio di Angela (Amelia Kincade), l’indemoniata del primo film, unica superstite che vive ancora all’interno della maledetta Hull House.

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Sono passati sei anni dal massacro e il demone continua a mietere vittime, come scopre a proprie spese la coppia che vediamo nel prologo. Fra gli studenti di un college circolano strane leggende riguardo a quanto accaduto, ma un gruppo di teenager decide di passarci la notte di Halloween, coinvolgendo suo malgrado anche Melissa, la sorella di Angela. Dopo una seduta spiritica, le sinistre presenze che aleggiano nella casa inducono i ragazzi a tornare alla festa della scuola, ma ormai il danno è fatto: un rossetto indemoniato (lo stesso che una ragazza si era infilata nel seno nel primo capitolo della saga) diffonde il contagio e trasforma i malcapitati in zombi sanguinari. Un esperto di occultismo, insieme alla suora e al prete che insegnano al college, tornano in Hull House per esorcizzare i demoni: il massacro continua.

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Che dire? Più o meno quanto si è detto riguardo a La notte dei demoni: se visto con lo spirito giusto è un horror divertente, se invece si è in cerca di emozioni forti e prodotti raffinati bisogna sicuramente passare oltre. La notte dei demoni 2 è ancora puro cinema-fumetto destinato soprattutto a un pubblico di teenager: la trama è solo un pretesto, i dialoghi trascurabili e i protagonisti assolutamente stereotipati o sopra le righe (i soliti ragazzi e ragazze arrapati, con l’aggiunta della suora-guerriera); il punto di forza sono gli strabilianti effetti speciali in tipico stile eighties (pur essendo del 1994), a base di sangue finto e lattice.

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Le innovazioni principali rispetto al primo film sono due: lo sdoppiamento dell’unità di luogo e azione (Hull House e il college, col rischio di creare una storia un po’ farraginosa) e la contaminazione col tema dell’Esorcista (c’è anche una scena di vomito verde), anch’esso trattato però in maniera del tutto bizzarra e sopra le righe. Gli anni Ottanta hanno lasciato il segno anche nel cinema d’azione, e infatti i moderni esorcisti si preparano a combattere come Rambo: fucili ad acqua e palloncini riempiti di acqua santa, con tanto di preparazione accompagnata da note martellanti. L’estetica dei posseduti (a cominciare da Angela, regina della notte in stile dark-gothic) è pressappoco identica, chiaramente ispirata a La casa di Sam Raimi e forse anche a Demoni di Lamberto Bava (vedasi in particolare le zanne e i volti deformati con tanto lattice); così come squisitamente raimiana è la steadycam accelerata con cui l’entità maligna percorre le stanze della casa e raggiunge i malcapitati. Pur essendo un film degli anni Novanta, Night of the demons 2 vuole chiaramente riproporre le atmosfere del decennio precedente, compresa la commistione di sangue e umorismo macabro che a volte scade quasi nel demenziale.

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Effetti speciali e fotografia sono curati dagli stessi autori del capostipite, rispettivamente Steve Johnson e David Lewis. Gli FX sono uno spettacolo, sanguinari ed esagerati (forse ancora di più rispetto alla media). Dopo una partenza “classica” a base di splatter e bocche strappate a morsi, ecco il rossetto che prende vita come una sorta di serpente e si infila nelle parti basse di una teenager; i seni che si trasformano in due mani; la testa del demone che fuoriesce dal water; il ragazzo decapitato che palleggia con la propria testa; la ripugnante poltiglia in cui si sciolgono i demoni dopo essere stati colpiti con l’acqua santa; e, per concludere in grande, la rediviva Angela che diventa un enorme essere strisciante.

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Ripropongono l’atmosfera anni Ottanta anche la fotografia coloratissima e le musiche metal-dark di Jim Manzie.

L’ultima scena, in cui una ragazza ritrova il rossetto indemoniato, lascia presagire un ulteriore sequel, che infatti sarà realizzato nel 1997 (Night of the demons 3 di Jim Kaufman).

Davide Comotti

Night of the demons 2

Regia: Brian Trenchard-Smith

Interpreti: Cristi Harris, Darin Heames, Robert Jayne, Merle Kennedy

Durata: 80 min.

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Cruising

29 giovedì Ago 2013

Posted by ceccamaus in C, capolavori, drammatici, Recensioni Francesco Ceccamea, thriller

≈ 3 commenti

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cruising, gay, horror camuffati da altro, l'esorcista, omosessuali come ultracorpi. al pacino, recensione, william friedkin

Nessuno si è preso la briga di spiegarci il titolo di questo film. Cruising. Cruising for sex. Si intende l’atto di camminare o guidare in cerca di un partner sessuale, magari anonimo. E in effetti è di questo che racconta il film. Al Pacino non fa altro che muoversi nel sordido, squallido e davvero poco affascinante ambiente gay del Greenwich East Village di N.Y. Da quelle parti gli omosessuali vivono in un’isola tutta loro, possono girare per le strade senza paura di essere discriminati, sia di giorno che di notte, come se fossero in una specie di ghetto. E il mondo li lascerebbe alle loro copule oliate, pelose e sudose se un serial killer non iniziasse a colpire proprio da quelle parti, disseminando per la città pezzi di cadavere gay. La polizia all’inizio se ne infischia, poi il livello societario dei corpi aumenta: professori alla Columbia, attori di una certa fama, stilisti affermati… e così la stampa ci si tuffa e per le autorità è d’obbligo risolvere la cosa. Siccome l’assassino sembra colpire sempre lo stesso tipo di individuo, non tanto alto, ricciolino, aitante (una specie di Ninetto Davoli) ecco che l’ispettore a cui sono affidate le indagini decide di incaricare Pacino, che ha una permanente davvero difficile da mandar giù, almeno nelle prime scene, poi ci si abitua.

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Secondo molti il vero limite di questo film è proprio l’attore italo-americano. Reduce dal successo di “Serpico” vorrebbe tentare il colpaccio con quest’altro agente tormentato ma non ha il coraggio di abbandonare del tutto il suo status di sex symbol etero e così buona parte dei tormenti e le ambiguità che costituirebbero la parte più interessante di tutto il progetto vanno a farsi benedire. Per carità, se vogliamo usare Pacino come capro espiatorio (cosa che non merita) allora bisogna insistere anche sui suoi limiti fisici. Lui si allena, cerca di tirar su dei muscoli, ma in fondo ha un fisico troppo scarso per recitare certi machismi che il ruolo pretenderebbe. Però si tratta di uno degli attori più carismatici che ci siano e può starci che nel giro di qualche settimane inizi a farsi notare in una riserva di caccia fatta di pettorali scolpiti, catene, borchie e linguaggi in codice per abbordaggi. In fondo quello che vorrebbe fare Friedkin è raccontare senza veli o ipocrisie un luogo sociale ignorato dai più fino al 1981: il giro sado-maso dei gay. Il problema è che se ne ricorda fino a un certo momento. Il film parte con carrellate lungo i marciapiedi mentre voci fuori campo di poliziotti depressi e depravati dicono cose tipo “un giorno questo posto esploderà, prima qui ci si giocava a baseball, che cosa è successo, come siamo finiti così?” e rimanda al classico monologo apocalittico qualunquista di “Taxi Driver”. Poi Pacino entra nel terreno di caccia del suo uomo e noi con lui esploriamo un posto alieno, allucinante, pauroso e malinconico. Sembra quasi un bel documentario per le scuole sull’aids, però, dopo una ventina di minuti appena tutto si accantona, parte il giallo e l’aspetto giornalistico, divulgativo, passa in secondo piano.

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Non vogliamo sostenere che “Cruising” sia un capolavoro incompreso e che le critiche gratuite e la gran diffidenza attorno al film nel corso di tutti questi anni siano state viziate dal pregiudizio verso un tema scomodo, però riconosciamo all’opera di Friedkin un certo fascino, ok, avulso, involontario, prodotto dal tempo ma incontestabile. La fotografia sgranata, il gergo dei gay, ormai datato, la colonna sonora a base di schitarrosi e lascivi rock and roll protometal, la tastierona stile Tangerine Dream a sottolineare i momenti di stanca delle indagini, l’etno-jazz che accompagna la caccia all’uomo di Pacino nella seconda parte del film; la sfilata di caratteristi straordinari (Joe Spinell, Paul Sorvino, Karen Allen, Jay Acovone, James Remar, Edward O’Neill) alcuni destinati a diventare attori di primo piano; il modo tipicamente anni 80 di affrontare la violenza, i serial killer e gli ambienti urbani malfamati, tra moralismo e sensazionalismo (tra Winner e Scorsese), tutto questo in fondo rende “Cruising” un film piacevole, divertente, intrigante, un caposaldo di quel genere ibrido che si potrebbe definire horror non horror (Mr. Goodbar, I falchi della notte, China Blue, Indagine ad alto rischio, Coraggio fatti ammazzare); thriller urbani molto sordidi e violenti che pasturano una certa credibilità tra gli appassionati dei film dell’orrore.

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Di lì a poco sarebbero arrivati altri film “ambigui”. Eastwood per esempio si sarebbe cimentato in un ruolo dalle ambivalenze simili a quelle di Pacino in “Corda Tesa” (1983); inoltre la natura abbruttita dal lavoro di un poliziotto è già sviscerata nel capolavoro di Aldrich “I ragazzi del coro” (1977) (a cui Cruising rifà il verso spesso e volentieri) dove un agente fissato con il sesso violento trova una gran brutta fine.
La storia è basata su fatti veri, viene specificato all’inizio da un testo nero su bianco. Il colpevole dei delitti nella realtà non è mai stato scoperto e anche il film per quanto alla fine ci offra un assassino attendibile, in fondo rimane sospeso: il maniaco nega di aver compiuto i delitti e un nuovo omicidio (anche se apparentemente non sembra collegato agli altri) chiude la storia. Pacino torna a casa dalla sua ragazza e sorride per la prima volta dall’inizio del film. Lei lo accoglie a braccia aperte, anche se sono stati in rotta, ogni cosa sembra tornare a posto, ma è una chiusa troppo semplice, illusoria.

Cruising 1980 Al Pacino pic 3 L’inquadratura sul molo, con la nave di pescatori che avanza sull’acqua, fa quasi pensare che stia per tirar su un altro cadavere. Certo, lo spettatore scafato sente una certa puzza quando si accorge che il serial killer viene scoperto e arrestato che manca ancora quasi un quarto d’ora alla fine. Di solito quello è il momento dove il falso colpevole viene acciuffato e negli ultimi cinque minuti c’è lo scontro a sorpresa con l’insospettabile vero criminale. E invece no. Non succede nulla. Anche qui è come se Friedkin alla fine sia stato costretto a cedere e non lasciare un finale aperto, come se Pacino avesse costretto tutti a far rientrare il personaggio nei ranghi dell’eterosessualità, dopo tanti dubbi. Che poi a ben guardare, se escludiamo un paio di mosse qui e là e la scena del ballo violento (davvero imbarazzante) il vecchio Al non fa nulla che comprometta la sua integrità di maschione italiano, nemmeno un bacetto su una guancia a uno dei numerosi amanti che si tira dietro lungo tutta la trama. C’è addirittura quello scontro “virile” con un altro gay (James Remar) che sembra assurdo e quasi gratuito ma se vogliamo dirla tutta, questa mancanza di coraggio suscita una certa tenerezza e quel finale finto chiuso potrebbe essere una metafora avveneristica dell’avvento dell’AIDS. La grande spregiudicatezza, la facilità con cui i personaggi si appartano, si accoppiano, si abbordano offre l’idea di un’orgia costante, senza freni o paure e su tutta quella babilonia sta per abbattersi un nuovo scherzetto divino.

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Tra l’altro “Cruising” fece incazzare da morire la comunità omosessuale per via della rappresentazione fortemente omofoba. Friedkin sostiene di aver tagliato 40 minuti, andati persi e in molte versioni mancano la dichiarazione del regista a inizio film, che specifica di non voler offendere i gay o sostenere che sono tutti come quelli che si vedono in “Cruising”. Patetico. L’altra cosa omessa è la scritta sul muro all’inizio, così inquietante, quasi da film sugli ultracorpi: “noi siamo ovunque”.

Francesco Ceccamea

Cruising

Regia: William Friedkin

Interpreti: Al Pacino, Karen Allen, Paul Sorvino, Richard Cix, Powers Boothe

Durata: 110 min.

Anno: 1980

VHS: GVR

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killer klowns from outer space

19 lunedì Ago 2013

Posted by ceccamaus in alieni, B movie gagliardi, commedia horror, K, Recensioni Francesco Ceccamea, scifi horror

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Coulrofobia, fratelli chiodo, killer clown from outer space, paura dei clown

Coulrofobia. Paura dei clown. Per alcune persone si manifesta con attacchi di panico, per altre non va oltre un vago senso di inquietudine. Dal loro punto di vista il film in questione è di certo uno dei più spaventosi mai concepiti nella storia del cinema; per il resto dell’umanità una porcheria come poche, una delle più esasperanti prese per i fondelli che siano mai arrivate da Hollywood.

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Killer klowns Fron Outer Space dei Fratelli Chiodi (i supervisori agli effetti speciali di Critters 1 e 2) fu un flop quando uscì ma con il tempo ha guadagnato lo status di cult movie. C’è chi lo considera semplicemente un film demenziale e chi un film demente e forse il problema di fondo è proprio quello di non essere nessuno dei due, rimanere in bilico tra la parodia pura 8e in questo caso i film presi di mira sarebbero i fantahorror alla Blob, il fluido che uccide), e l’horror splatter vero degli anni 80, dove la violenza è spesso eccessiva e cartoonesca, (basti pensare all’intera serie Nightmare o Non aprite quella porta 2) ma i pop corn carnivori, le torte alla panna fin troppo acida e le pistolone laser fanno fuori la gente per davvero e gli autori rivoltano pure l’intera faccenda portandola su un piano lovecraftiano. Insomma, vedere i clown spaziali che avanzano con la loro andatura buffa verso la cittadina ignara dell’orrore che la sta aspettando, predispone al sorriso (spesso per come si muovono e per le poche parole che esprimono ricordano i Teletubbies) ma sfido chiunque a trovare divertente la faccia del clown che richiama sibillino una bimba fuori da un locale, mentre dietro di sé nasconde un grosso martello colorato perché l’associazione con il serial killer John Wayne Gacy è inevitabile. Oppure la trasformazione splatter del poliziotto reazionario in un pupazzo da ventriloquo, con due rivoli di sangue che gli escono lungo il mento, giusto per farlo sembrare accidentalmente il fantoccio credibile che un grosso pagliaccio ciccione fa blaterare mentre ha il braccio infilato dentro le sue viscere… Ecco, in questi momenti lo spettatore può ostinarsi a sghignazzare ma in fondo è costretto a rendersi conto che quei mostri non sono così innocui e gioviali, si tratta di spietati assassini, mostri carnivori che non fanno distinzione tra una banda di motociclisti ubriachi o una povera signora sola in casa. I Fratelli Chiodo mettono giù una puttanata e lo sanno: la recitazione degli attori è sopra le righe, i personaggi sono tutte macchiette, le scene di violenza sono quasi slapstick ma ci è impossibile godere fino in fondo di questi difetti perché non sono venuti fuori naturalmente. Il vero trash non può essere concepito a tavolino. Deve nascere da sé. Di tutte le stramberie, ecco emergere poi la frase più intelligente del mondo, quella che neanche nei capolavori del genere dice mai nessuno: “ehi ehi ehi, rimaniamo tutti insieme!” Tutto troppo meccanico e forzato per essere spassoso. Siamo sul piano del metacinema, ma non per molto.

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La spiegazione suggerita nel finale, che i clown stessi, l’astronave a forma di tendone da circo, le stelle filanti, le trombette e tutto l’armamentario festaiolo trasformato in arsenale da battaglia non sia derivato da noi umani ma il contrario, fa spegnere definitivamente le ultime risate idiote in fondo alla sala. Non è la prima volta che quegli alieni vengono sulla terra a procacciarsi il cibo e probabilmente da tempo immemore gli uomini sanno di loro e quindi il circo, il lunapark e tutto il resto non sono altro che antichissimi rituali nati per scongiurare la loro venuta e che nel corso dei secoli hanno perduto il significato originario trasformandosi in un semplice business dell’intrattenimento. Ecco spiegato perché tante persone hanno paura della figura eccessiva del pagliaccio, odiano le feste e rifuggono i luna-park, giudicandoli sinistri, specie di notte, al buio. Sarebbe il ricordo ancestrale di quel pericolo che i nostri antenati impararono a temere e scongiurare, magari venerando quegli alieni come dei e rifacendosi al loro aspetto per addomesticarli o difendersi da loro. Nel finale, il camioncino dei venditori di gelato, con un grosso clown finto sul tetto viene usato per spaventare i clown alieni. Al suo interno una voce amplificata da un microfono dice loro di ubbidire al re e questi si fermano, lasciando andare i protagonisti, mai così vicini alla morte.
Gli effetti speciali sono la parte migliore in assoluto, neanche a dirlo. Persino lo scontro definitivo con il clownzilla è fatto bene, nonostante si capisca che il camioncino dei gelati è riprodotto su scala più piccola e che quello che lo prende a pugni sul cofano è un ex rugbysta vestito da clown mostruoso.

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L’aspetto parodistico del film è ribadito incessantemente dalla colonna sonora, una specie di score circense in salsa punk che è forse l’unica componente davvero trash del film perché quelle tastiere sferraglianti, i sintetizzatori rutilanti, oggi suonano assai più goffi e insopportabili di quello che volevano essere all’epoca in cui furono concepiti.

Per il resto, Killer Klowns è meno buffo e spassoso di quello che ci si possa aspettare con dei cali di ritmo imperdonabili (la scena finale nel luna-park risulta davvero noiosa); e spesso è troppo elegante e sofisticato per passare da innocente divertimento alla faccia di Marcel Carné (la trovata delle ombre cinesi è raffinata).

La parata carnascialesca dove gli alieni raccolgono i frutti del proprio lavoro, i bossoli allo zucchero filato in cui sono imprigionate le vittime, accompagnata da una musica funebre che non ha nulla di simpatico, solleva il film al livello sinistramente poetico di Qualcosa di sinistro sta per accadere, anomalo prodotto disneyano tratto da Il popolo dell’autunno dello zio Ray Bradbury).

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Il film veniva trasmesso di frequente su Odeon TV, per la serie “I bruttissimi di Odeon TV”, ammiccamento sardonico a “I bellissimi di Rete 4”. Nel cast riconosciamo Suzanne Snyder (Dimensione terrore) e John Vernon (morto nel 2005) caratterista in una miriade di lavori diretti da Don Siegel, Clint Eastwood e doppiatore di cartoni animati di successo.
È stata annunciata più volte la realizzazione di un sequel/remake e i Fratelli Chiodo assicurano che il 2013 sarà davvero l’anno buono.

Francesco Ceccamea

Killer klowns from outer space

Anno: 1988

Regia: Stephen Chiodo

Interpreti: Grant Cramer, Suzanne Snyder, John Allen Nelson, Royal Dano

Durata: 80 min.

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Priorità assoluta

12 lunedì Ago 2013

Posted by andreaklanza in action, azione, B movie gagliardi, fantascienza, P, Recensioni di Andrea Lanza, robot malvagi, scifi horror

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attori morti, Duncan Gibbins, eve of destruction, gregory hines, Michael Greene, paul verhoeven, priorità assoluta, Rénée Soutendijk, registi morti

Sembrava solo un robot, un sofisticatissimo androide dell’ultima generazione, assolutamente identico alla sua creatrice, la dottoressa Eva Simmons (Renée Soutendijk, Il quarto uomo): gli stessi desideri, le stesse fantasie sessuali represse… Ma quando l’invulnerabile meccanismo di Eve VIII viene danneggiato si innesca la terribile trasformazione in un’arma da guerra. Solo un esperto di antiterrorismo con Jim Mcquade (Gregory Hines, Cotton club) aveva le armi e la preparazione per poterla affrontare o porre fine alla strage se solo Eve VIII avesse avuto un punto debole! Ma quando una macchina pensa come un uomo, il lavoro si fa difficile. Quando un umano si comporta da robot la parola d’ordine è una sola “Distruggere Eve VII… Priorità assoluta!!!”

(Trama sul retro della vhs)

Più crudo di Blade Runner, più tecnologico di Terminator, un thriller ad alto potenziale di adrenalina

(Frase sul retro della vhs)

 L’aveva creata a sua immagine… ora la deve fermare ad ogni costo

(Frase di lancio sulla copertina)

C’era una volta la cara vecchia tv… Non c’era nè Sky nè Mediaset premium, solo Rai, le tre reti del biscione, tanta tv regionale e, per i più fortunati, la Televisione svizzera italiana… Tele più e Stream erano lì lì per venire, ma il meglio lo dava Italia uno con il suo palinsesto di botte e kickboxer, creature da notte horror e action di serie B come se piovesse… Tra i tanti film sparatutto anonimi però ogni tanto saltava fuori una  pellicola di un certo pregio, una sconosciuta perla che aveva goduto di una (breve) uscita al cinema.

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Questo Priorità assoluta, distribuito all’epoca dalla Penta film, era uno dei titoli di punta del Lunedì sera, ma purtroppo anche  uno dei più deludenti. Certo c’era Gregory Hines, ottimo ballerino e cantante, già visto in Cotton club, ma purtroppo, col suo fisico emaciato, non era l’eroe che ti aspettavi da un sotto Terminator in gonnella. Anche la figa del film, Renée Soutendijk, che veniva dall’immondo pasticcio omoreligioso di Paul Verhoeven, Il quarto uomo, non si poteva definire una gran bellezza… Cioè togli il testosterone e l’erotismo e cosa restava agli occhi di un ragazzino che sapeva a memoria le battute di Rambo 2 e Cobra? La noia.

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Eppure ora a rivederlo Priorità assoluta è invecchiato abbastanza bene e si porta sulle spalle i suoi 22 anni con una certa leggerezza, meglio di tante altre pellicole, come per esempio il Resa dei conti a Little Tokyo che all’epoca noi ragazzacci veneravamo. Si capisce certo che il modello Terminator vuole essere ribaltato ben prima del numero 3 ufficiale della serie: ad un erculeo nemico si sostituisce una donna di aspetto poco temibile. Questo è interessante così come l’idea di rendere la Eve bionica il doppelganger della frigida Eve umana, lo specchio di una vita di inibizioni sessuali, di rancori sopiti e di un fallimento umano di madre. Ecco che il cyborg diventa quindi un’arma inconsapevole di rivalsa soprattutto verso l’uomo padrone, il maschio  che vuole solo scoparla mentre la chiama troia, il padre che mai l’ha amata e, per ultimo, il figlio immolato sull’altare del lavoro.

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Eve diventa biblicamente la donna prima del peccato originale, la Lilith che la Bibbia si è dimenticata, l’orgoglio femminile che non ha bisogno dell’uomo. Se Gregory Hines è alla fine un antieroe convincente, simpatico e umano, l’interpretazione di Renée Soutendijk è atroce, fatta di occhi sbarrati e la stessa espressione assente sia nei panni della cyborg che della scienziata costruttrice… La parte del leone però la fa il make up della Terminator a cura di Christopher Biggs (Nightmare 4 e 5)  che rinuncia a fili e circuiti sottopelle per mostrarci carne sintetica fatta di vene, cuori pulsanti e muscoli, ultima frontiera della cybernetica che simula il reale. Priorità assoluta stenta a decollare, ma ha dalla sua un’ultima mezz’ora ancora oggi di grande ritmo e impatto spettacolare. Il finale in metropolitana (dove Gregory Hines si butta senza stuntman sotto un treno in corsa) è stato completamente riscostruito in una ex fabbrica di bottiglie in California, escamotage per ridurre i costi di un film per il resto girato nella costosa San Francisco. C’è da dire che il budget (dai 7 agli 11 milioni) è superiore a tante opere di serie B, ma sicuramente non abbastanza per le molteplici scene spettacolari filmate: grazie al regista inglese Duncan Gibbins, famoso soprattutto per i videoclip dei Roxette, però sembra un film molto più ricco. Dispiace che Gibbins morì giovane, il 3 Novembre 1993 per ustioni gravissime. Si era salvato da un terribile incendio quando si accorse che il suo amato gatto era rimasto bloccato all’interno della casa: decise perciò di rientrare a riprenderlo. L’animale si salvò, lui no. Anche Gregory Hines non ebbe una fine più felice: morì nel 2003 a causa di un feroce cancro al fegato. Priorità assoluta fu all’epoca un flop e fu presto dimenticato: niente di memorabile ovvio, ma avrebbe meritato un destino più fortunato. Per questo però esiste Malastrana vhs, per ricordare i caduti, i film che avrebbero potuto spaccare il mondo e che ora nessuno si ricorda più.

NB

La produzione di Priorità assoluta dichiarò all’epoca che la protagonista non era il cyborg, ma la Winchester Magnum 347-45 che Hines usa per cercare di fermarla, la pistola più grande e potente del mondo, 3 kg di acciaio cromato con mirino laser.

Andrea Lanza

Priorità assoluta

Regia: Duncan Gibbins

Interpreti: Gregory Hines, Michael Greene, Rénée Soutendijk, Kurt Fuller, Loren Haynes

Titolo originale Eve of Destruction

Durata 98′ min. – USA 1991

VHS: PENTA

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Scarlatti – il thriller

06 martedì Ago 2013

Posted by ceccamaus in capolavori, drammatici, fantasmi, Recensioni Francesco Ceccamea, S, streghe

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cinema, frank laloggia, lady in white, recensione, recensioni, scarlatti, scarlatti il thriller

A vedere la vecchia locandina del film in vhs sembrerebbe uno di quegli horror con i bambini posseduti dal demonio o al più un thriller parapsicologico all’italiana con tanto di casa infestata. C’è questo bambino in primo piano, con gli occhi bianchi e una maschera da mostro sulla testa. Anche il titolo, Scarlatti, nome di uno dei più importanti musicisti italiani del Barocco, è fuorviante perché suggerisce qualche affinità con il filone “diabolus in musica” in stile Paganini Horror del simpatico Luigi Cozzi.

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Insomma, per chi scrive, quelli elencati sono tutti validi motivi che giustificano il fatto di non averlo mai noleggiato, nonostante la piccola videoteca del mio paese non disponesse di più di una cinquantina di titoli horror e che in tempi di magra sia arrivato a portarmi a casa roba come Mostriciattoli, La Casa di Helen, Incubus e Troll 1, quello di John Carl Buechler. Quando però arrivavo a Scarlatti pur soffermandomici finivo sempre per passare oltre, non mi decidevo a vederlo. Al di là della confezione poco riuscita a opera dei distributori italiani, non so bene cosa me lo suggerisse ma ero convinto che il film fosse noioso, unico difetto che non si può davvero perdonare a un horror. Dopo averlo visto ho capito tre cose: Scarlatti è un titolo fuorviante e non ci sono demoni di compositori del ‘600 che imperversano in antiche ville nella campagna del nord Italia o in Svizzera; il piccolo protagonista non è un indemoniato;  sì il film è lentissimo ma la metterei in un altro modo, ha un respiro diverso da un horror tipico degli anni 80 made in U.S.A. Un afflato ben più grande, rispetto ai ritmi di una ciurma di scolari al sabato pomeriggio, qui si tratta di un dramma corale sul lutto e le difficoltà di gestirlo e della scrittura come metafora spettrale. LaLoggia inoltre se ne frega dei generi, vuole solo raccontare una storia e si prende il suo tempo, alla faccia delle regole dell’intrattenimento usa e getta.

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Frank LaLoggia è un regista che non ha avuto una gran carriera, anche se questo inizio prometteva parecchio. Col senno di poi sembra averci bruciato tutto quello che aveva da dare alle fiamme dell’arte. Per cominciare c’è il suo nome di origini peninsulari a legare con lo spaccato “terrone” in un contesto profondamente americano, con i due fratelli Scarlatti che sfrecciano in bicicletta creando scompiglio per il paese, i duetti divertenti tra i nonni (tutti in lingua madre) che vengono rappresentati in modo esuberante, come se il regista stesso voglia raccontarci della propria infanzia, della morte di un parente caro, della divorante ambizione artistica sotto la coltre protettiva della vita di paese fatta di vetrine, piccoli cimiteri, solidarietà tra vicini, uniti al continuo bisticciare in casa della famiglia italiana, la ricotta messa a mo’ di pecorino su chissà cosa, la trasmissione di musica nappuletana alla radio e ascoltata dalla famigghia in silenzio liturgico… tutto questo è un pezzo di storia dell’autore, senza dubbio, e gli spettri, l’horror sembrano un pretesto per parlare di queste cose, dei suoi fantasmi.

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“Scarlatti” è un film pieno di metafore ed è raccontato in modo estremamente elegante e consapevole, con raccordi costanti usando piccoli oggetti simbolici, con una scenografia quasi fiabesca, espressionista. Potrebbe essere l’unica via all’horror di Giuseppe Tornatore, se vogliamo, ma la parentela autoriale più spiccata il film ce l’ha verso il sottostimato “Amabili resti” di Peter Jackson che in un certo senso è il remake non voluto al film di LaLoggia. Anche quello è una storia che parla di perdita, della sottile e ignara comunione tra vivi e morti e l’interazione spirituale veicolata dalle emozioni, con una visione euforica e leziosa dell’aldilà e il continuo andirivieni di luci e tenebre, follia e poesia, beatitudine e sofferenza delle anime dei morti ammazzati, costrette a vagare in un limbo di solitudine e atroci ricordi, in attesa che qualcuno renda giustizia al delitto che li ha condannati a quello stato di terribile ed estenuante transizione.

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In effetti, i primi minuti, con questo sguardo coinvolto, molto nostalgico verso l’infanzia italiana del protagonista su uno sfondo profondamente americano (la festa di Halloween), alla Stephen King, con la scena del bambino (il piccolo Lukas Haas, indimenticabile orecchie a sventola di Witness) in cui legge una storia di mostri al resto della classe e dimostra già quel talento preannunciato all’inizio (Stand By Me), con lo scrittore adulto, affermato, che torna al paese ma prima di raggiungerlo chiede al tassista di fare sosta in un piccolo cimitero e rendere omaggio a due tombe dimenticate.

Tutto questo è accompagnato da una colonna sonora, composta dallo stesso LaLoggia, che è chiassosa e a tratti indigeribile: tra campane, ottoni, violini, arpeggi elettronici, i cori di suore erogene alla Sister Act e un tocco di ironia generale che dispongono a una specie di E.T., in salsa horror, con l’amicizia tra un fantasma e il bambino, ma LaLoggia così facendo non ci sta preparando all’orrore crudo che vuole raccontarci, ci mette a sedere, dandoci una pacca sulla spalla, offrendoci dei graziosi dolcetti tradizionali della sua terra d’origine, abbassa la nostra guardia di spettatori smaliziati e ci travolge con una storia di pedofilia e omicidi seriali quando meno ce l’aspettiamo. La bambina fantasma che appare nello sgabuzzino in cui il piccolo Scarlatti viene intrappolato dai suoi compagni di classe, è strangolata da mani invisibili, in un rivoltamento curioso in cui il fantasma si vede e il vivo che la sta uccidendo no. La ragazzina che si torce e grida mammaaaa sprecando l’ultima scorta di ossigeno prima di cedere alla furia del maniaco è mostrata in modo pornografico, senza stacchi o ellissi, tutto fino in fondo, giù come una medicina amara ma necessaria che ci tramortisce e disgusta. A quel punto capiamo di non poterci fidare di Frank LaLoggia e la sua colonna sonora stile film natalizio tedesco assume connotati assai più sinistri.

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Il problema di Scarlatti è lo stesso di Scuola di Mostri: un film ibrido, mascherato da film per famiglie che si rivela troppo duro ma non è abbastanza per un pubblico adulto in cerca di forti emozioni. O meglio, ne offre fino a commuovere ma non è Halloween o Nightmare. Il film di LaLoggia potrebbe essere la versione tragica e sentimentale di quello di Dekker. I pupazzetti di Frankenstein, Dracula, l’uomo lupo e la mummia, vicini alla finestra aperta sulla notte, con la tenda svolazzante e la luce lunare che li trasforma in ombre minacciose mentre la voce della bambina fantasma inizia a cantare lontano, conferma il parallelo tra i due lavori. Anche la piccola ruota che gira sul comodino del ragazzino è il passaggio narrativo per la pala a vento che ruota sopra la casa sfuggita da tutto il paese in cui la pazzia mormora nelle stanze vuote e scruta i bambini da dietro una finestra sporca, il sunto del film è tutto lì, accanto al letto del bambino. Scarlatti usa il lessico delle storie per bambini: è un film pieno di oggetti misteriosi (vecchi bauli, anelli, spille, coniglietti di coccio) e animali birichini, (topi, cuccioli di alligatore), ma racconta della perdita di una persona cara e la follia che ne può scaturire, della morte dell’innocenza e della brutalità del mondo adulto. Lo fa in modo a tratti crudissimo, alla Scorsese, (l’omicidio del nero per mano della pazza) e a tratti, per come viene gestita tutta la parte degli spettri, si potrebbe parlare quasi di fantasy, soprattutto in riferimento alla planata finale della Lady In White, che accorre a far giustizia del cattivo nelle ultime scene.

Scoprire l’assassino non è per niente facile. LaLoggia anche qui ci inganna riempiendoci gli occhi e le orecchie di sentimentalismo proprio nell’unica scena che potrebbe suggerirci qualcosa, (Spolier!) quella del toccante dialogo tra il papà di Scarlatti (Alex Rocco – il Moe Green di Il Padrino) e il suo fratello adottivo. Il passo sornione, a tratti snervante, aumenta la nostra vulnerabilità ai colpi di scena. Potremmo parlare di uno stile mafioso, mellifluo, falso, caciarone del regista, che ci distrae mentre sta portandoci in bocca al maniaco, modus operandi da vero figghio de bottana de noautri!

Francesco Ceccamea

Scarlatti – Il thriller

Titolo originale: Lady in white

Anno: 1988

Regia: Frank LaLoggia

Interpreti: Lukas Haas, Len Cariou, Alex Rocco, Katherine Helmond, Jason Presson, Renata Vanni, Angelo Bertolini, Joelle Jacobi

Durata: 105 min.

VHS: COLUMBIA (Per tutti accompagnati da un adulto)

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La notte dei demoni

01 giovedì Ago 2013

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, capolavori, demoni, N, Recensioni di Davide Comotti, splatteroni, streghe, tette gratuite, zombi

≈ 6 commenti

Tag

angela, cinema, demoni, kevin s. tenney, la notte dei demoni, lamberto bava, night of the demons, notte di halloween, recensione, recensioni

Se dovessi stilare un elenco di film rappresentativi dell’horror americano anni Ottanta, La notte dei demoni (1988) di Kevin S. Tenney occuperebbe una posizione rilevante. Regista di culto degli eighties made in USA (ricordiamo anche Witchboard, 1986), con Night of the Demons realizza un distillato di sangue, sesso, brividi e ironia che può ergersi decisamente a simbolo dell’estetica del decennio. Un film divertente e senza pretese, da prendere e gustare così com’è, debitore degli slasher-movie a base di teenager arrapati ma anche della Casa (1981) di Sam Raimi (con le dovute distanze, s’intende).

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La trama è semplice, e pur sapendo un po’ di “già visto” risulta abbastanza coinvolgente. Nella notte di Halloween, cinque ragazzi e cinque ragazze decidono di trascorrere una nottata alternativa all’interno di una vecchia impresa di pompe funebri che si dice sia infestata dai demoni. L’organizzatrice della festa è un’esperta di occultismo, e decide di fare una seduta spiritica davanti a uno specchio: compare il volto mostruoso di un demone, lo specchio si rompe e le entità maligne si diffondono per la casa, contagiando man mano tutti gli ospiti, che si trasformano in zombi sanguinari. Inizia così una paurosa lotta per la vita: fuggire è impossibile, visto che il cancello è scomparso. Solo due ci riusciranno, ma al mattino successivo le mostruosità non sono finite.

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I punti forti del film non sono sicuramente né le recitazioni né la sceneggiatura, ma questo fa parte del “gioco”. Gli attori, semi-sconosciuti almeno in Italia, recitano (si fa per dire) in maniera assolutamente sopra le righe, con dialoghi puerili, costantemente riferiti al sesso e infarciti di turpiloqui. Pur essendo la notte di Halloween (Carpenter docet), com’è evidente dalla zucca che compare all’inizio del film, spesso viene nominata come “carnevale” (non saprei dire se negli Stati Uniti queste due feste coincidono). E, in effetti, i costumi dei protagonisti non sono certo da paura: vediamo ragazzi vestiti da pirati o da maiali, ragazze abbigliate come principesse, bambole o Alice di Lewis Carroll, mentre alcuni non sono neanche in costume. La vicenda fa un po’ fatica a decollare, visto che nella prima mezzora succede poco o nulla: la regia ci mostra le peripezie dei giovani protagonisti, il loro arrivo nella tetra magione e l’inizio della festa. Finalmente, quando lo spettatore inizia un po’ a stancarsi, arriva la seduta spiritica (originale, bisogna ammetterlo, visto che si svolge davanti a uno specchio), e da questo momento comincia il divertimento. Grande merito agli effetti speciali di Steve Johnson, la vera delizia del film: sangue finto, lattice e gomma (bello il mascherone del demone) la fanno da padrone, in un vortice visivo simbolo degli eigthies, dove la paura e la violenza sono costantemente mescolati con l’ironia e l’esibizione di grazie femminili, il tutto accompagnato da colori saturi (il rosso in particolare) e da brani rock.

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L’arrivo dei demoni, dopo la rottura dello specchio, è realizzata seguendo l’esempio di Sam Raimi, con un’efficace e vertiginosa steady-cam che dalla cantina attraversa la villa labirintica e giunge fino alla bocca di una ragazza, impossessandosene. Debitore della Casa è, evidentemente, anche il look zombiesco dei ragazzi posseduti, col volto semi-decomposto e la voce in stile Regan nell’Esorcista. Indimenticabili alcuni effetti speciali: la ragazza che fa rientrare il rossetto dentro il seno, il braccio staccato che prende vita, la lingua strappata a morsi, gli occhi schiacciati nelle orbite, la gola squarciata del vecchio nell’ultima scena, in un tripudio di splatter. Suggestiva anche l’avanzata degli zombi nel finale, dal gusto un po’ romeriano: peccato che poi si dissolvano in una nuvola di fumo verde senza che si possa vedere nulla (qui si poteva fare di meglio).

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La colonna sonora del film è composta da Dennis Michael Tenney, e viaggia praticamente sempre sullo stile dei titoli di testa, con musiche rock martellanti ed elettroniche; così come il brano aggiunto Stigmata Martyr dei Bauhaus, sulle cui note balla Amelia Kincade (Angela, l’occultista), accompagnata da luci stroboscopiche: un’affascinante sequenza dark-rock da videoclip, orgogliosamente anni Ottanta. In tal senso, riveste una notevole importanza anche la fotografia, a cura di David Lewis, che dà il suo meglio nei momenti più “colorati”, con la predominanza del rosso e in generale dei colori “caldi”; belle anche le luci che entrano “di taglio” dalle finestre.

Due note curiose, in conclusione: il film, da noi poco conosciuto, è invece un cult negli USA, tanto da aver dato origine a due remake (Night of the Demons 2 e 3); i demoni del film assomigliano parecchio a quelli dell’horror Demoni di Lamberto Bava (simbolo dell’horror nostrano anni Ottanta), diretto nel 1985: forse, per una volta, sono stati gli americani a ispirarsi al modello italiano.

Davide Comotti

La notte dei demoni

Titolo originale: Night of the demons

Anno: 1988

Regia: Kevin Tenney

Cast: Alvin Alexis, Alison Barron, Lance Fenton, William Gallo, Hal Havins, Cathy Podewell, Linnea Quigley

Durata: 90 min.

VHS: PANARECORD

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