Come l’anno scorso eccovi a scrivere la sera del 31 Ottobre perchè per colpa (o per merito) di John Carpenter a noi Halloween piace. E come l’anno scorso postiamo la link di un film che abbiamo scelto tra i tanti per rendere particolare questo nostro/vostro Carnevale parte 2 per poi tra due ore esatte postarvi la recensione. Se non siete addormentati o in qualche festa a fare dolcetto e scherzetto noi saremmo con voi e, se avete voglia, diteci la vostra sul film. Bello, brutto, ma che cazzo avete scelto perchè a noi interessa cosa voi pensiate sempre e comunque. Comunque bando alle ciance, il film di stasera è Spookies del 1987, strano prodotto sulla scia di Evil dead con zombi scoreggioni e donne ragno letali. E’ una follia ma di quelle che rendono più leggero il cuore e che aimè non fanno più. Conto alla rovescia. Meno otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno… Buona visione e a tra poco.
Wendy Flemming/Ann Cooper :- [in lacrime] “Stephanie, c’è qualcosa che non va in me e io non so cosa sia. Sto avendo questi incubi terribili, questi mal di testa, i capelli, mi stanno facendo sbattere la testa nel muro.”
Un uomo in fuga dalla discoteca: C’è un maniaco calvo là dentro, vestito come un pipistrello di merda!”
“Blue Sunshine”, seconda regia di Lieberman dopo il moderato successo di “Squirm”, viene spesso descritto come una allucinata storia dell’era hippie, di denuncia dell’LSD utilizzato come merce di scambio dalla politica e dal supermarket del consumismo. In realtà, “Blue Sunshine” rimane un classico titolo del genere ma ingiustamente trascurato che offre una fusione sapiente di alcuni topòi da film horror, satira sociale e stranezze da cult-film. La premessa è, in ogni senso della parola, fantastica: un gruppo di tizi ex-compagni al college ne “L’Era dell’Acquario” degli anni ’60, che sviluppa e soccombe in massima parte ad un “danno cromosomico” causato dalla comune assunzione di uno sperimentale e potentissimo tipo di LSD, 10 anni dopo. Perdendo tutti i capelli, e trasformandosi in lunatici omicidi. Lanciando lo script, prendendo da alcune storie dell’orrore concernenti il governo degli Stati Uniti circa l’uso di acidi, al valore del make-up facciale presente nel film, Lieberman come sempre regista e sceneggiatore, elabora uno scenario che interrogava già nel 1978 una valutazione mitica della controcultura, della sua propria eredità, mentre allo stesso tempo attaccava il conformismo borghese e l’atomizzazione suburbana dei rapporti umani.
Prima che i titoli di testa siano partiti, una serie di piccole scene ha introdotto la maggior parte dei personaggi del film e adombrato i suoi temi principali. All’inizio abbiamo un malato di cancro sotto cura chemioterapica da parte del dottor David Blume (Robert Walden) il quale gli dice che non sembra stia andando tanto bene. La sig,ra O’Malley (Adriana Shaw) è una casalinga che si lamenta con il suo vicino di casa dei brutti sogni del marito John (Bill Cameron), reso sempre più difficile dal bere, e della sua perdita di capelli. La figlia di una sua amica, Wendy (Ann Cooper) guarda una pubblicità politica a pagamento per il suo ex marito, l’ aspirante politico Ed Flemming (Mark Goddard). La pubblicità dice: “Negli anni sessanta Ed Flemming e la sua generazione hanno scosso il sistema e ora stanno lavorando per cambiarlo dall’interno di esso.». La rivoluzione che si trasforma rapidamente in sistemazione personale e fattiva collaborazione con il sistema. Più tardi Flemming tiene un discorso teso a sottolineare la sua vacuità retorica, il mettersi in bocca vuote banalità motivazionali come “Si può e si deve! Dobbiamo! E lo faremo!” Brandizzando se stesso come il futuro, Flemming è pronto e disposto a capitalizzare la sua carriera politica svendendo al mercato della politica il proprio e altrui passato.
La scena successiva introduce gli spettatori al vero protagonista di “Blue Sunshine”, il pacifista in servizio permanente attivo Jerry Zipkin (interpretato dal futuro noto produttore e regista di erotici patinati come “Orchidea selvaggia”, Zalman King), e la sua fica Alicia (Deborah Winters). L’atmosfera iniziale di invitante calorosa nostalgia per il decennio precedente avrebbe potuto essere presa direttamente da “The Big Chill”(Il Grande freddo) (1983) di Lawrence Kasdan, e non lascerebbe presagire minimamente la successiva fluttuante stranezza del film, che inizia quando alcuni festaioli si mescolano con le piccole chiacchiere davanti ad un focolare tremolante, dentro una casa di legno in mezzo ad un bosco. Tutto ad un tratto, un uomo (Brion James, sì proprio lui il grande Brion, in uno dei primi ruoli), la cui sofferenza sembra dettata da una sorta di flashback allucinatorio, entra nella sua migliore imitazione di Rodan il mostro alato, agitandosi con le braccia in giro per la stanza per poi stramazzare sul pavimento. Scendendo le scale, l’ospite Frannie Scott (Richard Crystal, l’immaturo fratello di Jerry) si lancia in un numero di Sinatra. Quando arriva il suo compagno frocione, egli come indignato lo afferra, strappandosi la parrucca nella colluttazione e rivelando una testa pelata macchiata da alcuni ciuffetti di capelli. Frannie fugge nel bosco e gli amici si gettano fuori alla sua ricerca.
Quando poi egli ritornerà alla casa, è ora occupata solo da tre donne, ragion per cui assistiamo alla sua trasformazione in una sorta di amok, che senza alcun senso le batte e ribatte a cazzotti e poi sul rivestimento del camino (!) , un crimine terribile, con la scusa del quale la polizia farà alla fine pressione proprio su Jerry, per la sua abitudine di fabbricare prove contrarie alla polizia, e per incastrarlo. Quindi il film ha un debito strutturale evidente al marchio registico e motivo hitchcockiano dell’uomo sbagliato braccato dalla polizia.
Ferito e in fuga Zipkin rintraccia un vecchio amico, il Dr. Blume appunto, per delle cure mediche. Rubato un abito a tre pezzi di Blume (la sua idea di adottare un travestimento), Zipkin si propone di scoprire perché Frannie Scott andò proprio da lui quella notte. Il percorso lo porterà presto dritto allo spacciatore adesso trasformatosi nello speranzoso di elezione al Congresso Ed Flemming e dal suo braccio destro, l’ex giocatore di football eroe del college Wayne Mulligan/Ray Young (“Il grande N° 32”). Ma non prima che Zipkin legga sul giornale che John O’Malley ha massacrato tutta la sua famiglia, il suo vicino di casa, e anche il cane dell’uomo. Zipkin irrompe quindi nella casa degli O’Malley per indagare sulla scena del crimine, che prende vita nella sua mente (a la “Manhunter”), un mix esasperante di urla pietose e del cane che abbaia sovrapposte sulla colonna sonora, che si conclude con un immaginato confronto con l’autore del reato. La risposta di Jerry a tutta questa violenza e spargimento di sangue è l’iperventilazione, subendo un attacco di panico. Egli non è affatto un tipo in pace più di tanto, anzi. Per inciso, gli esterni di questa scena sono stati girati nello stesso isolato di periferia che diversi anni più tardi fornì l’ambientazione per Wes Craven in “Nightmare -Dal profondo della notte”(A Nightmare in Elm Street).
Lieberman riutilizza questa tecnica di montaggio audio su descritta, semplice ma efficace quando Wendy Flemming impazzisce. Un’allucinante crescendo di bambini che urlano il suo nome più e più volte, intervallato da clamorose invocazioni per hot dog e Dr. Pepper, che lei cerca invano di allontanare via inghiottendo manciate di Anacin. Alla fine cedendo, la vediamo che va verso i bambini con un coltello da macellaio. Più tardi, Zipkin attende Blume a Echo Park, sperando di farsi consegnare un potentissimo farmaco tranquillante sperimentale che spera sarà sufficiente per abbattere l’epidemia di maniacale furia omiciida. Un drogato (Jeffrey Druce) lo prende per un compagno di trip, scivolando verso la sua commiserazione. Quando Jerry viene spaventato da uno strambo pelato, che assomiglia a un incrocio tra il mai dimenticato cantante dei Midnight Oil e Plutone/Michael Berryman de “Le Colline hanno gli occhi” (The Hills Have Eyes)(1977) sempre di Wes Craven , spaventa il drogato tanto da sbraitargli “Via di qui!” in faccia fino a quando egli non lo fa. Secondo Lieberman, questo fu un momento estemporaneo, creato sul posto, ed esemplificante le disorientante atmosfera del film, permeata di tocchi surreali e borderline, immotivata e ingiustificata anche dalle severe esigenze della storia, e che contribuisce alla costruzione di un clima di diffusa anomalia.
Parlando di atipico, l’interpretazione di Zalman King si trasforma in una rappresentazione doppiamente bizzarra, oscillando tra il fare quasi nulla, sussurrando le sue battute, contrazioni come un epilettico in preda alla sonnolenza dopo un attacco, e componendo il tutto in modalità forza 5 per una massima intensità da freak-out . Manierata, non si avvicinerebbe nemmeno alla descrizione di un tale stato, ma in qualche modo coniugandosi con il resto del film, in tandem con elementi descritti altrove esaurientemente, di grottesco, essa funziona.
La strabiliante conclusione avviene a Shoppers World, uno dei primi complessi e centri commerciali di periferia di Los Angeles, laddove è ambientata la vigilia elettorale di Ed Flemming con una “festa” spettacolare, comprendente i sosia di Barbra Streisand e Frank Sinatra, a offrire un divertimento optional. Come in “Dawn of the Dead” di George Romero, il centro commerciale è laddove sempre andiamo, perché non ricordiamo né conosciamo più niente di meglio, dunque il posto più probabile per essere venduto un disegno di legge che riguardi il nostro benessere, sia che si tratti di puro piacere o di finta politica da baraccone. (In una scena precedente, quando Wendy e Jerry discutono del suo ex, lui dice: “L’ho visto in un comizio la scorsa settimana. E’ un ottimo venditore.”) Mentre Jerry tiene d’occhio Ed, Alicia incontra il grande Wayne Mulligan a Big Daddy , una discoteca attaccata al centro commerciale. Purtroppo per lei, Wayne sta per perdere i suoi capelli e la sua mente. Nella scena più bella del film, Wayne demolisce la discoteca, terrorizzando le persone che sono lì ballare e lanciandoli poi dappertutto come bambole di pezza. Prende una ragazza e la getta letteralmente sopra un gruppo di clienti. Alicia deve cercare riparo nella cabina del DJ, le luci stroboscopiche colorate formano schemi astratti sul suo viso, mentre Wayne infuria. Parla del tuo panico della disco! Quando gli avventori della discoteca terrorizzati fuggono travolgendo il comizio di Flemming, uno dei fuggitivi ci offre la battuta finale: “C’è un pelato maniaco là e ha intenzione di massacrarci tutti.”
Inseguendo Wayne attraverso un grande magazzino vuoto, Jerry ottiene di riuscire a colpirlo con un dardo tranquillante. L’evoluzione di Jerry nel corso del film dall’inizio vestito con il suo maglione rosso, ad agitato pistolero improvvisato, nonché il suo coinvolgimento con il funzionamento interno di una campagna politica, suona un po’ come una fioca parodia dello Scorsese di “Taxi Driver”. Nell’inquadratura finale del film la macchina da presa lo segue all’indietro lungo una delle navate del magazzino, e i titoli in sovraimpressione informano con finta solennità lo spettatore che, secondo i risultati di una task force appositamente convocata dalla DEA, oltre 200 dosi di LSD “Blue Sunshine” rimangono ancora disperse.
“Blue Sunshine” non è mai stato programmato dalla tv in Italia a quanto mi consta neppure ad aggi, né è mai uscito nell’ home video del nostro paese. Non è però da noi un assoluto inedito in quanto godette di una limitata distribuzione nelle sale del giugno 1979, grazie ai mitici Distributori Indipendenti Regionali, con il titolo “Sindrome del terrore”.
E’ grazie alla sempre benemerita Synapse Films, che anche negli Stati Uniti il film nel 2003 è stato riesumato dall’oblio, grazie ad un trasferimento rimasterizzato in un dvd in edizione limitata, dall’immagine granulosa ma anche morbida in molte scene di scarsa luminosità e ce ne sono parecchie. Certo l’artefatti e le imperfezioni ci sono, ma è comunque altamente guardabile soprattutto poi considerando le vecchie edizioni vhs e file rip in cui era unicamente disponibile in precedenza, il film. E’ stato successivamente editato in una nuova edizione in dvd, ma con una traccia audio solamente in Dolby stereo 2.0, non il pompato Dolby 5.1 remix disponibile sul disco Synapse, che ho. Per quanto riguarda gli extra, l’edizione Synapse offre un’intervista di ca. 40′ con Lieberman, che ci parla della genesi di “Blue Sunshine”, delle condizioni in cui si trovò a girarlo, e a casaccio, dello stato attuale (nel 2003) del genere horror, con particolare attenzione alla già imperante moda commerciale dei remake. Fortunatamente, come visto anche nella nuova intervista di pochi mesi fa che lo concerne e contenuta nel Blu-ray/dvd di “Squirm”(I Carnivori venuti dalla Savana), di cui vi ho già parlato, Lieberman resta una veloce e divertente guida. Come unico altro contenuto, il dvd presenta una galleria fotografica che ci offre uno sguardo più ravvicinato a certe immagini e situazioni che Lieberman descrive durante l’intervista.
In definitiva, “Blue Sunshine” ci avrebbe lasciato detto, con tutti quei nudi, tipi strani reduci dal fango di Woodstock, che essi non sarebbero divenuti comunque meglio di così, e anche se non avessero inghiottito a suo tempo quell’acido marrone, dopo tutto.
“The Music of Love”
Parole di Carolyn Leigh
Composta ed eseguita da Diane Leslie
“Just In Time”
Parole di Betty Comden e Adolph Green
Musiche di Jule Styne
“Blue Disco”
Parole di Billy Jackson, Musica di Jay Ferguson e Paul Griffin
Eseguita da The Humane Society for the Preservation of Good Music
“Blue Sunshine”
Parole di Billy Jackson, Musica di Jay Ferguson e Paul Griffin
Cantata da The Humane Society for the Preservation of Good Music
La versione del 2002 della Synapse Films in dvd è stata restaurata da una copia completamente uncut, archiviata in un interpositivo 35 millimetri, come invece tutti gli elementi originali del film erano stati persi o distrutti. Incluso nelle prime 50.000 copie di questa edizione vi è un CD della colonna sonora originale. CD e DVD sono state prodotti sotto la supervisione di Lieberman. Secondo lo stesso nel commento del DVD,
Jeff Goldblum aveva quasi ottenuto la parte del ”Dr. David Blume”, ma venne sostituito da Robert Walden perché Lieberman sentiva che Goldblum e il protagonista Zalman King sembravano troppo simili.
Lieberman ha dichiarato che al termine del film, due reti televisive importanti avevano espresso interesse per l’acquisto del film da trasmettere come un “Movie of the week”, un’idea che inizialmente sembrava molto interessante, in quanto l’ammontare offerto era il doppio del budget del film. Tuttavia, dopo aver visto l’elenco delle modifiche richieste – e rendendosi conto che accettando la loro offerta il film sarebbe dovuto essere stato scorciato a non più di un’ora – Lieberman ha deciso di rifiutare e di far uscire il suo film nella versione cinematografica.
Sempre secondo Lieberman, alcuni club musicali di New York come il CBGB avrebbero spesso proiettato il film come supporto visivo durante le esibizioni di gruppi punk quali i Ramones, in particolare la scena di attacco in discoteca. Egli ha umoristicamente ritenuto che questo fosse un modo per questi artisti di “merda” di esprimere il loro generale distinguersi dalla scena musicale della disco.
Nel commento del dvd Lieberman dice che la luna piena vista durante i crediti degli attori nella pellicola era una intenzionale prefigurazione della lunaticità dei calvi.
Originariamente Lieberman aveva scritto il film per essere ambientato a New York, ma l’impostazione generale venne cambiata a Los Angeles quando il bilancio della pellicola costrinse la produzione a farlo girare lì.
Il film venne girato in sole cinque settimane.
La voce del pappagallo di O’Malley, che dice per primo la parola “Blue Sunshine” è stata quella di Lieberman.
Stefan Gierasch, che interpreta il tenente Jennings, è stato originariamente ipotizzato come l’interprete del detective che persegue Zipkin per tutto il film. Purtroppo dopo aver girato una delle prime scene Gierasch subì una grave ferita alla gamba durante un incidente e Charles Siebert dovette sostituirlo per interpretarne il ruolo. Questo è il motivo per cui Gierasch compare solo brevemente nel film.
Stephanie, una dei due bambini del film dovette essere impersonata dalla terza figlia di Lieberman di un anno. La ragione di questo fu che i genitori di entrambi gli attori bambini li ritirarono dalle riprese dopo aver visto una scena degli attacchi, potenzialmente troppo inquietante per non colpirli negativamente. Purtroppo i due bambini non furono già più disponibili prima che potessero essere in loop per l’audio.
La discoteca in cui è ambientato climax del film era in realtà un bar country-western a Los Angeles che venne convertita in una discoteca hi tech. Al momento di girare la mania della disco non aveva ancora raggiunto la West Coast.
Secondo Lieberman, il New York Post fece un articolo su “Blue Sunshine”, ma a quanto pare esso era pieno di imprecisioni. Il film si conclude sì con una dichiarazione che suggerisce esso come basato su eventi realmente accaduti, ma in realtà come per “Squirm” non era vero, e del tutto fittizio . Tuttavia nell’articolo venne fatta confusione, perché si affermava che Blue Sunshine fosse stata una vera epidemia di LSD e il film si fosse basato su di essa. Questo è, ovviamente, falso.
Napoleone Wilson
Sindrome del terrore
Titolo originale: Blue Sunshine
Anno: 1978
Regia: Jeff Lieberman
Interpreti: Zalman King, Deborah Winters, Mark Goddard, Robert Walden, Charles Siebert, Ann Cooper, Ray Young, Alice Ghostley, Stefan Gierasch, Richard Crystal, Bill Adler, Barbara Quinn, Adriana Shaw, Bill Sorrells
Probabilmente ci sarà oggi un fuggi fuggi generale nel leggere questo titolo. La tomba. Ai più, soprattutto i lettori dai capelli ancora scuri, tornerà (forse) alla memoria un terribile film italiano di inizio millennio, girato da un Bruno Mattei in fase creativa terminale, un baraccone di luci laser e cartapesta da fare invidia all’attrazione egizia di Gardaland. Ecco lì si poteva trovare tutto il peggio del cinema horror italico condensato in una sola pellicola tra il miserabile e il commovente, il tentare di fare un film anche con un digitale da porno casalingo, l’aggrapparsi ad un passato glorioso di luci e cottillon quando il presente è povertà e gas staccato. Bruno Mattei resterà nei nostri cuori per Virus o altre riuscite follie horror, ma non di certo per La Tomba. State comodi comunque, tirate un sospiro di sollievo e riprendete i pop corn da terra. Oggi si parlerà di un’altra La tomba.
Non è questo film, state tranquilli!
Dobbiamo fare un passo indietro e torniamo ad inizio anni 80, il meraviglioso periodo che ha visto la nascita di tanti capolavori del cinema horror americano, i vari Maniac, Ammazzavampiri e Texas chainsaw massacre 2. Ecco, come in ogni Paese, Italia compresa, per ogni bel film ce n’erano almeno 10 così così e 200 orribili. E’ una legge universale di compensazione, un po’ come quella che sancisce che per ogni Madonna bestemmiata un pezzo di Paradiso crolla. Ecco io devo averlo demolito il Paradiso! Comunque in quella mecca dorata che era la Hollywood degli anni 80 (o i suoi infimi sobborghi) c’era un regista che muoveva i suoi primi passi, Fred Olen Ray. Di lui abbiamo parlato già per almeno due follie, Evil toons ovvero il Roger Rabbit dei maniaci sessuali e Patto a tre, un bieco e noiosissimo thriller. Ecco Olen Ray è l’incarnazione del regista tipo da B movie, capace anche di girare cose decenti (il pulp Notte di terrore) ma in cambio di almeno 800 altri film tra il brutto e l’osceno. A lui non importano le belle inquadrature, l’occhio della madre, il montaggio analogico, il particolare degli stivali dei soldati, a lui interessa divertirsi girando sempre e comunque.
Il nostro Roger Corman delle chiappe sode e delle Playmates assassine se ne sbatte i cosidetti di ogni bonton cinematografico, non c’è nei suoi film una sola sola sequenza che riporti a Dio, una storia che ti faccia interessare e tenere il culone flaccido sulla poltrona, no a lui interessano i party, le musiche e brigitte brigitte bardot a trenino con il pisello sempre bello barzotto! Questo La tomba è uno dei suoi primi film, arrivato in Italia direttamente in vhs in un’edizione abbastanza indecente a livello di doppiaggio e qualità video. Eppure per La tomba la giusta dimensione è questa: lo scalcagnato mondo dell’home video o delle tv regionali. Prima, nella filmografia di Olen Ray, si poteva solo ricordare Scalps, horror pauperistico sulla vendetta di uno spirito indiano ai danni di un gruppo di ragazzi, un horroraccio fatto di fretta ma non disprezzabile, un passo avanti come intenzioni a quasi tutti i lavori futuri di questo regista. La tomba non è ancora un film sciaguratamente brutto, ma è comunque un horror sbagliato e sbilanciato, ricco di assurdità a livello narrativo e sciatterie tecniche.
Sybil Danning presente in due fotogrammi
In alcuni poster (compresa la copertina italiana) poi viene dato risalto alla partecipazione della bella e popputa Sybil Danning, fresca fresca del terribile lesbo seguito de L’ululato, anche se la sua presenza nel film di Olen Ray è di una manciata di secondi all’inizio. Facile sparare su un film come La tomba, ma sarebbe ingiusto non evidenziarne i pregi che lo rendono opera da recuperare e piacevole comunque da vedere. In primis il ritmo è veloce e il referente più vicino è L’Indiana Jones di Spielberg con le sue atmosfere a metà tra l’orrorifico e l’avventuroso, facendo i dovuti paragoni naturalmente tra le ambizioni di Olen Ray e la grandezza di un I predatori dell’arca perduta. A questo punto bisognerebbe dire che La tomba ricorda nei momenti migliori uno dei Fulci minori del periodo aureo, quel Manhattan Baby che sapeva, non senza una grande atmosfera, trasportare nei territori del nostro cinema di genere il tema poco sfruttato delle mummie e delle maledizioni egizie, pane più per l’inglese Hammer.
Peccato che La tomba non sia solo un film di grandi momenti, anzi, ma ha dalla sua comunque degli ottimi effetti speciali: come non apprezzare l’arrivo di Nephratis, divinità crudele e sanguinaria, sotto le spoglie di uno spaventoso vampiro o l’idea di uno scorpione sotto pelle? Merito del lavoro svolto dai fratelli Mixon, Bart e Bret, all’opera in seguito anche per lavori più celebrati come il Dracula di Coppola, nomi tutelari nella tecnica ormai desueta della rotoscopia, una specie di proto green screen. Si vocifera leggendo in rete che agli effetti speciali collaborò anche un giovane Robert Kurtzman, il fondatore con Nicotero e Berger della KNB, la maggiore casa di effettistica per horror degli anni 80/90, ma non ho trovato riscontro ufficiale da nessuna parte. Pure il cast è di alto livello: troviamo attori di un certo culto, anche se solo in brevissime sequenze, come Cameron Mitchell, John Carradine e la tettona per eccellenza di Russ Meyer, Kitten Natividad. La protagonista, Susan Stokey, fece poco o niente nel cinema, soprattutto produzioni Olen Ray compreso il poliziesco pre tarantiniano Risposta armata con David Carradine e Lee Van Cleef, mentre la cattivissima Nephratis era interpretata dalla Penthouse girl del 1981, Michelle Bauer, bellissima donna dalla carriera scandida da brutti film (anche di Jess Franco) e porno bondage. Per risparmiare sui trucchi oltretutto si scritturò un’altra altra attrice più anziana, Katina Garner, per interpretare l’egiziana vampira in versione vecchia! Olen Ray gira con gusto le scene più d’azione e ha un buon gusto nell’abbinare la musica (il bellissimo score di Drew Neumann) con le sequenze più concitate. Ci sono echi di Ammazzavampiri (la scena della discoteca) e un gusto gratuito, da B movie driviniano, nel pensare alle sequenze di morte (l’omicidio della lesbica avventrice a base di serpenti) soprattutto nella commovente ricerca del nudo a tutti i costi. Atroci invece i dialoghi con una polizia che spara deliranti affermazioni (“Mi dispiace per tuo padre ma siamo ad Hollywood”) ed un grado di stupidaggine non proprio comune nel tratteggiare i vari personaggi, anonimi e incolore come pochi altri.
Dispiace perchè il personaggio dell’archelogo spielberghiano, un po’ eroe un po’ figlio di mignotta, interpretato da David O’Hara non era male ma il suo ruolo è nettamente inferiore alle premesse iniziali pur apparendo persino in copertina alla vhs! Certo è che l’iniziale sceneggiatura di un Kenneth J. Hall alla sua opera prima (suo per esempio Puppet master) doveva essere diversa dal film girato visto che fu stravolta dal collaboratore di fiducia di Olen Ray, T.L. Lankford, che sembra aggiunse intere sequenze e ne eliminò altre: a lui va la gloria dei già miticizzati dialoghi recitati dagli attori. Altra nota negativa è il finale di agghiacciante velocità e stupidità, con Nephratis che muore arsa viva senza un vero perchè e David O’Hara che accende un sigaro sul suo cadavere dicendo “Non volevo bruciasse da sola”. La tomba è un film che non consigliereste mai a nessuno, ma che magari potreste trovare persino divertente. E’ certo un’opera mediocre ma che possiede la follia d tutti quegli scalcinati B movie che uscivano da noi soltanto in vhs. La tomba di Bruno Mattei, per tornare all’inizio, era altrettanto brutta ma mancava di tutto il divertimento scellerato che uno scult deve avere e che a suo modo lo rende immortale.
NOTA:
Una cosa mi ha sorpreso e qualcuno forse mi potrà aiutare a svelare l’arcano: perchè all’inizio gli avventurieri entrano nella tomba sotterranea con delle torce
se poi nella sequenza dopo si notano chiaramente delle finestre?
Che Tomba sotterranea è????
Fred Olen Ray che sussurra “A me piace la figa”
Eh già…
Andrea Lanza
La tomba
Titolo originale: The Tomb
Anno: 1986
Regia: Fred Olen Ray
Interpreti: Cameron Mitchell, John Carradine, Sybil Danning, Susan Stokey, Richard Hench, Michelle Bauer, David O’Hara, George Hoth, Stu Weltman, Frank McDonald, Victor von Wright, Jack Frankel, Peter Conway, Brad Arrington, Emmanuel Shipov
“Una valanga di vermi assassini … contorcendosi su tutta la terra in una marea di terrore!” “Questa è stata la notte del TERRORE CHE STRISCIA!”
“La notte è piena di Killers”
Frasi di lancio originali del film
Durante un violento temporale nell’America rurale del 1975, un pilone elettrico da milioni di volt cade nel fango bagnato Migliaia di particolarmente raccapriccianti vermi zannati e millepiedi si contorcono con il desiderio di divorare carne umana, tant’è che usciranno tutti allo scoperto di lì a poche notti per attaccare gli abitanti della piccola cittadina di Fly Creek in Georgia. Non sorprendentemente, la tempesta elettrica coincide con l’arrivo di Mick (Don Scardino), che è venuto da New York a corteggiare la bella locale Geri Sanders (Patricia Pearcy che abbiamo visto in diversi episodi di serie tv settantesche e qui nel ruolo che doveva essere di una giovanissima Kim Basinger, topa rossa al posto di bionda seppur non proprio dello stesso livello). Mick incarna tutti i turisti del posto provenienti da New York o luoghi metropolitani simili, connessi con l’inquinamento e la roba brutta che lasciano nelle acque, a far quasi sì che abbia una sorpresa davvero disgustosa quando chiederà una delirante “egg’s cream” nel caffè locale.
I due amanti che però non tromberanno mai per tutto il film, sono al centro del racconto di Jeff Lieberman, e verranno attaccati dagli invertebrati assassini più volte rovinandosi decisamente quella che doveva essere una vacanza romantica, Quando la gente inizia a morire nella città di Geri e adesso di Mark, i due si batteranno unici per scoprire il perché, ma soprattutto facendoci assistere agli arguti e disincantati modi di città da parte di Mark, trovandosi di fronte a diverse situazioni e sequenze davvero raccapriccianti, con i vermi indiscutibili protagonisti.
“Sauirm” in Italia distribuito nel 1977 da Edmondo Amati e la FIDA Film con il sagace “I Carnivori venuti dalla Savana” (1976) fu il film d’esordio di un regista indipendente del new horror americano, Jeff Lieberman, che si sarebbe con questo e una manciata di titoli successivi, guadagnato una certa nicchia di estimatori all’interno del genere.
“Squirm”è certo un’ opera ben consapevole della sua premessa ridicola, anche se come ”parabola ecologica”all’interno del filone fortunato e fiorituro dell’”eco vengeance” settantesco, il film può avere ancora oggi una sua ben autonoma risonanza per il pubblico; anche alla luce di una nuova ondata di cambiamenti climatici che potrebbero provocare orrori ben maggiori. L’uscita del film coincise certamente con un cambio di marcia verso l’autenticità nel cinema di genere settantesco. Sto pensando anche a recenti film dei quali ho pure parlato e che omaggiano, dimostrano una venerazione per titoli come questo e per la loro datazione, gli effetti speciali fisici e del tutto analogici (in “Squirm” opera di un giovane Rick Baker poi destinato a grandissime cose) , per esempio di questi fra i migliori, “Beyond the Black Rainbow” (2010) di Panis Cosmatos e “Berberian Sound Studio”(2012) di Peter Strickland. La vendetta della natura e degli animali, o almeno quella graficamente più fisica e violenta, è adesso di nuovo in scena in molti recenti titoli, nei modi di produzione e dei materiali utilizzati contemporaneamente, come il massiccio utilizzo della mai amata CGI, per realizzare film.
De “I Carnivori venuti dalla Savana” mi è venuto in mente di riparlarvi più che altro perchè ho avuto modo di rivederlo pochi giorni fa dopo ca. 25 anni grazie al recente Blu-ray della Arrow, che include un’interessante Q & A con Lieberman e Scardino (il quale vedemmo in un ruolo abbastanza importante anche in “Cruising” di Billy Friedkin) agli Anthology Archives di New York, l’anno scorso. Le loro storie sulla produzione di “Squirm” e soprattutto dei suoi effetti speciali low-cost ma ancora oggi così efficaci nell’ingenerare genuino terrore e ribrezzo, in un’epoca così pre- CGI oramai incomprensibile ai ragazzini di oggi, sono tanto una parte del film che nella loro di rivisitazione è quasi come guardarlo di nuovo e con un occhio ancora diverso. Importante è anche come il citato grande artista del make-up Rick Baker realizzò per le riprese alcune protesi innovative, così come come il cast “all-star” di 250.000 guizzanti vermi da pesca i quali furono fatti muovere a comando e in cattività, ovviamente – gli “amanti” degli animali si allontanino a questo punto per evitare il sovraccarico di autenticità. Lieberman ci rivela anche come set e stampa inversa siano stati massicciamente utilizzati in alcune scene per creare un particolare effetto inquietante. “Squirm” è difatti messo insieme quasi interamente con grande eccentricità visiva, e parte di questo è la creazione di alcune inquadrature citate anche qui sotto nei trivia, particolarmente inquietanti, bizzarre, per non dire scioccanti.
Il mio preferito aneddoto sentito negli extra del BR è però la storia del rifacimento di un effetto sonoro che era già originariamente presente in “Carrie”, di Brian De Palma, fatto anch’esso nel 1976. Quando Lieberman che era in quel momento alla ricerca di un suono per l’orrendo stridio dei vermi, incontrò il tecnico del suono di “Squirm” Dan Sable, il quale aveva appena lavorato proprio su “Carrie”, che li fece sentire una registrazione agghiacciante del grido di un maiale il quale veniva macellato (basti qui solo ricordare la famosissima sequenza del capolavoro depalmiano, citando il sangue di maiale e il finale alla festa da ballo). Lieberman pensò subito che questo era il suono ideale per il suo sciame rabbioso, e in ultima analisi, esso ha pesantemente dotato il film di un qualcosa in più proprio a livello effettistico del suo sonoro. E ‘interessante sentire che alcuni effetti del suono oramai iconici per lo spettatore rimangano ai più sconosciuti nella loro genesi, e che almeno alcuni abbiano potuto godere di questo tipo di segreta resurrezione. Una certa riemersione del reale è d’altronde ciò che ha sempre donato a questo particolarissimo, repellente, veramente inquietante film di Lieberman, il suo cotè di unicità. Ed è più piacevole che mai poterlo ora vederlo ricomparire sotto le insegne dell’HD e non per come era quasi sempre stato fruito, nel suo cotè estetico graffiato, da pellicola di celluloide in formato Grindhouse.
“I Carnivori venuti dalla savana” è da non molto stato pubblicato anche in italiano in dvd, un ripper di quello MgM U.K.. e R1 del 2004 con audio commentary di Lieberman, Scardino, e come extra unicamente il trailer originale. Ma nel nostro paese era ancjhe sopravvissuto per un buon venticinquennio unicamente nella vecchia mitica vhs da nolo della Video Ciak, un’etichetta creata nel 1987 e distribuita dalla Domovideo quasi esclusivamente per titoli di genere, già con i box di plastica più piccoli, e della quale proprio il film di Lieberman ha rappresentato uno dei suoi titoli ormai più rari e agognati, che io fortunatamente ancora posseggo.
Una volta negli anni ottanta, la WPIX-TV di New York ha mostrato accidentalmente il film in bianco e nero. Invece di lamentarsi, Jeff Lieberman ha chiamato la stazione tv e ha fatto presenta quanto avesse amato l’atmosfera che così guadagnava In realtà, Lieberman preferisce che il pubblico guardi il film in bianco e nero, anche se una versione in bianco e nero non è disponibile. Invece, si dovrebbe semplicemente togliere il colore, come dal televisore
Kim Basinger sostenne un provino per la parte della protagonista femminile.
Sylvester Stallone fu ardentemente inseguito da gli agenti del casting per la parte di Roger, e Martin Sheen venne brevemente aggregato al progetto nel ruolo di Mick
Secondo Lieberman , il motivo per cui l’attrice Jean Sullivan parlava con un accento del sud così esagerato era perché era un fan di Tennesse Willimas e stava tentando di fargli un omaggio.
Nel corso della produzione ci fu un disguido con il laboratorio di lavorazione del film. I filmati di un matrimonio furono accidentalmente inviai a Lieberman mentre il B-Roll di vermi per il film era stato inviato agli sposi!
I suoni stridenti e ultraterreni utilizzati per i vermi sono in realtà i suoni elaborati elettronicamente di urla di maiali nei macelli.
Secondo Lieberman , non è stato usato alcun trucco nella scena in cui l’albero cade e si abbatte sulla sala da pranzo di casa Sanders . Lieberman ha detto che venne fatto tutto in una sola ripresa con un albero effettivamente tagliato per poi essere lasciato cadere da una gru sopra il costruito set, completato con gli stessi attori presenti! Diverse macchine da presa sono state collocate all’interno del set per catturare gli attori letteralmente in fuga per salvarsi quando il grande albero si è abbattuto a pochi metri da loro.
A parte il cast principale il resto delle persone presenti nel film erano abitanti di Port Wentworth, Georgia – la piccola città in cui il film è stato girato in esterni.
L’ispirazione per il film è venuto da un esperimento compiuto nell’infanzia da Lieberman e suo fratello. Una sera i due avevano collegato il trasformatore di un trenino nel terreno bagnato e scaricandone l’elettricità per far fuoriuscire centinai di vermi dalla terra. Il giovane Lieberman notò che i vermi avevano cercato di allontanarsi dal bagliore della torcia che i ragazzi stavano usando per vederli poiché sensibili alla luce. Ciò è diventato la base scientifica dietro questo film e la storia di questo esperimento è ri- raccontata all’interno della trama dal personaggio di Roger Grimes.
R. A. Dow, che ha interpretato Roger, era un attore di metodo che andò a vivere a Port Wentworth, Georgia, un paio di settimane prima delle riprese per ambientarsi in modo tale da poter sviluppare una sensibilità per il carattere dei locali.
La quantità di vermi marini utilizzati nel film era innumerevole, così come la produzione avrebbe ordinato spedizioni di 250.000 vermi Glicera alla volta. La produzione finì per annientare la fornitura al New England di vermi da pesca Glicera per quell’anno.
L’inquadratura dei vermi che cadono dal soffitto del salotto era in realtà rovesciata. La macchina da presa venne capovolta filmando vermi vivi che erano lasciati cadere su un pavimento che era una replica del soffitto. Quando il filmato è stato invertito, è sembrato come se i vermi scendessero dal buco nel soffitto.
Lieberman aveva scelto Brian Smedeley- Aston per montare il film perché Smedley-Aston fu l’editor di “Sadismo”, uno dei film preferiti di Lieberman.
Il film venne girato in 24 giorni.
Lieberman ha citato l’ Hitchcock de “Gli Uccelli” come la più grande influenza per il film.
Nel commento sul DVD R1 del film, Lieberman dice che l’antico casale usato durante le riprese come la casa del signor Beardsley è conosciuto come una delle più famigerate case infestate in Georgia.
Spoiler
Le seguenti voci di curiosità/trivia potrebbero rivelare importanti aspetti della trama
Per la sequenza in cui Willie Grimes viene trovato morto, Carl Dagenhart doveva essere letteralmente sepolto nella terra con soltanto la testa fuori. Un corpo falso brulicante di vermi è stato poi unito alla sua testa che sporgeva per dare l’apparenza che il suo corpo fosse quello divorato e appena steso a terra.
“Squirm” fu pesantemente modificato per la messa in onda su Mystery Science Theater 3000 nel 1999. Tra le molte scene tagliate dal film vi è quella di Mick arrancante attraverso la palude, la conversazione tra Mick e Alma, l’attacco grafico dei vermi sulla faccia di Roger, il destino raccapricciante della signora Sanders, e il climax in cui Roger striscia su Mick e i suoi tentativi di morderlo.
Il film venne inizialmente valutato R dalla MPAA e fatto uscire nelle sale degli Stati Uniti con tale classificazione. Poco dopo questa uscita iniziale uscita cinematografica, il distributore americano la American International Pictures, ha compiuto alcuni piccoli tagli in alcune sequenze e così ri- presentato il film al CARA. Questo nuovo montaggio della pellicola ha ricevuto una valutazione PG e, successivamente, è stato sempre così distribuito nelle sale dalla AIP senza le modifiche supplementari che sono state successivamente ancora appositamente realizzate per la diffusione in video negli Stati Uniti. La versione R-rated ha un po’ più scene del lungo girato sotto la doccia, all’inizio del film, ed è un po’ più lunga nella sequenza in cui i vermi entrano nel volto di Roger.
L’attuale riedizione in VHS della MGM è valutata PG e il DVD è valutato R. La versione R-rated è un minuto più lunga rispetto alla versione PG-rated.
Napoleone Wilson
I carnivori venuti dalla savana
Titolo originale: Squirm
Anno: 1976
Regia: Jeff Lieberman
Interpreti: Walter Dimmick, R. A. Down, Kim Iocovozzi, Julia Klopp, Peter Maclean, William Newman, Frank Niggins, Patricia Pearcy, Barbara Quinn, John Scardino, Jean Sullivan
“Poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale i tedeschi avviarono un’indagine segreta sui poteri soprannaturali. Antiche leggende narravano di una razza di guerrieri che combattevano senza armi né scudi e il cui potere soprannaturale proveniva dalla terra stessa. Mentre la Germania si preparava alla guerra, le SS arruolarono segretamente un gruppo si scienziati per creare un soldato invincibile. Si sa che corpi di soldati uccisi in battaglia furono mandati in un laboratorio segreto vicino a Coblenza dove li usarono per degli esperimenti scientifici. Si dice che verso la fine della guerra gli Alleati incontrarono dei plotoni tedeschi che combatterono senza armi uccidendo solo a mani nude. Nessuno sa chi erano o che fine hanno fatto. Ma una cosa è certa: di tutte le unità delle SS ce ne fu solo una di cui gli Alleati non catturarono mai un soldato.”
E’ con questo potente incipit che si apre “Shock Waves”, zombie movie datato ’77 per la regia di Ken Weiderhorn (in seguito regista dello slasher “Gli occhi dello sconosciuto” e de “Il ritorno dei morti viventi 2”, remake comico de “Il ritorno dei morti viventi”).
Ora, è certo che il regime nazista fosse un regime occulto, esoterico ed oscuro, con tutte le sue teorie sulla razza superiore, gli esperimenti su cavie umane e le spedizioni pseudoscientifiche alla ricerca di leggendari miti nell’Asia centrale… e il fatto o meno che siano riusciti a creare dei super guerrieri rianimando soldati caduti in battaglia è una ipotesi suggestiva e neppure così irreale e fantasiosa come il pensiero comune potrebbe consigliare.
Divagazioni a parte, se l’idea dello Zombi usato come soldato invincibile viene introdotto nel ’36 con “Revolt of Zombies” e l’idea dello Zombi anfibio con “Zombies of Mora Tau” del 1957, è con “Shock Waves” (in Italia “L’Occhio nel Triangolo”) che si assiste per la prima volta all’introduzione di redivivi Zombi Nazisti subacquei. Quindi il film parrebbe partire con pur buone premesse… peccato che, a dirla tutta, non brilla così tanto in maestosità. A tratti sottotono e noioso, con la combriccola di naufraghi protagonisti che stona enormemente al fianco di leggende come Carradine e Cushing, che pur hanno dei ruoli marginali.
La pellicola avrebbe davvero potuto raggiungere vette di eccellenza se alcuni elementi fossero stati studiati e gestiti diversamente.
John Carradine, appunto. Se il suo ruolo fosse stato supportato maggiormente, se avesse avuto più spazio, se invece di farlo morire in maniera inetta a inizio film fosse stato lui la guida e il vero protagonista dell’allegra brigata, la pellicola avrebbe guadagnato in tono e spessore.
Invece Carradine appare quasi come un cameo e bello che cadavere a 23 minuti dall’inizio del film.
Se oltre agli Zombi Nazisti c’è qualcos’altro che salva l’opera dalla mediocrità e la eleva a pellicola di interesse, è l’implacabile interpretazione di Sir Peter Cushing.
Nell’ampio atrio della vecchia magione abbandonata sull’isola, sullo stridente suono di un vecchio grammofono appare lui, Cushing.
Mai così magro, mai così scheletrico, Cushing è “umano”… una volta Comandante del Plotone SS formato da esseri “non morti, non vivi, ma qualcosa di mezzo…” che ora lo reputano un traditore e lo vogliono uccidere.
Il suo volto scavato e sofferente di uomo esiliatosi volontariamente sprigiona una carica di profonda dignità e malinconia sofferenza.
Davvero, se Carradine e Cushing fossero stati i protagonisti indiscussi, la pellicola sarebbe stata un vero capolavoro romantico.
Per carità, il film non è affatto da buttar via. Ha sicuramente anche il pregio di evocare atmosfere claustrofobiche in scenari aperti ed assolati, però… sì insomma, si poteva fare di più.
Ad ogni modo, emblematica e suggestiva la sequenza che vede i Nazi Zombi emergere dalle acque, sulle tese note della musica elettronica di Richard Einhorn.
La figura del soldato nazista è, nell’immaginario collettivo, una sorta di archetipo del male, di una violenta e perversa imposizione dell’autorità.
L’idea del nazismo sviluppa nell’inconscio l’idea di un male latente, sempre pronto ad esplodere con feroce violenza… e questa tirannica autorità scoppierà 30 anni dopo la fine della guerra, con l’antica nave tedesca “ritornante” dalle profondità marine con il suo tetro equipaggio di Zombie SS pronto a spargere sangue e fare esplodere, nuovamente, violenza e terrore.
Il vecchio e stanco Comandante Cushing non avrà potere sul redivivo plotone e solo la rimozione dei loro neri occhiali anfibi li porterà alla inevitabile fine per consunzione e sfinimento… o per letale esposizione ai raggi solari (aspetto questo non spiegato e poco chiaro).
Con tutti i suoi pregi e difetti è tassello comunque importante nella sterminata produzione degli zombi-movie.
Caposaldo che genererà a sua volta un filone (si vedano gli imbarazzanti e dimenticabilissimi “Oasis of the Zombies” di Jesus Franco e “Zombie Lake” della coppia Franco/Rollin), “Shock Waves” poteva essere sì un cult, ma si ritrova ad essere un cult mancato.
Film reperibilissimo in Italia, inizialmente distribuito in VHS per Linear Film Video e successivamente riproposto in DVD sotto etichetta Alan Young Pictures prima e Quadrifoglio poi.
Daniele “Danji Hiiragi” Bernalda
L’Occhio nel Triangolo
Titolo originale: Shock Waves
Conosciuto anche con i titoli: Almost Human, Death Corps
Produzione: USA, 1977
Regia: Ken Weiderhorn
Cast: Peter Cushing, John Carradine, Jack Davidson, Brooke Adams, Luke Halpin, Fred Buch, D.J. Sidney, Don Stout
E’ una settimana esatta che questo blog è fermo, ma non, come i maligni possono pensare, per mancanza di materiale bensì per lutto. Scrivere soltanto un epitaffio per Giuliano Gemma ci sembrava troppo poco, noi gli esteti della falce e martello, e perciò abbiamo fatto il nostro personale sciopero di carta, web e recensioni. Lunedì tutto tornerà uguale e riprenderemo con La tomba di Fred Olen Ray ma per ora vi pensiamo sottovoce. Divoriamo film, inseguiamo voli pindarici di cani dudù e lesbiche premier, ci emozioniamo sempre per un libro o un film, eterni innamorati a volte di nulla, ma mannaggia Giuliano ha portato via un pezzo di cinema, il migliore, quello che mai tornerà. Giustamente lui con Dio e noi lontano da Dio. Sempre.
Carlo Lizzani, noto soprattutto come regista “intellettuale”, lascia però in eredità anche ottimi film di genere, in cui lo spettacolo è spesso coniugato con l’impegno civile: ricordiamo i noir/polizieschi (Banditi a Milano, Svegliati e uccidi, San Babila ore 20: un delitto inutile) e i due western Un fiume di dollari (1966) e Requiescant (1967). Due opere molto differenti fra loro: tanto celebre, personale e “politico” il secondo (vi partecipa anche Pasolini), quanto misconosciuto e di impostazione classica il primo. Firmato con lo pseudonimo di Lee W. Beaver, è tra i film meno noti del maestro, ma al contempo fra i più interessanti: non solo per il suo carattere straniante nella cinematografia di Lizzani, ma anche per l’azzeccato connubio fra elementi da spaghetti-western e altri da western americano.
Si tratta di un film ad alto budget (produzione De Laurentiis), e il respiro internazionale si sente già dal cast: protagonista è l’americano Thomas Hunter (che rivedremo ancora in Italia, per esempio nel folle western Tre pistole contro Cesare e nel poliziesco La legge violenta della squadra anticrimine); coprotagonisti il grande Henry Silva (al suo esordio nel nostro cinema) e Dan Duryea, che era stato un volto celebre del vecchio cinema americano, anche nel western (Winchester ‘73 di Anthony Mann).
La vicenda (scritta da Piero Regnoli con lo pseudonimo di Dean Craig) inizia al termine della Guerra di Secessione: due commilitoni sudisti, Brewster (Hunter) e Seagull, si impadroniscono di un ingente bottino (il “fiume di dollari” del titolo), ma il primo viene catturato, facendo promettere all’amico di occuparsi di sua moglie e di suo figlio. Dopo cinque anni di carcere, Brewster torna a casa, scoprendo che il compagno ha costruito un impero economico con il frutto della loro rapina, dominando il territorio attraverso la violenza del pistolero Garcia Mendez (Silva) e dei suoi sgherri; Seagull, inoltre, ha lasciato morire di stenti sua moglie e fa lavorare il bambino da uno stalliere. Aiutato da un misterioso pistolero (Duryea), l’uomo si infiltra nella banda di Mendez e prepara la sua vendetta contro il traditore.
Una trama abbastanza classica, dunque, ma diretta in maniera solida e avvincente, con personaggi ben caratterizzati (Henry Silva una spanna sopra tutti) e ottime sparatorie (l’agguato nel canyon, i due scontri a fuoco nel villaggio e il duello al buio fra Hunter e Gazzolo). Se l’atmosfera che si respira è spesso da western americano (grazie non solo alla presenza di Duryea, ma anche alle musiche e alle splendide location, fra canyon e praterie, valorizzate dalla limpida fotografia di Toni Secchi), ci sono però elementi squisitamente da spaghetti-western: non solo il tema della vendetta (abbastanza internazionale, a dire il vero), ma soprattutto la sonorità acuta degli spari e la violenza. Non è fra i più crudeli del genere, ma in alcune scene (non troppo insistite) troviamo un gusto sadico tipicamente italiano: ricordiamo Hunter prigioniero sotto il sole in una gabbia di filo spinato, lo scuoiamento del suo tatuaggio, la mano del bandito infilzata con un coltello e il duro pestaggio che il protagonista subisce dagli uomini di Silva. Proprio Henry Silva, qui in una delle sue poche apparizioni nel western, è uno dei punti di forza del film: sicuramente il personaggio più riuscito, è un memorabile villain tutto nerovestito, sempre “tarantolato” e dal ghigno diabolico, inquietante sia nei primi piani che nelle inquadrature dal basso verso l’alto. Il coté dark e mefistofelico del “cattivo” sarà ripreso da Lizzani anche nel successivo Requiescant, in cui Mark Damon interpreta un crudele latifondista dall’aspetto quasi vampiresco. Ottime anche le interpretazioni di Hunter e Duryea, efficaci volti americani che si affiancano piacevolmente agli attori nostrani (Nando Gazzolo, il perfido Seagull, e Nicoletta Machiavelli, sua sorella) e alle inconfondibili facce patibolari di numerosi caratteristi dello spaghetti western.
La piacevole colonna sonora, dal respiro epico e cadenzato anch’esso americano, è scritta e diretta da Ennio Morricone (anche lui, curiosamente, sotto pseudonimo: Leo Nichols), compreso il malinconico brano in stile country Home to my love.
Davide Comotti
Un fiume di dollari
Anno: 1966
Regia: Lee W. Beaver (Carlo Lizzani)
Interpreti: Thomas Hunter, Henry Silva, Nando Gazzolo, Dan Duryea, Nicoletta Machiavelli, Loris Loddi, Geoffrey Copleston, Gianna Serra, Guglielmo Spoletini, Paolo Magalotti, Puccio Ceccarelli, Tiberio Mitri, Pietro Torrisi, Mauro Mannatrizio, Osiride Peverello, Claudio Ruffini
In attesa dell’uscita del documentario su Zagor ecco per voi di Malastrana la conferenza stampa di ieri 2 Ottobre 2013. Non proprio tutta a dire il vero perchè ad un certo punto il mio cellulare ha cessato di esistere ma mancava pochissimo, m spero apprezzerete lo sforzo. Tutti comunque al cinema il 22 e 23 di questo mese. Ayaaaaaaaaaaaaaaak!
Dedicato a Giuliano (Roma, 2 settembre 1938 – Civitavecchia, 1º ottobre 2013)
Un grande dramma sulla criminalità diretto da Damiano Damiani in un triennio all’apice della bravura (“Goodbye & Amen, l’uomo della CIA” 1977, “Io ho paura” 1977, “Un Uomo in ginocchio” 1979 e ancora altri) quale questo mi è sembrato nell’improba scelta fra i tanti splendidi titoli della lunga carriera di Gemma, uno dei più rappresentativi in assoluto per una delle sue più eccellenti interpretazioni. Quella come da titolo di un uomo messo in ginocchio dalla mafia, ma che per disperazione e caparbietà di carattere sarà capace di rialzarsi. Vogliate quindi grazie all’accoppiata Damiani- Gemma aspettarvi un elevato livello di realismo sociale e di non esserne mai delusi.
“Un Uomo in ginocchio” è un film quantomai di potente denuncia dello strangolamento messo in atto dalla mafia nella Palermo della fine degli anni settanta, e laddove è anche stato girato. Guardandolo, sono sempre stato solito l’aver provato una forte amarezza nei riguardi della vita in generale, e anche per il finale che non farà certamente stare meglio nessuno. I film di Damiani sulla mafia non ne hanno mai rappresentato quel che in fondo può cinematograficamente essere per ella sempre un “veicolo di pubbliche relazioni, come può accadere con “Il Padrino”, ma una visione vera, cruda e senza speranza. Quasi un allarme all’Italia per quella che come scriveva Sciascia ed era allora in pieno svolgimento, si definiva ovvero la “sicilianizzazione” del mondo, grazie alla mafia..E Palermo che ne è la sua capitale storica raramente è stata vista al cinema davvero così terribile e malfamata come in questa splendida opera cinematografica, di un nostro cinema di “genere” dal coraggio senza pari e dalla ormai completamente smarrita capacità di narrare, e della sua rappresentazione.
Il protagonista splendidamente interpretato da Gemma in una delle sue migliori prove in assoluto, si chiama Nino Peralta ed era stato un ladro d’auto professionista fra i più bravi, che ha poi scontato diversi anni di carcere. Ora egli si guadagna da vivere con la vendita di caffè e limonata gestendo un barrino-chiosco. Proprio per una maledetta casualità viene coinvolto in una guerra tra due potentissime famiglie mafiose rivali e si ritrova in un elenco di otto persone da eliminare come scomodissimo testimone, soltanto perchè una tazzina di caffè con il nome del suo bar portata dal cameriere Cimarosa, è stata trovata sulla scena del fatto che fa da motore scatenante dell’infernale vicenda(a ben simboleggiare l’assurda pericolosità di quel che poteva casualmente capitare a chiunque, in una città ambigua e sempre, ovunque, altamente minacciosa, coma la Palermo di quel periodo). Egli cerca dunque sempre più accerchiato di risolvere il malinteso, mantenendo la sua piccola attività che da una dignitosa sopravvivenza per sua moglie (Eleonora Giorgi), i figli e il suo migliore amico -aiutante (un grande Tano Cimarosa) e soprattutto, per preservare la sua dignità.
Damiani realizzò con questo film un racconto molto cupo, quasi come in “Io ho paura”, come accennato ambientato in una tetra, invernale e piovosa, sporca Palermo, città opprimente e foriera di ben piccole speranze per un ex detenuto come Nino. La polizia è ovviamente indebolita quantomai dalla connivenza politica e a tutti i livelli con i corleonesi, che proprio in quegli anni stavano portando la loro guerra fatta anche di rapimenti, tanti omicidi eccellenti, e centinaia di caduti da ambo le parti, contro la mafia palermitana di Stefano Bontate, Nino Ganci, e Ciccio Teresi. Nino anche per questo clima e la situazione apparentemente senza speranza, nemmeno considera l’opzione di chiedere loro aiuto, cioè allo Stato. Ingaggia quindi un disperato tentativo d’incontro con i boss cercando contemporaneamente di sfuggire e poi di accordarsi con un killer nevrotico, “Platamona”, vero e proprio impiegato e ragioniere dell’omicidio mandato per eliminarlo, e interpretato anch’esso mirabilmente da un giovane Michele Placido, oserei dire qui anche lui in una delle sue migliori prove in assoluto..
Damiani, tra l’altro, offre qui uno dei suoi film girati nello stile più sobrio e narrandoci una simile angosciosa situazione in toni pratici tipici e che rendono molto bene, una certa esperienza e saggezza della strada, quale quella del protagonista Nino. Una ragionevolezza alla fine molto buona, e che pure non può nascondere tutto il suo pessimismo di fondo
“Un uomo in ginocchio”, è appunto davvero la storia di un uomo in ginocchio. Se vogliamo quasi un racconto noir di mafia, e dal momento che venne realizzato nel 1979, già si parlava di “neo-noir”, questo sarebbe del resto proprio un superbo noir, molto più di quello che ti puoi aspettare anche vedendo opere di Damiani se vogliamo molto simili per toni disperati e angosciosi, quali i di mafia e non “Confessione di un Commissario di polizia al Procuratore della Repubblica”(1971), “L’Istruttoria è chiusa, dimentichi”(1974), “Perchè si uccide un magistrato” (1975), alla fine, si sente anche chiaramente che potrebbe stare nella stessa filiera di alta classe di “A ciascuno il suo”(1967) di Elio Petri.
Ciò che in definitiva lo rende così grande? La profondità nell’essere fedele alla vita, alle azioni umane che hanno un vero senso sempre al passo con i personaggi, che sono umani e soggetti alle debolezze umane. Vi è una grande quantità di sfumature nella sua sceneggiatura scritta da Damiani sempre con il bravissimo Nicola Badalucco, e la storia riesce anche ad andare in direzioni molto sorprendenti.
Nella prima parte della vicenda, c’è un lato naturale di un’ironia stoica e disincantata, fianco a fianco con la serietà, e questo è in parte perché i personaggi come il fantastico Colicchia di Cimarosa parrebbero inizialmente essere inseriti nel film con la funzione di far rilasciare un poco la tensione, e invece con rara sapienza diventano ben presto a tutti gli effetti co-protagonisti del dramma vero, dentro al quale apparirà anche un ottimo Ettore Manni/don Vincenzo Fabbricante (al suo ultimo film prima del suicidio), e a ben simboleggiare con la contraddittorietà, le volubilità delle loro esistenze, una certa tipica italianità. Ben presto infatti, la situazione diventa sempre più grave, e tutto l’umorismo ne svanisce completamente man mano che si progredisce verso la fine. Anche qui, Damiani e Badalucco dimostrano di essere stati in perfetto controllo del loro materiale, e di avere esercitato su di esso tanta della loro intelligenza. Solo pochi film del genere, anche italiano, sono stati in grado di ottenere un risultato tale e così bilanciato, dai molti colpi di scena, e dai personaggi, dall’azione MAI stereotipate.
E’ anche per film come questo, oltre ai tanti meravigliosi western che Gemma aveva straordinariamente impersonato ed egli stesso rappresentandosi come uno dei simboli più perfetti, “mitici”dell’intero genere, che Giuliano ci mancherà, ci mancherai, tantissimo. Anche solo nel ricordo di una fama veramente meritata presso ad un pubblico veramente enorme, quale era quello del cinema italiano dei sessanta e settanta. Gli anni del cinema italiano, quello vero.
In coda Vi linko una considerazione critica sul film presa da Wiki, che potrà ripetere in alcuni passi ciò che già ho descritto io, ma mi pare ugualmente quantomai utile, significativa e ben documentata oltre che appassionata:
Questo film, sebbene praticamente snobbato dalla critica dell’epoca e dallo stesso pubblico, è stato invece rivalutato con il passare del tempo, specialmente con l’evolversi dei tragici eventi che tristemente hanno infestato le cronache della stampa nostrana in materia di mafia: la sua grandezza è il labirintico intreccio con cui Nino Peralta deve confrontarsi, costantemente teso e frustrato verso la ricerca della salvezza del corpo e dell’anima, minacciati da un potere, quello mafioso, che insieme gli deteriorano la vita, la famiglia, e la propria dignità.
È questo un film molto oscuro, caratterizzato da una fotografia eccezionale ed un cast assolutamente degno di nota sebbene non impeccabile. Memorabili risultano essere in particolare i dialoghi fra Giuliano Gemma e Michele Placido specialmente quello finale, su un invernale e tetro altipiano che meglio caratterizza la canalizzazione ultima di un film costantemente apprensivo, decadente ed allo stesso tempo volto a celare una strisciante speranza di redenzione spirituale.
In questo film, è l’uomo ad essere messo in analisi al microscopio, e non un uomo qualunque, bensì quello siciliano, in una Sicilia brutalmente controllata dalle mafie, che tengono a sé il controllo di ogni cosa, da quella materiale, alle stesse persone: esseri umani costretti a fungere da pedine, di un gioco più grande di loro, ed in mano a pochi e ingordi assassini.
Con questa pellicola, sia Gemma che Placido ebbero modo di mettere in mostra le loro straordinarie doti, anche se in maniera differente: il primo, specialmente per aver riportato su di sé le luci dei riflettori, grazie ad una prestazione ai limiti del caratterista, perfettamente riuscita e tale da aggiungere ancor più fama alla straordinaria capacità di attore che già si era creato con personaggi mitici quali Ringo, e tutti gli spaghetti-western che ne sembravano aver decretato una carriera quasi al termine; il secondo invece, per essersi definitivamente consacrato a ruoli impegnativi, grazie ai quali verrà impiegato negli anni successivi per girare film tv e film veri e propri, che lo renderanno noto al grande pubblico una volta in definitiva (si pensi a “La Piovra”).
Degne di nota anche le parti di Tano Cimarosa e di Manni; un poco sottotono, sebbene non per niente malvagia, quella della bellissima Eleonora Giorgi, comunque brava a non uscire dal ruolo e a regalare maggiore tensione emozionale alla pellicola.
Per concludere, questo è un film dalle grandissime capacità descrittive rispetto ad una realtà che può sembrare morta e sepolta, ma che in realtà ancora “striscia” in ginocchio, in un Italia che crede di aver “superato” le stragi di mafia e i terrorismi di infausta memoria.
Napoleone Wilson
Un uomo in ginocchio
Anno: 1979
Regia: Damiano Damiani
Interpreti: Giuliano Gemma, Michele Placido, Eleonora Giorgi, Ettore Manni, Tano Cimarosa, Andrea Aureli, Luciano Catenacci, Fabrizio Forte
Siamo ancora sconvolti: uno degli attori simbolo del cinema italiano, Giuliano Gemma, è morto pochi minuti fa all’ospedale di Civitavecchia. La notizia ci viene data dall’amico Gerardo Di Filippo e all’inizio purtroppo ci sembrava uno scherzo di cattivo gusto ma in rete sono arrivate le prime notizie. Secondo le ricostruzioni l’attore è morto per un terribile incidente stradale, un frontale allucinante tra la sua Toyota Yaris con una Bmw. Lo scontro è avvenuto in via del Sasso, una frazione di Cerveteri, all’altezza dell’incrocio con via di Zambra. Così in una maniera stupida e insensata come solo la vita può essere se ne va via il Ringo dei magnifici western, il Tex perfetto di un film imperfetto. Addio amico mai conosciuto.