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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Archivi Mensili: aprile 2016

War Pigs – Bastardi di guerra

29 venerdì Apr 2016

Posted by Manuel Ash Leale in B, Recensioni di Manuel Ash Leale, W, War movie

≈ 1 Commento

Tag

bastardi di guerra, dolph lundgren, guerra, luke goss, mickey rourke, nazisti, war pigs

C’è qualcosa di confortante in Dolph Lundgren. Non nei suoi film, ma proprio in lui come professionista. Credo sia perché, nonostante lo si possa trovare in produzioni che riempiono il cuore di tristezza, da Lundgren sai sempre cosa aspettarti. Potrai vederlo alle prese con pugili, alieni, belga calcianti, premi oscar, zombie, nazisti, ma la sensazione è la stessa: quella di un uomo che sta facendo esattamente il suo lavoro. Dovunque lo si piazzi, lo svedese prende il proprio mestiere con serietà, mettendoci l’usuale carisma e non sfigurando nemmeno quando costretto a interpretare personaggi che poco si adattano a uno scandinavo che parla inglese con accento curioso. In più, probabilmente, il suo cachet non è proibitivo, visto ch’è diventato come il prezzemolo e spunta ovunque, perlopiù in film DTV o in esclusive del mercato home video. Non che questo sia un male, intendiamoci, ma purtroppo la qualità media di un film per la TV non è sempre apprezzabile e noi italiani siamo pieni di buoni esempi a riguardo. A meno che non siate tra quelli che considerano roba come Un coccodrillo per amico, Cient’anne o Un’australiana a Roma perle imperdibili del made in Italy, s’intende. Nel caso, lasciate perdere e andate pure a vedervi una di certo divertentissima retrospettiva di Boldi e Mattioli, non vi odierò per questo. Mi limiterò a fare spallucce mentre ricarico l’arma.
Se quindi il buon Dolph riesce a non deludere mai, digerire un film di guerra tanto generico quanto stereotipato come War Pigs è tutta un’altra storia.

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Il film di Ryan Little nasce per il mercato DTV e questo non fa partire l’operazione nel migliore dei modi. Non serve essere Tullio Kezich per capirne il motivo: l’epicità di un film di guerra è data, il più delle volte, dalla drammaticità del racconto e dalla grandezza della sua narrazione. In altre parole, un war movie deve avere il budget adatto per trasportarci nella storia oppure deve essere in grado di deviare dai binari della stessa storia per raccontare un singolo episodio e, magari, approdare a lidi assolutamente non prevedibili. Raramente un film TV riesce nell’impresa e War Pigs, purtroppo, non rientra nella piccola percentuale di piacevoli sorprese che sopperiscono al basso budget con ottime idee. Dico purtroppo con sincerità e una punta di rammarico, perché nel cast non c’è solo Lundgren, ma anche Chuck Liddell, Luke Goss e Mickey Rourke. Ora, non è certo il cast della vita, ma un risultato più che accettabile lo si poteva concludere, notando alcuni piccoli dettagli. Per esempio, se hai nel tuo film un ex campione di MMA e Kick boxing, perché gli fasci un braccio e non gli fai tirare un pugno che sia uno?  Sarebbe come avere a disposizione Faye Reagan e lasciarla vestita per tutta la durata. Perfino Goss risulta legnoso e fuori luogo ed è un attore che ce la mette sempre tutta, uno che ha partecipato come protagonista a pellicole con i controcazzi come Blade 2 (2002) e Hellboy: The Golden Army (2008). Discorso a parte per Mickey Rourke, ormai in piena anarchia di qualche nervo cranico, il viso gonfio e inespressivo che si muove incontrollato. Triste o imbarazzante, lascio a voi la scelta. Gli altri comprimari sono capaci di strapparci almeno un sorriso e, se non altro, di farci ricordare due o tre nomi. Tutta la caratterizzazione si ferma qui e gridiamo di gioia perché poteva andare veramente peggio.

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Cosa che in realtà succede puntualmente, con tanta pace dello spettatore che, attonito, guarda passare davanti agli occhi scene impacciate in preda al disagio. War Pigs non lesina sul dejà vu, proponendo una trama vista centinaia di volte, senza mai essere in grado di sopperire ai buchi di sceneggiatura con qualche trovata originale o con qualche scena degna di nota. La storia che vede il riscatto del tenente Wosick (Goss), caduto in disgrazia per aver eseguito gli ordini, facendo ammazzare la sua squadra, non regala mai una sorpresa, figuriamoci un’emozione. E la conseguente nuova missione, da affrontare con un gruppo di cazzuti reietti che troveranno il rispetto e l’eroismo una volta superati i contrasti con l’ufficiale, non è da meno. La povertà del film ti getta preda di un horror vacui senza ritorno, ma il problema principale non è la scarsità di mezzi, bensì l’idea e la sua realizzazione. Se tralasciamo infatti lo script debole e la totale mancanza di personalità, resta comunque un climax gestito con una parte del corpo che, vi do un indizio, non è il cervello. Incredibile assistere a tempi morti in cui i protagonisti potrebbero tranquillamente, e soprattutto logicamente, venire investiti da tutto l’armamentario bellico del Reich e invece niente, un rilassante campeggio in pieno campo nazista. Visto che nessuno ci spara addosso, perché non distruggiamo anche la fantastica nuova arma di Hitler, dopo aver preso il tè? Se esisteva un briciolo di tensione, salutatela con un epitaffio.

Come si può definire un film che non serve a nulla? Inutile, suppongo. Ecco, restiamo su questa definizione e tanti saluti. Io torno al mal de vivre. È un’occupazione più interessante.

Manuel “Ash” Leale

War Pigs – Bastardi di guerra

Titolo originale: War Pigs

Anno: 2015

Regia: Ryan Little

Interpreti: Luke Goss, Dolph Lundgren, Chuck Liddell, Mickey Rourke, Noah Segan, Steven Luke, Ryan Kelley, Jake Stormoen, K.C. Clyde

Durata: 91 min.

DVD/BRD: Import

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Il diavolo abita nel Texas

20 mercoledì Apr 2016

Posted by andreaklanza in action, azione, D, demoni, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, Senza categoria, tette gratuite, zombi

≈ 7 commenti

Tag

andrea lanza, gates of hell part 2, il diavolo abita in texas, lucio fulci, seguiti non seguiti, Through the Fire

Marilyn Curtis (Tracy Baldwin) si ritrova sola di notte a dover cambiare la gomma della propria auto in una strada solitaria, e viene aggredita. Cinque settimane dopo, sua sorella Sandra (Tamara Hext), rimasta sconvolta dalla scomparsa di Marilyn e datasi al bere, viene aiutata da un poliziotto amichevole, Nick Berkley (Tom Campitelli). Rinfrancata, Sandra gli chiede di indagare sulla scomparsa della sorella e lui accetta, prendendosi una settimana di ferie per farlo. Dapprima i due cercano indizi a casa di Marilyn, dove un fattorino consegna loro un pacchetto contenente un amuleto. Scopriranno che ha poteri notevoli e scopriranno anche qualcosa di importante sul passato di Marilyn.

Lucio Fulci ha fatto tante belle cose nella sua carriera, certo anche tante brutture, ma ogni suo lavoro, capolavoro o mano, aveva sempre il lepre, quel guizzo che lo rendeva appunto “fulciano”.

Lo dico con tutto l’affetto del mondo perché Lucio Fulci è stata la mia nave scuola, il mio grande amore cinefilo, il primo e quindi il più meraviglioso.
Credo che senza Fulci non avrei mai scoperto i vari Jess Franco, Jean Rollin, non mi sarei mai addentrato nell’universo transgender di David Decoteau o amato alla follia le sparatorie sgarruppate di Albert Pyun, non avrei forse mai pianto per una sposa turca o maledetto Tom Cruise e Nicole Kidman come fossi dentro le Chungking Express.
Tutto iniziò appunto con Paura nella città dei morti viventi e quel ritmo assente, ma ipnotico, quelle musiche potentissime, quello splatter estremo e quel senso di terrore unico in un prodotto tutto sommato derivato.
Vidi Paura su una vecchia VHS Avo e da lì, indeciso se stessi assistendo ad una cazzata o no, prosegui con il più facile ma altrettanto splendido Quella villa al cimitero, il mio amore infimo Zombi 3 e via di film comprati, noleggiati, smerciati dagli spacciatori di registrazioni tv di tutta Italia, in quella formula un film 20000 lire, due 35000 sulla stessa videocassetta. Con la qualità già bassa a metà anni 90.

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Perché vi parlo di Fulci in una recensione di un film americano di metà anni 80 diretto da un oriundo regista alla sua prima e unica prova dietro la macchina da presa?
Beh facilissimo perché Il diavolo abita in Texas è dedicato alla memoria di Lucio.
Memoria???? Si chiederà qualcuno più attento, aggiungendo, caro K. Lanza, ti sei rimbecillito, hai appena detto che è un film di metà anni 80, come fa ad essere dedicato alla memoria di un regista ben lontano dall’essere anche solo moribondo in quegli anni???
Io di risposta tiro fuori la mia frusta, rubata sul set di I cacciatori del Cobra d’oro, perché a Malastrana vhs fa più figo avere un oggetto di scena di un film di Anthony M. Dawson che di Steven Spielberg, e colpisco sulle chiappette tutti voi saputelli gne gne di stocazzo.

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Il diavolo abita in Texas è stato sì filmato nel 1987 col titolo Through the Fire, ma è stato distribuito a fine anni 90 negli USA col più incisivo Gates of hell 2: the Awakening, diretto diretto in vhs.
E visto che noi in Italia non facevano uscire bellezze come Pumpinkhead o Basket Case, ma cosacce come Neon maniacs o Il ritorno degli zombi, ecco che Il diavolo abita in Texas, tanto per agganciarsi al Texas di Non aprite quella porta, ha fatto capolino tra i nostri scaffali da videoteca.
Ad editarlo, senza molti sforzi, la nostra storica Image video, un’etichetta famosa per i suoi titoli horror scarsi, la sua qualità video indegna e i doppiaggi da emorroidi letali.
Anche qui il livello qualitativo è basso, sia della resa su sopporto magnetico sia proprio del film proposto.

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Gates of hell 2, inutile dirlo, non ha nulla da spartire con Lucio Fulci e il suo Paura nella città dei morti viventi, famoso in America appunto come Gates of hell.
La trama cerca di coniugare il tema del satanismo con il filone thriller poliziesco sfarfallando di tanto in tanto nell’irrazionale lovecraftiano, fallendo comunque miseramente ogni strada imboccata.
Colpa è dell’incapacità del suo regista, della pochezza della trama e di un ritmo che, se in Fulci era trasognato, qui è solo noia allo stato puro.
Il regista Marcum cerca di omaggiate Paura con delle luci molto violente, un po’ alla Suspiria o Inferno dei poveri, e nell’inserire a forza uno zombastro assassino nella trama.
Anche gli omicidi che potrebbero calcare nel sangue e nelle frattaglie, in onore del padre del gore italico, risultano castrati e mancanti della minima tensione, senza neppure l’elemento bizzarro che potevano avere gli assassinii all’interno di Paura nella città dei morti viventi.

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Il finale è sicuramente la parte migliore, anche perché possiamo finalmente goderci un po’ di sano irrazionale, con musiche potenti alla Fabio Frizzi e un assedio di zombi putrefatti e cattivi, ma la goduria finisce presto davanti a un make up malfatto dei mostri e una virata action alla Stallone delle Filippine che lascia basiti.
Per non parlare poi dell’umorismo becero, dei non attori coinvolti e dei costumi da comparsa di Gardaland dei cattivi, i Satanisti meno carismatici della storia del cinema mondiale.
Trovare un punto di divertimento malastrano è arduo, forse impossibile.
Per i puristi c’è da sottolineare che la pellicola nella vhs italiana è più lunga rispetto alla copia USA e ha alcuni nudi non presenti, soprattutto all’inizio quando Tamara Hex chiama Tom Campitelli in dolce compagnia.
Poca roba, s’intende.

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C’è poi da segnalare che col titolo Through the Fire fu distribuito in Inghilterra.
A noi non resta che sconsigliare la visione e consigliarvi una volta di più quella di Paura nella città dei morti viventi o al massimo di un altro Gates of hell, Le porte dell’inferno, di Umberto Lenzi, film brutto da morire, con templari assassini, ma divertente davvero se amate le peggio cose.
Qui da amare c’è ben poco nel lavoro di Gary Marcum o G.D. Marcum, come si è firmato qui.

Andrea K. Lanza

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Il diavolo abita nel Texas

Titolo originale: Through the Fire

Anno: 1988

Regia: G.D. Marcum (Gary Marcum)

Interpreti: Tamara Hext, Tom Campitelli, Randy Strickland, Billie Carroll, Dan Shackleford, John S. Davies, Wendy Wade, Terry Wegner, Martin Smith, Lourdes Regala, Dan Robbins

Durata: 90 min.

Vhs: Image Home Video

 

Julia

13 mercoledì Apr 2016

Posted by andreaklanza in erotici, J, Recensioni di Andrea Lanza, Senza categoria, tette gratuite

≈ 8 commenti

Julia è stata ingannata, violentata e uccisa. Abbandonata come un sacco d’immondizia sul bordo di un fiume, e risorta, come un Cristo blasfemo.
La Julia di Matthew A. Brown, regista sudafricano alla sua opera prima, è un oggetto strano, sfuggente, difficilmente catalogabile in un solo genere.
Julia è un film che muta sinuoso, un’opera transgender che dovrebbe appartenere al filone dei rape and vengeance, ma che è invece una e mille cose diverse, un caldeiscopio di intuizioni, sensazioni e influenze.

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Matthew A. Brown ha stile da vendere, vicino alle suggestioni di Takashi Ishii e del suo Gonin, un cinema capace di mostrare sì la violenza più parossistica ma anche l’intimismo più straniante.
Lo si capisce già, nella prima bellissima scena, dove Julia sale le scale mobili sulle note di Julietta 2, della band islandese Ske, e la telecamera indugia soltanto sul suo viso, sulle sue magnifiche espressioni, quasi fossimo in un’opera intimista e non uno splatter di vendetta.
E ancora, nella sequenza successiva, la cosa si palesa ancor di più, quando la fotografia vira sul rosso, giocando con i cromatismi, puro territorio Greg Araki, senza dare spazio alle voglie più barbare dello spettatore: la violenza è lì lì per esplodere, nell’aria, tanto da percepirla grondante sangue. Sarà così? No, l’assenza totale di violenza è l’iperbole inaspettato, che sublima nel momento in cui Julia si trascina, avvolta in un sacco, in campo lungo, nella notte, questa volta in un territorio asettico alla Kitano.

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Anche la città di Julia che, leggiamo su imdb, essere New York è fotografata come una città dell’Est, Bucarest, Sofia, o qualche scenario da Chernobyl dei miserabili, dove potremmo vedere capitolare un invecchiato Van Damme del suo periodo più nero.
Ma, come detto, Julia è un film intimista, ma non solo, tanto che l’attesa viene ripagata diventando davvero un rape and vengence, con tanto di cazzi tagliati a gente che non c’entra nulla. Anche in questo caso però agendo in maniera completamente anarchica: più che al blasonato I spit on your grave, Julia è in qualche modo figlia de Il giustiziere della notte con la stessa identica concezione di vendetta inespressa.
In tutto questo calderone di generi ed influenze, fanno capolino idee da cancro impazzito, psicopatici transessuali come il Buffalo Bill di Jonathan Demme, scene lesbo improvvise e una setta di assassine ninja che dovrebbero echeggiare le puttane di Sin city.
E questo, beninteso, mantenendo una propria identità.
La presenza di Ashley C. Williams, una delle vittime di Human centipede, nei panni della protagonista, potrebbe far pensare ad un film ignorante e rozzo, una porcheria exploitation da due lire, ma fortunatamente Julia ha un’anima affascinante, puro cinema d’autore, assolutamente inaspettato.

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Una bella sorpresa che, chissà come, chissà perché, sbarca pure, con un passaggio fantasma, nei cinema, in Italia. Chissà che presto non lo segui l’inedito e interessante American Mary delle sorelle Soska, un altro film di genere assolutamente inclassificabile e sublime.

Andrea K. Lanza

JULIA

Regia: Matthew A. Brown

Interpreti: Ashley C. Williams, Tahyna Valentina MacManus, Jack Noseworthy, Joel de la Fuente, Darren Lipari

Durata: 95 min./uscita home video 20 Aprile 2016 (Cult media)

 

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