Saranno mille anni che non scrivo un Tette vintage ovvero la rubrica di Malastrana vhs dedicata alle star(lettes) che, nel passato, hanno usato le tette come sacra arma di battaglia per la loro carriera. Lo sanno anche i sassi che noi di Malastrana vhs siamo pro tette. Un film può essere scemo, brutto, ignobile, ma le tette possono essere quella polverina che trovi al supermercato che trasforma il tuo piatto malcucinato in un manicaretto che sembra fatto da mammà. Le tette sono l’ingannasapore, quello che anestetizza l’odore di merda facendoti credere che hai cagato violette e invece, amico mio, nonsei un minipony,è spray preso al Tigotà. Ecco perchè Tette vintage è una rubrica della quale siamo fieri perchè le tette hanno addolcito per anni le visioni più brutte delle nostre notti insonni di cinefili mannari.
Sembra violetta, ma ho fatto la cacca
E’ anche vero che, in questo sito, siamo pigri di natura, abbiamo nell’indole il DNA dei messicani, a noi piace la siesta e la pancia piena, quindi questa rubrica è stata più volte rimandata per via di una patologia, che noi abbiamo battezzato, “La sindrome di Rossella O’Hara”. ovvero del domani è un altro giorno. Peccato che il domani sia sempre il giorno dopo in un loop infinito. Sarà però che abbiamo finito le tortillas e la tv ha smessso di produrre il nostro telefilm preferito, Blue Montain State, quindi alle 4 del mattino, un po’ come Guccini ma senza vino, abbiamo deciso di resuscitare tette vintage.
Ci manchi, Blue Montain State
E con quale attrice possiamo ricominciare meglio di Phoebe Cates?
Il cinema più mainstream la conosce per Gremlims, il capolavoro natalizio di Joe Dante, dove aiutava il tontolone Zack Galligan a combattere la minaccia di un gruppo pestiferi mostricciattoli, ma la sua carriera per noi catecumeni delle tette, non ci voglia il buon Dante, è focalizzata su tre film: American college, Paradise e Fuori di testa.
Phoebe e la scimmia che si masturba
Paradise era un bieco rifacimento di Laguna Blu con più scene scollacciate, una scimmietta che si masturbava che avrebbe dovuto fare ridere e invece faceva solo senso, una canzone scema ma orecchiabile e la Brooke Shields della serie B ovvero la nostra Phoebe Cates.
Purtroppo, in Paradise, Phoebe fu configurata nelle scene più hot, ma volete spiegarlo ad un ragazzino che. in piena tempesta ormonale, ti trova questo filmaccio su Italia uno e può guardarlo impunito perchè tua mamma sta piangendo davanti alla storia d’amore?
Se le tette comunque non erano sue al cento per cento, la canzone scema ma orecchiabile, Paradise, era cantata al centodieci per cento dalla nostra Phoebe che, per farsi perdonare di aver distrutto i nostri timpani, mostrò le tette per davvero nei suoi lavori seguenti.
La scena di Fuori di Testa dove esce dalla piscina e si slaccia il reggiseno rosso al rallenti è a tutti gli effetti una delle sequenze più da mano d’oro che ricordi nella mia adolescenza. Tanto bastò per promuovere Phoebe Cates ad attrice che da grande avrei sposato.
Dopo American college (più culi che tette) però ci fu l’oblio delle grandi produzioni e l’incontro un po’ canaglia con il futuro marito Kevin Kline che la allontanò dale scene, almeno quelle che interessano a noi.
Come avete immaginato, Phoebe Cates non me la sono sposata io, ma nel 1996 successe che io e lei… Scusatemi però, questa è un’altra storia.
Questa è un’altra storia
Ma eccovi a voi Phoebe e le sue tette, mentre andiamo a fare la nanna, lettori di Malastrana, all’alba delle 5 e 30.
Ad una delle prossime domeniche per un altro Tette vintage.
Un gruppo di ragazzi si trova barricato in una villa asserragliati da mostri furiosi e assetati di sangue che vogliono rendere vera una profezia: se, durante Halloween, sette demoni si impossesseranno di sette corpi viventi allora la terra diventerà il loro dominio. La festa del 31 Ottobre è appena cominciata!
La notte dei demoni firmato Kevin S. Tenney è un signor horror. Derivato dai Demoni di Lamberto Bava quanto si vuole, sbilanciato tra trovatacce di bassa lega e momenti di genio aureo, ma è uno di quei film che ti fanno amare il genere per la sua follia, per la sua potenza anarchica, per quella forte dose di spettacolo che solo gli anni 80 riuscivano a conferire al genere. Rimangono impresse, nella mente di tutti i ragazzacci cresciuti a pane e splatter, scene di forte impatto come l’amplesso tra due sfortunati fornicatori all’interno di una bara, il finale crudelissimo, il make up dei demoni, la porchissima Linnea Quigley che si infila un rossetto nel seno con sfrontata eccitazione.
Certo a livello registico non è il miglior film del regista, a volte tirato un po’ via, Spiritka sarebbe stato molto più elegante, ma anche meno divertente, ma va bene e andava bene così, ora, a trent’anni di distanza, tra milioni di anni nell’olimpo dei film imperfetti, baciati dalla chimica perfetta. Di un remake di questo horror, firmato oltretutto da Adam Gierasch, nel 2009, potevamo aspettarci solo tragedia e sciagura, una cosa che, a solo leggerla come news, ci faceva arricciare, a noi fan, ogni cosa arricciabile nel nostro corpo. D’altronde nel 2009, anno in cui questo film vide la luce, Adam Gierasch era il male: sceneggiatore di uno dei peggiori film di Dario Argento, La terza madre, assassino di penna degli ultimi osceni film di Tobe Hooper, cose immonde come quello del coccodrillone, e regista di una cosa così incredibilmente brutta come Autopsy.
Col senno di poi però abbiamo scoperto che La terza madre, sulla carta, senza Dario a girare e Asia a fare finta di essere invisibile, era bellissimo, Tobe Hooper in fase rincoglionimento avrebbe trasformato in merda anche una sceneggiatura di David Mamet, e sì Autopsy era brutto, come il seguente Fertile ground, ma nel 2013, il buon Adam, avrebbe girato il suo capolavoro, il folle e pulpissimo Fractured. Per fortuna Night of the demons è un remake di quelli che fanno leccare i baffi: a livello registico è formidabile, virtuosistico senza stonare nell’eccessivo, citazionistico dei classici argentiani anche nell’uso pop dei colori, ma pure sul piano narrativo è divertentissimo, senza dire nulla di originale tiene incollati alla poltrona come ogni buon B movie al sangue che si rispetti, e nel dire B movie tanto di cappello in questo caso.
Gli attori, da fossili come l’Edward Furlong di Terminator 2 e Brainscan a presenze fresche come la Shannon Elizabeth di American pie e 13 ghosts, fanno il loro lavoro, con inaspettato brio. Certo si parla di un horror che, più di recitazioni sheakespeariane, ha bisogno di urla e corpi da martoriare, ma si vede che regista e cast si sono divertiti nel farlo e questo si riflette anche nella resa attoriale. Il remake non è fedelissimo e riprende solo l’idea della festa di Halloween in una casa maledetta in balia di demoni assetati di sangue. Per il resto è puro delirio alla Adam Gierasch con mani che escono dagli specchi a citare Inferno, con questi rimandi al classico Evil dead con tanto di botola e demone imprigionato, con il sangue che risveglia mummie come nei Bava padre e figlio, con un’impiccagione che riporta a Suspiria in chiave ancora più estrema, poi il finale, diverso sì, ma sempre sberleffo al vetriolo.
Poi ad incarnare l’eroina di turno una deliziosa Monika Keena che ne ha fatta di strada dai primi passi nel serial Dawson Creek fino al sottovalutato capolavoro Delitto più castigo a Suburbia e all’epico scontro tra Freddy vs Jason. Quando urla armata di fucile “Come on give me motherfucker” sporca di sangue e frattaglie scatta l’applauso da drive in. Certo i demoni erano più convincenti nel make up originale, qui una sorta di zombi ghoul verdastri per la maggioranza, ma davvero ad avercene di remake così perfetti anche nell’imperfezione. Ah per tutti i curiosoni questa volta il rossetto sì entra nel seno, ma esce dalla… Non vi resta che guardarlo. Consigliatissimo.
Andrea Lanza
Night of the demons Regia: Adam Gierasch Cast: Tatyana Kanavka, Michael Arata, Shannon Elizabeth, Linnea Quigley, Edward Furlong, Bryce Arata, Addy Rome, Addy Rome, John F. Beach, Michael Copon, Zachary James Bernard, Diora Baird, Monica Keena, Bobbi Sue Luther Durata: 90 min/inedito Anno: 2009
Arriva l’Estate, per antonomasia e ovvie ragioni la stagione delle vacanze, del mare, del divertimento in spiaggia e dei teneri amori adolescenziali. Ma, soprattutto, la stagione dei film con protagonisti terribili mostri marini assetati di sangue e famelici di carne umana. In tanti anni di cinema ne abbiamo viste di cotte e di crude, ogni tipologia di creatura, reale o fantastica, ha attraversato la nostra strada di spettatori emozionandoci o, purtroppo il più delle volte, annoiandoci con avventurose e orrorifiche soluzioni. Guardandoci alle spalle possiamo annoverare piovre giganti, coccodrilli, piranha, barracuda, altri pesci di diverso tipo, mutazioni, incroci e, infine, il preferito di tutti, il re dei monster movie da quattro soldi, l’imperatore del trash ittiologico: lo squalo.
Non provo nemmeno a enumerare i film con lui come protagonista, perché, specie negli ultimissimi anni, c’è stato un boom incredibile di shark movie più o meno beceri, roba da far accapponare la pelle nemmeno lo squalo ce lo trovassimo davvero di fronte in acqua. A due o tre teste, con i tentacoli, gigantesco, robotico, nella sabbia, persino fantasma. Ma come ti viene in mente un film con uno squalo fantasma?! È così folle da rasentare il genio. Insomma, l’amore per i selachimorpha pare inesauribile, come testimonia il successo degli ultimi cult di casa Asylum, i quattro Sharknado che tanta meschina felicità donano alle serate ignoranti degli inossidabili cultori di b-movie. Così, al centesimo titolo che prelude la lotta uomo vs uno dei predatori più perfetti del pianeta, scappa un sussulto, un passo indietro con sorriso imbarazzato. Un altro? Davvero?
The Shallows arriva in questo clima di perplessità marina e scatena subito la risatina sarcastica del cinefilo navigato, così come lo sbuffo annoiato del fan di shark movies. L’unica cosa che pare interessante è Blake Lively e il suo corpo mozzafiato, stretto in un bikini per tutta la durata del film. Ecco, so cosa state pensando, perché tutto appare ora come un gigantesco cliché: bella ragazza svestita, squalo che attacca famelico come non ci fosse un domani, vittime ignare, le solite cose. Di nuovo.
Lo ammetto, è stato il mio identico pensiero e non ci fosse stata la Lively in costume per ottantasette minuti avrei snobbato tutto quanto, rimandando la visione a un altro momento. Lo farebbe chiunque leggendo una trama come questa: una surfista scova la spiaggia segreta dove la madre, recentemente scomparsa, praticava surf e resta intrappolata su di un piccolo scoglio assediata da un grande squalo bianco, che le impedisce di raggiungere la riva. Punto. Vi giuro, è tutto qua. Niente di più, niente di meno.
E che il Dio Cinema mi fulmini, funziona maledettamente bene. Lasciamo da parte Jaws, così come Shark attack o simili, non siamo di fronte a un capolavoro, e nemmeno a un film di serie z, bensì a un lavoro onesto, senza troppe pretese se non quella di intrattenere. Cosa che The Shallows sa fare, grazie alla regia di Jaume Collet-Serra, attenta, sapiente, capace di trasportare lo spettare nel crescendo della vicenda, e grazie anche alla scrittura di Anthony Jaswinski, dal ritmo serrato, pragmatica, senza fronzoli. La narrazione di Paradise Beach – Dentro L’incubo, fantasioso titolo italiano con il quale il film approderà nella penisola in Agosto, è molto tesa, una corsa sulle montagne russe capace di funzionali picchi tensivi e adrenalinici, senza momenti vuoti o inutili, ma intelligentemente costruita per rendere appieno la situazione altalenante che vive la protagonista. A questo proposito, Blake Lively non delude, sebbene talvolta appaia forse un tantino esagerata nell’esternazione delle emozioni, risulta comunque credibile, perfettamente in grado di sostenere il peso dell’intera storia sulle spalle senza problemi. La sua battaglia contro un natura che sembra spietata non è dettata dalla vendetta o da qualche soluzione poco attendibile, ma dalla più realistica delle motivazioni: la fame da una parte e la sopravvivenza dall’altra. Un binomio mai slegato che permette una lettura diversa di tutta l’operazione. The shallows non ingigantisce nulla, non mette in scena bestie che bramano il sapore del sangue umano e neppure genitori il cui figlio è finito nello stomaco di uno squalo. La sua naturalezza è semplicità e questo è da considerarsi, in questo caso, un punto di forza.
La preoccupazione di ritrovare nel film di Collet-Serra tutto ciò che ha reso stantii molti degli altri shark movies viene annullata dalla scorrevolezza e dall’onestà intellettuale del film. Indubbiamente deve qualcosa a Jaws, non è una sorpresa, ma dallo squalo splendidamente ricreato, e intelligentemente poco mostrato, fino al lavoro di tutto il cast, sia tecnico che artistico, The shallows dimostra una sua personalità. Nonché i dignitosi meriti di un film che non aspira alla leggenda, ma solo a divenire un piccolo piacere per spettatori disillusi.
Manuel “Ash” Leale
The Shallows
Anno: 2016
Durata: 87 min
Regia: Jaume Collet-Serra
Sceneggiatura: Anthony Jaswinski
Fotografia: Flavio Martínez Labiano
Montaggio: Joel Negron
Musiche: Marco Beltrami
Scenografia: Hugh Bateup
Interpreti: Blake Lively, Óscar Jaenada, Brett Cullen
Scuola di polizia, il primo, fu un successo di pubblico gigantesco: a capo di un budget di soli 4 milioni e mezzo incassò la bellezza di 81 milioni soltanto negli USA. I seguiti, il secondo con 55 milioni di incasso, il terzo con 45 (sempre con budget che non superavano i 10 milioni), confermarono il successo della serie, seppure in terribile discesa a partire dal quarto episodio (28 milioni). Il segreto di Scuola di polizia di Hugh Wilson era, più che la regia nella media, l’esilarante copione di Neal Israel e Pat Proft (Scuola guida, Bachelor Party – Addio al celibato, Hot shot 1 e 2), capace di non scadere mai nel demenziale anche davanti a situazioni oltre l’assurdo. Lo stesso si può dire del gagliardo seguito a firma di Jerry Paris ( Non alzare il ponte, abbassa il fiume, 234 episodi di Happy days) su copione di Barry W. Blaustein e David Sheffield (Il principe cerca moglie e Il professore matto), ma non dei vari sequel, toccando l’apice della bruttezza nei capitoli 5, 6 e 7, quelli senza Carey Mahoney/Steve Guttenberg, in piena euforia da emulazione de La pallottola spuntata. Si può dire che l’onda del film demenziale aveva fagocitato quello che di buono c’era nei primi passi dell’accademia di polizia del distratto Comandante Lassard.
Chi è nato a cavallo tra gli anni 70 e 80, non può non ricordarsi di Scuola di polizia che generò persino un fortunato cartone animato e una meno fortunata serie tv. Eppure, in un periodo contraddistinto dalla nostalgia degli anni 80, sembra che Scuola di polizia sia un ricordo lontano e ben lungi dall’essere rivalutato o ricordato, come per esempio un Voglia di vincere o una qualsiasi commediola con Molly Ringwald. Forse per via appunto della sua deriva demenziale che ne decretò la morte cinematografica dopo la Missione a Mosca, il settimo capitolo.
In pochi però si sono accorti che sulla serie di Scuola di Polizia aleggia una maledizione, alla Ju-on, che ha ucciso, anno dopo anno alcuni membri del cast o che ha sancito la miseria di altri, destinati altrimenti a carriere promettenti.
Tutti conosciamo Steve Guttenberg, il simpatico protagonista dei primi capitoli, e una delle facce più note degli anni 80 con successi come i due Cocoon, Corto circuito e Tre Scapoli e un bebè. Ma la sua carriera ha proseguito di successoni in successoni anche negli anni a venire? Nel 1997 gira Zeus e Roxanne – Amici per la pinna, firmato dal George Miller meno dotato (quello de La storia infinita 2, non di Mad Max), dove i suoi comprimari sono un cane e un delfino. Sempre del 1997 è Casper-un fantasmagorico inizio, seguito per l’home video di un successo dimenticato, e di due anni prima Matrimonio a 4 mani, con due bambine pestifere a rubare la scena al buon Steve. La sua filmografia, dagli anni 90, è piena di bambini buffi e pasticcioni, babbi natali casinisti, cagnoni pucciosi, infimi B movie, fino a toccare il fondo con il recente Lavalantula, tarantola sputa lava. D’altronde animali e bambini non sono un buon segno per un attore in ascesa. In più, come segnalato sulla recensione di Lavantula, ultimamente il buon Guttenberg non ci sta molto con la testa e si fa trovare nudo a fare jogging a Central park.
Io e te, amici per la pinna!
Non meglio è andata al rumorista Michael Winslow, che ricordiamo solo per la serie Detective Extralarge in coppia con il mai troppo compianto Bud Spencer, e poi l’oblio, anche per lui sancito da Lavantula.
Peggio è andata però a Bubba Smith, il gigante buono Moses Hightower, alto più di 2 metri, e morto il 3 Agosto del 2011. L’ex campione di football venne trovato senza vita nella sua casa di Los Angeles per un’intossicazione da fentermina (un farmaco che inibisce l’appetito usato per trattare casi di obesità), stroncato da un terribile attacco cardiaco. Morto a soli 66 anni anni.
Ve lo ricordate Tackleberry, il fanatico delle armi da fuoco, interpretato da David Graf? Beh neanche questo attore ce l’ha fatta. Morto a soli 50 anni, il 9 Aprile 2001, ucciso da infarto fulminante durante una gara di birra e salsiccia. Roba che solo in Italia possiamo fare senza conseguenze. Sembra che anche il padre e il nonno non siano arrivati mai ai 52 anni e al buon David mancavano 9 giorni al compleanno.
Dopo vi va una gara di birra e salsicce?
Anche il buon Jerry Paris, regista dei capitoli 2 e 3, ci ha lasciati a soli 60 anni, nel 1986, il 31 Marzo, poco dopo l’uscita nei cinema del suo ultimo Scuola di Polizia. Malato di cancro e di tumore al cervello, morì in ospedale sotto i ferri del chirurgo.
Debralee Scott era la moglie, in Scuola di polizia, del Sergente imbranato e occhialuto Fackler. Sposata nella vita con un vero poliziotto, John Levi, dovette sopravvivere alla notizia della sua morte, l’11 Settembre 2001 per l’attacco alle Torri Gemelle. Non si riprese più buttandosi a bere e ammalandosi di cirrosi epatica. Nel 2005 svenne e andò in coma, al risveglio sembrava stare bene e fu dimessa, ma pochi giorni dopo la trovarono morta in casa sua, davanti alla tv. Aveva 52 anni.
Tab Thacker era il grasso cadetto nero che troviamo in Scuola di polizia 4 e 5. Ex lottatore di wrestling, morì il 28 Dicembre 2001, a 45 anni, dopo aver subito l’amputazione di un piede prima, poi di entrambe le gambe a causa della sua malattia, il diabete mellito di tipo 1.
Che dire poi dello scenario di tutta la serie? La fittizia accademia di polizia è situata presso l’Humber College a Toronto, Ontario, Canada. Forse non sapete però che L’Humber College era un noto manicomio, inaugurato nel 1889, particolare per i vari tunnel che collegavano l’esterno con l’edificio, e per il cimitero adiacente che ospitava i pazienti deceduti senza famiglia. Gli studenti dell’Humber College testimoniano di avere visto più volte aggirarsi fantasmi o presenze inquietanti all’interno dell’edificio. Nel 1998 la scuola è diventata protagonista di un horror, Urban Legend, e nel 2015 ritornerà tristemente alla cronaca per essere lo scenario di un omicidio: un uomo freddato con due colpi di pistola alla schiena.
Un posto allegro per un fim comico, un manicomio
Certo, possono essere tutte coincidenze, e molti attori, come Sharon Stone, hanno avuto una carriera inarrestabile dopo Scuola di polizia. Credere o no sta a noi. Permettetemi però di fare gli scongiuri e di toccarmi i cosidetti.
Mike Mendez non si può certo dire un regista conosciuto al grande pubblico, ma è un regista con le palle, questo sì. La sua carriera conta almeno un film wow, uno di quelli che ti fa scorticare le mani dall’entusiamo, quel The convent che iniziava con l’ingresso in chiesa di una ragazza (Oakley Stevenson, la ex del regista) fucile a pompa in mano, occhiali scuri e musica anni 50 di sottofondo, e che continuava con suore demoniache sbavanti slimer verde in un’orgia di splatter e umorismo nero. Una cosa che, magari, se non sei cresciuto a pane e Kevin S. Tenney, cullato dal suo immenso La notte dei demoni, non puoi capire, ma, anche non capendolo, è l’adrenalina che sale, è la figaggine dell’insieme che tocca il vertice Armata delle tenebre, quindi il massimo del top cool consentito. Anche il suo Gravedancers non è male ed è quasi un mezzo miracolo perchè di solito vale l’assioma “Dominic Purcell nel cast, merda di sicuro”, ma stavolta, pur essendoci Dominic Purcell, il gigante pelato di Prison break, il Drake di Blade Trinity, il disastro non avviene, pur essendo il film non un capolavoro ma un’onesta pellicola spaventella di fantasmi (con sempre Oakley Stevenson fighissima a fare capolino).
Capolavoro
E’ in questo periodo che il buon Mike dev’essere caduto in depressione e, vuoi i problemi di coppia con Oakley, vuoi che i suoi film non sono propriamente dei campioni di incassi, viene fagocitato dalla tv e dal cinema più basso, quello che gioca a fare Hollywood con i soldi del Monopoli. Questi vampiri moderni che già avevano azzannato e prosciugato il bravissimo Sheldon Wilson,uno che da un capolavoro come Shallow ground ha girato solo merde televisive come Mega Cyclone, Snowmageddon, Shark killer e Scarecrow, ora ci provano con Mike nostro. Eccolo allora al soldo della Epic Pictures, già artefice del peggior lavoro di Darren Lynn Bousman 11-11-11, con Big Ass Spider, e poi del canale Syfi, quello che vive di asylumate come Sharknado, con Lavalantula, che non è un film sulla bella lavanderina ma su dei ragni che vomitano lava.
Mike Mendez se la cava meglio del previsto e riesce a portare a casa, almeno con Big Ass spider, un film spassoso.
Merito dei dialoghi brillanti e della simpatia di Greg Grunberg, amico di J. J. Abrams e uno degli Heroes più carismatici dell’altalenante serie tv, l’agente Parkman, capace di leggere il pensiero altrui.
Big ass spider ha una marcia in più rispetto a tutti i film sui ragnoni giganti che infestano le serate di Sky Max: in primis ha ritmo da vendere, una regia potente e tanto divertimento. Nella prima parte si respira aria sincera da drive in, un po’ alla Bert I. Gordon, con le tarantole giganti a fare danni in città. Non dimentichiamo che Mendez qua e là ci infila qualche elemento scorretto come un fotografo dilaniato dalle zampone dell’insetto gigante o un barbone con il viso liquefatto dalla bava all’acido della creatura. Purtroppo gli effetti speciali sono quello che sono e nella seconda parte si percepisce un’aria di miserabilità indecente con riprese velocissime e forzatamente dillettantesche per mascherare il budget bassissimo. Però che meraviglia l’intro con Greg Grunberg che si sveglia sulle note dolcissime di Where Is my Mind mentre la città è impazzita e il ragno gigante sta scalando, tipo King Kong, un palazzo. Non dimentichiamo poi il genio suicida di chiamare un film Ragno culone e pretendere di essere preso sul serio. Per la cronaca quel culone lo faranno esplodere a colpi di bazooka.
Il film mantiene con grazia quella dimensione di umorismo che non scade mai nella parodia demenziale anche davanti a situazioni assurde, e la malassortita coppia Greg Grunberg/Ruben Pla, il disinfestatore e la guardia di sorveglianza ispanica, sono pronti, almeno sulla carta, a tornare in Scarrafone culone sulle note di La cucaracha. Film che ovviamente non si farà mai.
Il resto del cast, da Ray Wise, ex papà di Laura Palmer, alle bonissime Alexis Kendra e Clare Kramer, non lasciano il segno, con performance stanche e di maniera, e personaggi presentati e poi abbandonati senza molta logica.
Sia ben chiaro siamo davanti ad un film che risica un 6 sulla pagella, ma per lo meno è ben confezionato e non annoia.
Peggio però Mendez farà con Lavalantula, prodotto dalla Syfi sulla falsariga del successo Sharknado. Se nel film dell’Asylum il genio era di unire due elementi eterogenei come squali con tornadi, qui si fa lo stesso con tarantole e vulcani. Lo scenario d’altronde è sempre la Los Angeles di Big Ass Spider, questa volta in piena eruzione di un vulcano, dal quale fuoriescono ragnoni incazzati che vomitano lava. Per ampliare l’effetto puttanata quale ideona butta fuori la Syfi? Resuscitare il cast di scuola di polizia per combattere la minaccia aracnoide. Giuro. Il cast di Scuola di polizia o almeno gli attori rimasti in vita o con bollette troppo care da pagare.
Tremate ragnoni!
Ecco allora in pista, Steve Guttemberg, l’ex Carey Mahoney, Marion Ramsey e la sua fastidiosa vocina, la tettutissima Leslie Easterbrook, e naturalmente Michael Winslow con l’immancabile scena d’imitazione di un’arma da fuoco. In mezzo a questo aggiungiamoci una regia mai così distratta di Mendez, effetti speciali più brutti di Big Ass spider che già erano oltre il brutto, battute autoreferenziali su Scuola di polizia che non fanno mai ridere, scene di inseguimento da comiche anni 30 e, dulcis in fundo di questa merda, l’apparizione senza senso di Ian Ziering da Sharknado che afferma “Sono già impegnato con gli squali, scusate”. Sono già impegnato con gli squali? Ma vaffanculo, Ian.
Momento epico
Sembra che Steve Guttenberg abbia accettato con gioia l’idea di fare questo Lavalantula, rilasciando dichiarazioni come “Il mio film del rilancio” che ben fanno intendere la sua fragile situazione mentale. Tempo fa i paparazzi l’avevano ripreso che faceva jogging a Central Park senza le mutande e i pantaloncini, in grave stato confusionale. Leggenda racconta che l’Asylum avesse proposto proprio a lui il ruolo di protagonista in Sharknado e che lui l’avesse rifiutato. Non gli deve essere sembrato vero accettare Lavalantula! L’occasione di una vita!
Lavalantula purtroppo è un film fastidioso, noioso e, Dio sia ringraziato, ce lo siamo, per ora risparmiati in Italia. Siamo sicuri però che tra uno Sharknado 4 e un Mega squalo contro Atlantic Rim, apparirà, prima o poi, nei peggiori palinsesti di Sky tv.
Questo però non toglie che Mendez sia un regista di alto valore e speriamo che il prossimo Don’t Kill It con Dolph Lundgren che prende a fucilate i demoni dell’inferno lo risveglino dal torpore dei ragni culoni e delle tarantole che assediano la Scuola di polizia.
Oakley spezzacuori
Poi Mike davvero ci sono altre donne oltre a Oakley, la vita continua, basta farsi male.
Il Martyrs che oggi purtroppo recensiamo non è quello francese di Pascal Laugier, ma il suo remake diretto dai fratelli Goetz, Kevin e Michael, due signori nessuno.
Quando Martyrs, l’originale, uscì era il 2008 e Pascal Laugier era reduce da un signor film, Saint Ange, un horror d’atmosfera che da una parte citava il Fulci de L’aldilà, recuperando anche l’attrice feticce Katriona Maccoll, dall’altra provava ad addentrarsi nei terreni esoterici di Silent Hill, da lì a poco trasposto al cinema dal suo produttore Christopher Gans. Saint Ange era un film comunque difficile: lento, cupo e senza una sola parvenza di speranza. Difficile piacesse al grande pubblico e così fu presto dimenticato.
Martyrs invece era più mainstream, non per quello che diceva, ma per quello che superficialmente metteva in scena: la violenza ad una donna per interminabili minuti. Erano gli anni di Hostel e di Saw, la gente voleva torture porn sempre più violenti e Martyrs era l’Hellraiser del genere, non così estremo come sarebbe stato A Serbian film, ma comunque un vero pugno allo stomaco. La mano di Laugier era nei dettagli però, come il diavolo, nella regia elegante, nel senso unico di spaesamento che lo spettatore percepiva quasi fosse la protagonista, in torture mai inflitte con sadismo ma ancora più orribilmente per inseguire una causa, e in quel finale, furbetto forse, ma terribilmente efficace. Martyrs era l’orrore messo in scena, la Santa Inquisizione che non si è fermata alla caccia alle streghe, ma è rappresentata da una vecchia signora che potrebbe essere anche tua nonna. Quando la botola si chiude dietro Morjana Alaoui, sai anche tu che non ne uscirà viva e ti senti legato a quella sedia, impotente, nè più nè meno di lei.
Serviva un remake americano a distanza di 8 anni? Ovvio che no visto che il primo film era perfetto ed esportabile così com’era, ma si sa che i cugini d’oltreoceano mal sopportano i sottotitoli tanto qunato il doppiaggio, quindi l’idea del rifare era, sulla carta, perfetta.
Personalmente non appartengo alla schiera della gente che si autoflagella i testicoli davanti ad un remake, ne esistono di buonissimi, anche in tempi recenti, e un remake, come nel caso di La cosa di John Carpenter o de L’alba dei morti viventi di Zack Snyder, è molte volte sviluppare in maniera diversa e originale uno spunto già trito e ritrito negli anni.
Certo, intelligenza vorrebbe che per rifare un film passasse un po’ di tempo, almeno per giustificarlo, ma dai tempi del terribile Nome in codice Nina che stuprava Nikita di Besson, eppure tra parentesi John Badham un tempo era bravo, sembra che il tempo giusto per remakizzare un film, sia ora, mentre è appena uscito al cinema!
Meglio di Nikita, Nina
Tra i produttori di questo nuovo Martyrs c’è Jason Blum, l’uomo che ha macinato tanti successi miliardari del nuovo corso horror, da Insidious a La notte del giudizio, ma in questo caso, pur non avendo i dati degi incassi di questo film, siamo certi che l’operazione è stata, anche a livello economico, fallimentare.
Ma cos’ha di brutto questo Martyrs americano? Possibile che sia andato tutto così storto nel passaggio Francia/Usa?
Beh, cominciamo dai pregi, che pure ci sono, e all’inizio, se non parti col pregiudizio, pensi che il remake tanto male non è, inutile ma piacevole. All’inizio, ovvio.
Ho parlato comunque di pregi, ma alla fine è solo uno, i fratelli Goetz non girano male, anzi. L’inizio dove si soffermano sull’infanzia delle due bambine ha del potenziale, certo oviamente cerca di essere ridondante come faresti con un bambino scemo che non capisce l’ovvio, come un tv movie di Mick Garris che cerca di rifare Shining, ma è, ripeto, girato bene. Alla fine, tirando le somme, tutto il film a livello visivo è molto buono, anche quando diventa scemo, ma, a discolpa loro, la sceneggiatura è di Mark L. Smith, uno che, è vero, ha scritto quella schifezza di Vacancy 2, ma anche il Revenant con Di Caprio, non proprio l’ultima stronzata in giro.
Se proprio vogliamo essere buoni poi, le due protagoniste non sono le inarrivabili Morjana Alaoui e Mylène Jampanoï, ma se la cavicchiano bene, senza sembrare troppo cagne. Graziose e sopra la media dell’horror di cassetta, questo è comunque abbastanza.
Le note dolenti sono il resto.
Immaginatevi che Blum e soci pensino di portare in America un horror hardcore come Martyrs e si caghino in mano. “Cazzo” pensano “Ormai però l’abbiamo annunciato”. Ecco che tracciano una bella linea rossa che azzera ogni cosa pericolosa o incomprensibile dell’originale.
La linea rossa
Amore non corrisposto tra le due? EEEEEEEEHHHHH!!!
Rapporto lesbo tra le due? Linea rossa.
Suicidio di una delle protagoniste? Linea rossa.
Ragazze denutrite e segregate? Linea rossa.
Violenza ripetuta? Linea rossa.
Torturatori amorevoli? Linea rossa.
Scorticamento di una ragazza viva? Linea rossa.
Finale sospeso? Linea rossa.
E’ in quel momento che Mark L. Smith si alza e chiede “Signori, ma così abbiamo cancellato tre quarti di film? Cosa rimane?.
Nella sala qualcuno si accende un sigaro, è Sylvester Stallone, con ancora i tatuaggi di Expendables 3, e sussurra “Action. Per questo mi hanno chiamato”.
Action, cazzo
Ecco allora che il film riempie i buchi della linea rossa con appunto l’action e con azioni velocissime che azzerano la lentezza del film di Laugier.
Martyrs remake butta alle ortiche ogni cosa buona del precedente film, è un vero gioco al massacro su come possa rendere brutte le cose che abbiamo amato. Pensate a quella sorta di spettro, reincarnazione delle paure della bellissima Mylène Jampanoï, alla devastazione del corpo, emaciato e mostruoso, che diviene, nella nuova carne, il frutto dell’aborto tra Samara e Gollum, tutto pieno di bu e spaventoni. Un disagio anche solo a vederlo.
In più, Martyrs cerca di ripetere l’ovvio: se non si era capito, nel film precedente, che il fantasma non esisteva se non nella testa della ragazza, qui devono spiegarti e rispiegarti il concetto. E’ fastidioso questo, come un amico che, dopo averti raccontato una barzelletta che non fa ridere, te le spiega cento volte.
Il peggio comunque avviene poco dopo, con, appunto, la svolta action.
Allora di punto in bianco si decide di non uccidere più la sopravvissuta Lucie, di martirizzarla, e di lasciare viva sia l’amica Anna, quella che nel precedente film era il fulcro del martirio, che un nuovo personaggio, inutile, una bambina, che dovrebbe fare le veci della ragazza anoressica del vecchio film, quella col casco di metallo. Anna ha un breve dialogo con la vecchia aguzzina, motore dell’associazione di fanatici religiosi, dove le viene mostrato, visto che siamo in un film che si chiama Martyrs, che stanno crocifiggendo una ragazza per strapparle il segreto della vita e della morte. Cosa di più palese, per spiegare un martirio, di una ragazza crocefissa come Cristo e poi bruciata viva da pessimi effetti in digitale come tributo a Giovanna D’Arco? Segue un dialogo del tipo “Lucie ha gli occhi della tigre, tu no, ci sono martiri e vittime e tu sei una vittima”. Bum e Anna si trova in una fossa comune che la stanno seppellendo viva, ma agile come una gatta si infila in un passaggio segreto e aspetta il tempo giusto per uscire.
Se fossimo in un film anni 90, post Aliens scontro finale, mi spiegherei questa svolta macha reazionaria con la donna che spacca le palle ai maschi e mena come un fabbro, ma da un film del 2015 no. Oltretutto Anna era una mezza sega fino a tre secondi prima e ora sa karate, spezza bastoni in carotidi e spara come un cazzo di John Wayne in Ombre Rosse. Vi giuro, dovete vederla, la signorina passa da un film tratto da Jane Austen a Il giustiziere della notte 3, in un nano secondo.
Action, cazzo
L’inutile bambina si salva, i carnefici non più molto amorevoli ma cattivi come in un film di Chuck Norris, sorriso ad ogni tortura, muoiono malissimo, salta fuori a random un’altra martire per poi sparire, e si arriva all’Ok Corrall, la resa dei conti.
Ora premetto che ho parlato pochissimo delle torture perchè quasi non ci sono, se il film di Pascal Laugier nella seconda parte era un lungo infierire sul corpo della giovane Anna, qui ci si limita a tre sbuffetti, e anche la terribile scena dello scorticamento, qui si riduce all’asportazione della pelle della schiena della ragazza.
Dovrei scorticarti, ma ti faccio un grattino sulla schiena
Quando poi viene mostrata questa famigerata organizzazione, ti cadono le palle: 4 imbecilli che appena arriva la polizia scappano manco fossero in un rave.
Il finale poi è terribile e oltre ogni umana concezione, con la battuta alla Dolph Lundgren “Vai a scoprirlo da solo, puttana”, fucilata alla pancia della vecchia, che continuava a ripetere “Che ha detto? Che ha detto? Che ha detto?” riferito a Lucie ormai martirizzata e padrona dei segreti dell’Aldilà.
Lasciamo stare il prete che si suicida come nel finale del film di Laugier e il martirio che, senza ragione logica, ha colpito anche la novella Ramba, che muore nel nome di nostro signore Gesù, occhi al cielo e sguardo da Madonna.
Naturalmente i fratelli Goetz per ricordarci che non sono lesbiche ci appiccicano un sottofinale, nel passato, dove loro bambine dicono qualcosa come “Amiche per sempre”.
Amiche forever and ever
Agghiacciante davvero, una cosa che non augureresti neanche al tuo peggior nemico, e che speriamo, in questa Italia, dove anche Gallows, ovvero la merda della merda, fa successo, non arrivi mai. Già la sento una vecchia critica dire davanti a Marzullo, alle tre di notte: “Mi dica perchè questo film non vale quanto l’originale di Lugier?”.
Tra tutti i registi che bazzicavano la serie B americana, horror, thriller o action che fosse, per inventiva e bravura, spiccava senza dubbio Joseph Zito, uno capace di farti piacere un film di Chuck Norris manco fosse un kolossal di Stallone. Zito, nel girare, aveva quella marcia in più, quel senso del ritmo che dev’essere per forza nel tuo DNA, quella capacità di scegiere la musica giusta al momento giusto. I suoi film erano violenti ma non rozzi, sia che si trattasse di un war movie con Dolph Lundgren post Rocky 4 che del capitolo più bello dei Venerdì 13, quello finale anche se finale non fu. Certo erano film fascistoidi, reazionari, soprattutto quelli action girati con la Cannon, ma chissene della direzione politica davanti ad uno spettacolo esaltante e ben girato, davanti ad un B movie fatto come Dio comanda, in quegli iripetibili anni 80 che facevano confondere la serie A con la B a noi ragazzini divoratori di VHS.
Non per nulla Zito era mal visto dai produttori, soprattutto per la sua fama di regista difficilmente arginabile, che sforava i budget imposti con il pericolo di incassi dubbi o comunque minori.
Tra i suoi film meno riusciti c’è di sicuro questo Rosemary’s Killer, che comunque viveva fino a pochi anni fa una fama di culto per tutti i maniaci dello slasher, soprattutto visto la sua natura di oggetto irrecuperabile nel nostro idioma, fino all’avvento di internet e dei mai troppi benedetti mux.
D’altronde Rosemary’s killer non fu un successo in patria, soprattutto quando il produttore declinò l’offerta di 750000 dollari della AVCO Embassy Pictures sui diritti di distribuzione del film, relegandolo ad un destino di autodistribuzione vicino alla morte.
In Italia si sa con certezza di una sua uscita nei cinema, poi forse lo sbarco in tv, ma non approdò mai, stranamente, nel generoso mondo delle vhs prima e dei dvd dopo.
Un peccato perchè Rosemary’s killer, The Prowler in inglese, pur se è uno tra gli slasher più illogici e stupidelli mai girati, ha, dalla sua, una forma impeccabile che lo innalza dalla media del genere, molte volte popolata da film girati con la mano sinistra.
In Rosemary’s killer si nota, fin dalle prime battute, quando le ragazze si preparano alla festa di fine anno scolastico con il parallelo della vestizione del “mostro”, giarrettiere da una parte, il coltello infilato nello stivale dall’altra, che siamo in un terreno diverso dagli spaventelli teen di quegli anni, nati sulla falsariga di Halloween o Venerdì 13, qui c’è una cura non pedestre per i particolari e la costruzione della paura.
Joseph Zito gira non bene ma benissimo, e la sinergia con Tom Savini, mago degli effetti speciali degli anni 80, porta ad una danza di morte tra le più crudeli, cruente e sanguinose viste in un horror adolescenziale di quel periodo.
In più il killer di Rosemary’s Killer è davvero un babau di tutto rispetto con la sua tuta militare a fungere da maschera spaventosa ed efficace nella sua semplicità.
Zito non lesina neppure in nudi spogliando le sue protagoniste/vittime nello stesso modo in cui le ucciderà nelle sequenze successive. E’ un continuo alternarsi tra erotismo e violenza, in una velocità tale da lasciare interdetti, come nel caso della morte della ragazza sotto la doccia, prima ammirata nuda e poi martoriata a colpi di forcone.
Joseph Zito, uno bravo
Se il film ha il suo fascino, anche per via di indovinate sequenze di terrore puro, come la lunga sequenza di inseguimento tra il killer e la protagonista, poco dopo la morte dell’inquilina, come detto, il film cede quando invece cerca di essere plausibile a livello narrativo. D’altronde anche il più cretino può capire chi è l’assassino quando tu sceneggiatore fai sparire un personaggio con la scusa più idiota e credi che il pubblico sia così beota da esserselo dimenticato. Patetici poi gli escatomage di depistaggio che, ad un certo punto, vogliono un vecchio paralitico (il grandissimo Laurence Tierney de Le iene in un ruolo sprecatissimo) essere il probabile assassino, senza d’altronde che nessuno ci creda.
D’altronde è la natura di Giano bifronte di questa pellicola, uno dei milioni di film preferiti da Quentin Tarantino, che vuole fare a cazzotti, come per i migliori Dario Argento peraltro, tra logica e messa in scena. D’altronde è fare gli schizzinosi perchè The Prowler non è più scemo di uno Scream 3 di un quasiasi So cosa hai fatto che funesterà i nostri incubi anni 90. Questo in più è girato pure benissimo e mischia bene il lato splatter con quello più d’atmosfera. Rosemary’s killer d’altronde con i suoi bagni in piscina da versione hardcore di Il bacio della pantera, con le gole infilzate e le tette mostrate un chilo al minuto, con l’assassino che torna alla carica dopo 35 anni senza un vero perchè plausibile, confondendo all’improvviso la protagonista (Vicky Dawson, la più bruttina del cast) con la Rosemary del titolo, salvo dimenticarsene subito dopo, con il finale alla Carrie assolutamente non sense, è pura delizia da cinefilo del cinema horror anni 80. Armato s’intende di pop corn e rutto libero.
Andrea Lanza
Due curiosità sul film:
– Si racconta che Farley Granger, lo sceriffo George Fraser, sia stato scritturato in questo film per puro caso, insegnando recitazione alla moglie di uno dei produttori. Il suo ruolo tra l’altro è quasi un cammeo. Granger e Tom Savini litigarono spesso sul set anche perchè l’attore, claustrofobico, doveva stare una intera giornata con il viso sotto il lattice per creare un calco dela testa. Gli effetti speciali avevano tra l’altro un ruolo importantissimo nel film e Savini definisce The Prowler una delle sue opere più riuscite. Sarà appunto per questo film sfortunato che Joseph Zito verrà scritturato per Venerdì 13 capitolo finale, sempre accompagnato dal fidato Savini che non lo abbandonerà neppure per i suoi action gore come Invasion USA.
– La scena dove il vicesceriffo e la sua fidanzata aprono la tomba di Rosemary’s e la trovano occupata da una sfortunata vittima del killer fu girata in un vero cimitero. Non solo: anche quella cassa da morto era vera e in attesa del suo legittimo proprietario. Roba da fare gli scongiuri, ma niente paragonabile ai 18 calci che l’attrice Cindy Weintraub si prese nel tentativo di girare bene la scena della sua morte in piscina, dove appunto una pedata del killer la ributtava in acqua. Fortunatamente il piede era in lattice.
Rosemary’s killer Titolo originale: The prowler Regia: Joseph Zito Interpreti: Vicky Dawson, Christopher Goutman, Lawrence Tierney, Farley Granger, Cindy Weintraub, Lisa Dunsheath, David Sederholm, Bill Nunnery, Thom Bray, Diane Rode, Bryan Englund Durata: 90 min. Anno: 1981
L’Asylum, quella meravigliosa gabbia di matti che sarà ricordata negli annali non per la qualità delle loro opere, ma per la loro miserabilità, dopo il successone interplanetario di Sharknado, tornadi con dentro squali, ha aperto le porte a una serie di shark movie bizzarri, a volte prodotti da loro, a volte imitati da altri, come l’incredibile Sharktopus vs Pteracuda, “una storia d’amore” come recita il delirante sottotitolo.
Una storia d’amore ispirata ad eventi veri…
L’Asylum dal conto suo non ha prodotto “storie d’amore” ma se l’è cavata benissimo con squali a tre teste, mega squali contro Robot titanici che neppure il Titan di Zagor si immaginava, Mecha squali e chi più ne ha più ne metta, tanto che si vocifera uno spin off tra Ice T vestito da squalo e Don Salvatore di Gomorra, sullo sfondo di una Scampia pericolosamente somigliante alla Ibiza postatomica di Atlantic Rim.
Over faij, Lanza?
Con Shark week diciamo che l’Asylum aggiusta il tiro, apparentemente: niente stronzate esagerate, niente parossismi assurdi e telefonati, siamo in campo horror torture porn, roba mica da ridere, una cosa che suona come Lo squalo incontra The saw. Quindi il plot vede un gruppo eterogeneo di sfortunati protagonisti svegliarsi su un’isola deserta, in balia del sadismo di un boss della droga, El tiburon, fissato, visto il suo nome, con gli squali. Il film appunto è una sequela di prove che i poveri sfortunati dovranno superare per sopravvivere e che sono sempre, con la variante della specie affrontata, una battaglia con un pescione, di volta in volta, più cattivo e feroce.
Il regista Christopher Ray, figlio del mitico Fred Olen Ray di tante zozzonerie anni 80 che amiamo, ha una regia abbastanza elegante e all’inizio sembra quasi crederci alla storia, riuscendo, pur nell’incapacità di girare una scena di lotta decente e non ridicola, a dare un minimo di suspense al film. Poi naturalmente tutto diventa un asylunata.
Sono Christopher Olen Ray e vi giuro che sono bravo! Ho pure il martello di Thor!
Quindi, via di terreni che crollano a comando, di squali uccisi a mani nude con i cazzotti o con legnettini che non farebbero il solletico neppure al mio pisello che per antonomasia è sensibile, di terreni minati pericolosissimi che bisogna stare attenti a dove metti i piedi, ma che poi basta correre e ti salvi, le stesse mine che non esplodono mai, neanche se le scuoti, ma che quando lo squalo ti attacca, boom, esplodi con lui.
Peccato perchè proprio Cristopher Ray aveva girato una versione femminile non male di Expendable, Le mercenarie, con il guizzo di metterci come villain proprio l’ex moglie di Stallone, Brigitte Nielsen. Sono sicuro che il ragazzo, lontano dall’Asylum, se mai lo farà, potrà fare qualcosa di buono, ma dovrebbe rivedere alcune sacrosante regole del B movie. Ovvero, se non hai budget, se il tuo film è cretino, se i tuoi attori fanno schifo al cazzo, mettici delle tette. Le tette non salvano il disastro, ma rendono tutto meno disgustoso, come un pompino dopo un pugno, come il cacio su dei terribili maccheroni, come un po’ di budello quando non sei zio Alfred. Per Christopher, anima pura, purtroppo le tette non esistono, esistono solo brutti squali in pessima computer grafica e la gigioneria di Patrick Bergin nel ruolo del Tiburon.
Patrick Bergin che fa il cattivo sornione
Ora io Patrick Bergin non lo vedo da un po’, ma lo ricordavo bravo, con i suoi baffoni da serial killer anni 90, preso ad infastidire una Julia Roberts ancora scopabile in A letto col nemico o a fregare la gente nella versione discount di Robin Hood senza Kevin Costner, un attore dignitoso, con carisma, ma è brutto constatare che, dopo 20 anni di oblio, sia diventato il peggior cagnaccio sulla terra.
Patrick Bergin in Shark week è col pilota automatico di gigioneria fuori controllo, strabuzza gli occhi, fa le facce, urla, poi all’improviso si quieta per bere sangue di squalo e urlare ancora più forte. Una cosa che neppure nei peggiori filmacci girati da Bruno Mattei, quando l’attore protagonista americano era in evidente botta di droga o di vinazza, potevi vedere e che, sapendo che hai davanti Patrick Bergin in mood Al Pacino di Bangladesh, ti crea un disagio infinito. Ecco che Shark week ti rende come una mamma davanti al figlio scemo che senti di dover uccidere ma non puoi.
Il resto del cast è agghiacciante e l’Oscar della dilettante d’oro è meritato da Yancy Butler, ex ragazza strafiga di Van Damme in Senza tregua di John Woo, ex Sara Pezzini di Witchblade la sfigatissima serie tv, e ora sfattissima 46enne sul viale di un tramonto che non ha mai visto l’alba. Quando viene fatta esplodere, in una delle tante scene sceme ideate dai due sceneggiatori Liz Adams e H. Perry Horton, non può non scattare l’applauso dello spettatore sfiancato dai tanti piagnistei dell’attrice.
Peccato perchè sulla carta il film poteva non essere male in questa bizzarra commistione shark movie/torture porn, ma, come detto, nella mani della produzione Asylum tutto viene buttato in un film incolore e anonimo, senza sangue o sesso, senza nessun elemento, e stavolta neanche l’assurdità di fondo di uno Sharknado, a salvare capra e cavoli. Non mi sento di dare la colpa al buon Christopher Ray che, alla fin fine, deve arrangiarsi con il budget che ha, lo script indecente e gli attori ululanti. Un paio di scene, sia dato atto, come il riuscito prologo, riesce a metterle a segno con stile.
Iniutile dire che fossi in voi sceglierei un altro weekend, non questo a base di squali. Questo è come una vacanza fai da te senza Alpitour. Aiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiaiai!
Andrea Lanza
Shark week
Regia: Christopher (Olen) Ray
Cast: Yancy Butler, Patrick Bergin, Joshua Michael Allen, Bart Baggett, Erin Coker, Frankie Cullen, Valerie K. Garcia, Billy Ray, Meredith Thomas
“Quando gli incubi di un’adolescente diventano realtà”
(Frase di lancio sulla vhs italiana)
Lo slasher è un genere abbastanza semplice. Mettici un assassino, una casa sperduta, qualche giovane incauto, e voilà il gioco è fatto. Se poi, tu regista, sei anche bravo, puoi aggiungere, a mò di condimento, ma non è necessario nella logica del B movie, anche suspense e una risoluzione finale non prevedibile. Lo slasher l’hanno affrontato registi cult come Sergio Martino nel suo mai troppo glorificato I corpi presentano tracce di violenza carnale, Wes Craven con la sua impareggiabile tetralogia di Scream, senza contare un miliardo di registi, o presunti tali, negli anni 80, persino il bravo autore di Porky’s, Bob Clark, e naturalmente John Carpenter, non il primo, ma quello da cui tutto ebbe inizio, con Halloween.
Senza Halloween, non mi vogliano i Martino, i Clark o i Bava che è vero c’erano prima, non ci sarebbero stati i Venerdì 13, i Decoteau frocissimi venduti al supermercato a un euro e 99, gli Scream e tutti i loro figli mongoloidi, il cinema non sarebbe finito, ma il panorama horror sarebbe stato orfano di alcuni assassini che ci hanno fatto da papà nella nostra crescita di appassionati del cinema di paura.
Con Halloween il cinema thriller ha subito una scossa elettrica, ovvio che, visto il clamore e il successo, ci volessero provare tutti, anche perchè gli ingredienti del novello genere,come detto, erano più che semplici e sicuramente riproducibili con facilità. Certo Carpenter era Carpenter, lui faceva venire il brivido sulla schiena anche con una soggettiva di un bambino, ma senza suspense si poteva, per esempio, puntare sulle tette, e, senza musiche d’atmosfera, sul gore. D’altronde le regole dei B movie più scatenati vogliono l’arte dell’arrangiarsi come dogma principe.
Una Lama nella notte arriva nel 1986, quando il genere slasher è già bello che consumato, cercando, a partire dall’idea di farlo dirigere da una donna, di cavalcare il successo di un altro slasher ottantino, The Slumber Party Massacre diretto da Amy Jones.
La regista Carol Frank era stata tra l’altro assistente alla regia proprio di The Slumber Party Massacre, quindi al produttore Roger Corman dev’essere sembrata la declinazione più giusta quella di promuovere la Frank come regista e sceneggiatrice assoluta, nel tentativo di bissare gli elementi del precedente film.
Inutile dire che la carriera di regista di Carol Frank si fermerà giustamente qui.
In The Slumber Party Massacre a farla da padrone erano gli omicidi col trapano elettrico perchè nel cinema horror di serie B è raro che l’assassino trombi, ma col suo trapano grande e grosso come un pisellone da film hard, oh sì!, poteva trapanare tutte e ragazze che voleva. Il sesso visto come pericolo mortale dei vari slasher qui acquistava un’iperbole maggiore di metaforona, un’invenzione non pedestre sia dato tanto di cappello alla Jones.
La Frank non arriva a tanto, all’inizio cerca di confondere le carte con una regia virtuosistica, montaggio azzardato, telecamera impazzita, ma non è nè Sam Raimi nè Kevin S. Tenney, quindi il gioco dura poco, e Una Lama nella notte diventa una milk shake di Halloween con Nightmare on elm street, non avendo nè la genialità nè la suspense di nessuno dei due.
Momenti Nightmare
Dal capolavoro di Carpenter la Frank prende il rapporto di parentela, sorella/fratello, tra la protagonista (un’antipaticissima Angela O’Neill) e l’assassino bietolone, interpretato dallo sfortunato John C. Russell (morì a soli 39 anni nel Marzo del 1997), qui al suo unico ruolo della carriera. Da Nightmare, un po’ come farà La casa al n. 13 in Horror Street di Harley Cokliss, mutua gli aspetti più superficiali: i sogni ad un passo dal dormiveglia, e bambine bianco vestite che avvertono del pericolo imminente, e la bizzaria del mondo onirico (con almeno, sia dato a Cesare, un momento riuscito, ovvero la tavola imbandita con le bambole umane sedute). Il tutto è però un frullato di scopiazzature che, sia chiaro, non fa mai paura.
In più questo assassino, Bobby, non ha neppure una maschera figa, si deve accontentare del faccione da bamboccione di John C. Russel, uno che non farebbe paura neppure alla festa di fine anno dell’asilo, figuriamoci in un thriller.
Sono il killer più carismatico della storia dei thriller
Ci sono però momenti, anzi intuizioni, buone, che però non sono mai sviluppate, lasciate a morire nel breve metraggio della pellicola, 77 minuti, come quando, senza un vero motivo, scopriamo che il killer Bobby vede ogni sua vittima come una bambina. Ok, molto La scala a chioccia, ma perchè?
Per il resto abbiamo un thriller scemo che, girato da una donna, forse si pensava sarebbe stato meno scemo, per lo meno non puntato sulle tette gratuite, invece, a dimostrazione che le vie del Signore sono infinite, Carol Frank ci infila ad inizio pellicola, una scena assolutamente gratuita dove alcune delle protagoniste si spogliano per provare dei vestiti, tutto musicato da una musica anni 80 insostenibile. C’è da dire che Sorority house massacre, questo il titolo originale, nelle mani di un porcone come il grande Jim Wynorski sarà ancora più scollacciato, con tette e docce a gogò nei due seguiti, Sorority house massacre 2 e Hard to die, che girerà negli anni a venire, con risultati di divertimento nerd comunque maggiore. Eh si, perchè Una lama nella notte, siamo sinceri, è una discreta palla.
Momento tette gratuite
Ma vogliamo parlare di come Carol Frank gira gli omicidi? Di quanta disattenzione c’è nei confronti dell’atmosfera che dovrebbe essere parte integrante di un thriller? Bobby arriva e uccide, non sparge molto sangue, le sue vittime muoiono come galline sceme facendo cose sceme come la scena dove una cretina scende le scale e si butta quasi in braccio al killer, innescando una gang incredile dove lei cerca di risalire e l’assassino prova a prenderla per i piedi. Una cosa che neanche Scooby doo!
Essendo poi la Frank una donna ci infila, in una scena di morte, poi un gratuito nudo maschile di un ragazzone che corre nudo come mamma l’ha fatto indossando solo scarpe da tennis e calzini bianchi! Per noi amanti del cinema horror tettuto è, per citare l’immortale poeta J-Ax, “l’equivalente del dito in culo quando scopi”.
Altra cosa implausibile sono i comportamenti dei personaggi davanti agli omicidi: Bobby uccide i loro amici e questi non fanno un ah o un bah, si dimenticano dell’esistenza di quella persona, la danno già morta quando, ad un passo da loro, quella inciampa chiedendo aiuto. Tutto a cominciare da quella palla al cazzo della protagonista, una che non vorreste mai alle vostre feste, ha sempre il mal di testa, non sorride mai, quando si festeggia ha sonno. Che palle!
Stendiamo un velo poi sull’incapacità recitativa di tutto il cast che può sfoggiare non attori capavi, nelle scene di tensione, di ridere sotto i baffi. Una cosa incredibile a vedersi. Non ci si capacita che un film tanto brutto e malfatto sia arrivato da noi in Italia, in un’edizione però giustamente da straccioni, con un doppiaggio da mani nei capelli.
Che dirvi? Una lama nella notte non è ben girato, non è sanguinoso, ha solo due o tre tette buttate nel minestrone qua e là, ma il divertimento è basso. Vi consiglio di recuperare, come già detto, i due seguiti di Wynorski che sono brutti è vero, ma, Madonna, quanto son divertenti! E il divertimento è tutto in un brutto film di Serie B.
Andrea Lanza
Curiosità:
Il film che i ragazzi in tv vedono è The Slumber Party Massacre di Amy Jones
Angela O’Neill, l’attrice protagonista, dopo la figura barbina in questo suo film, si riciclerà come guardarobiera in filmdi un certo pregio come Apollo 13 o Soldato Jane. Il cinema era nel suo sangue, certo, ma non come attrice!
Il film segna il debutto dell’attore/produttore Vinnie Bilancio, noto per cosacce di serie B come Camp Blood o Blood gnome. Ha pure diretto tre misconosciuti horror, brutti come la morte.
La bellissima biondona della copertina non appare nel film, ma trattasi di Suzee Slater, già vista nel capolavoro di Winorsky, Il supermarket dell’horror, e futura interprete di simpatiche zozzerie come Ipnosi morbosa di Fred Olen Ray.
Una lama nella notte Titolo originale: Sorority House Massacre Anno: 1986 Regia: Carol Frank Interpreti: Angela O’Neill, Wendy Martel, Pamela Ross, Nicole Rio, John C. Russell, Vinnie Bilancio, Joe Nassi, Mary Anne, Gillian Frank Durata 77 min. – Videogram – Inedito in sala – Divieto ai minori di 14 anni
Prima o poi arriva sempre, nella vita, il momento in cui ti ritrovi a fissare qualcosa, con gli occhi sgranati, incredulo, non capacitandoti di come possa essere reale. Ecco, quando quel particolare attimo vi si para davanti agli occhi siate coraggiosi e andate oltre, abbandonate la codardia dell’uomo comune, fortificatevi attraverso le tempeste che la vita vi rovescia lungo la via. Perciò, quando vedrete sugli scaffali del vostro rivenditore di film preferito una locandina che ritrae Dolph Lundgren insieme alla pinna dorsale di uno squalo, siate forti, amici miei, poiché è solo una prova, un esame che il Dio Cinema usa per testare il nostro valore e la nostra temerarietà. Perché non è realmente credibile che il buon Dolph sia davvero in un film dove lotta con gli squali, giusto?
Pensavo tutto questo fino a circa due ore fa, poi le mie certezze sono franate, precipitandomi nella consapevolezza che qualcuno, lassù, probabilmente mi odia. Shark Lake è il Jaws dei mentecatti e il solo pensiero che Lundgren combatta contro un mangiatore di uomini acquatico raggiunge livelli di epicità, e al tempo stesso di trashume, inauditi. È pura masturbazione per esteti del brutto cinematografico e la cosa più strana di tutto questo è che, fino a un certo punto, sembra quasi che funzioni.
Non vi sfugga il sembra, il segreto sta tutto lì.
Il biondo svedese interpreta Clint Gray, trafficante di animali esotici o rari che, in seguito a un inseguimento finito male, viene arrestato. Durante la sua carcerazione a prendersi cura della piccola figlia è la poliziotta Meredith Hernandez (la bellissima Sara Malakul Lane), che si prende talmente a cuore la bambina da cercare di evitare il futuro incontro con il padre, una volta fuori dalla galera. Purtroppo si ritroverà ad affrontare pericoli peggiori, poiché uno degli animali di Clint è finito nel lago Tahoe e nessun bagnante è più al sicuro.
Come ho già scritto siamo sì dalle parti di Jaws, ma più che altro di Shark Night e questo non è sinonimo di qualità. Certo, stavolta ci risparmiano gli squali che ringhiano e ruggiscono, ma vedere attacchi di Leuca in dieci centimetri d’acqua fa sanguinare gli occhi dalla disperazione. In realtà cacciano anche a lievi profondità, ma c’è davvero bisogno di essere Jacques Cousteau per rendersi conto che in riva a un lago, calma piatta, acqua alle caviglie, un dannatissimo squalo di tre metri e mezzo si spiaggerebbe allegramente nuotando come il signor Creosote sotto steroidi?
Eppure male non era partito, bisogna in fondo prenderne atto. Per avere un budget limitato sono riusciti a creare una buona scena iniziale, con un discreto, seppur breve, inseguimento automobilistico. Beh, discreto se ci dimentichiamo dell’esistenza di John Frankenheimer e del suo Ronin, ma non facciamo i pignoli. Proseguendo nella narrazione, tuttavia, aumenta la sensazione di smarrimento, non si capisce più cosa il film ci vuole raccontare. Da una parte abbiamo il dramma famigliare (sì, mi piacerebbe), dall’altra lo squalo, anzi, gli squali, e quindi si crea un po’ di confusione su cosa realmente sia importante, su dove la storia va a parare. Non c’è un buon ritmo e il problema non rientra nel budget risicato, è solo questione di idee e, di conseguenza, di una sceneggiatura spenta, prevedibile e noiosa. La nostra bella e irritante poliziotta gira di qua e di là, intenta a impedire con tutti i modi che la figlia adottiva riveda un padre che più spaesato non si può. Dolph Lundgren è, concedetemi la battuta, un pesce fuor d’acqua. Mi sembra di vederlo mentre cammina sul set, guardandosi attorno smarrito, chiedere al regista: “Ehi Jerry, ma quando imbraccio il lanciamissili e apro in due quel pesce del cazzo?”. Jerry Dugan lo fissa silenzioso, bocca semi spalancata e sguardo vacuo: “di quale lanciamissili parli, Dolph? Dai smetti di dire stronzate, che abbiamo finito i soldi con lo squalo in CGI e adesso devi prendere a pugni un pesce di gomma”. Mesto, il gigante svedese si rifugia in un angolo, mangiando nervosamente polpette dell’ikea mentre si chiede quale intruglio diabolico l’abbia costretto non solo a partecipare, ma persino a produrre questo film.
Professionale come sempre, Lundgren non può, però, rendere piacevole Shark Lake, la sua regia morta o il suo script imbarazzante, che naturalmente sciorina tutti i cliché del Genere. E lo fa pure male. Tra personaggi anonimi e scene che possono uccidere le sinapsi, resta la netta sensazione che avremmo potuto impiegare quell’ora e mezza in modi decisamente migliori. Se è vero che, citando la bravissima Nathalie Baye di Effetto Notte, “io per un film potrei piantare un uomo, ma per un uomo non pianterei mai un film”, a sto giro qualche dubbio a riguardo viene da porselo. Uscite, prendetevi una birra fresca o un gelato, fate l’amore anche se fa caldo e lasciate perdere laghi e squali. Sono quasi sicuro che anche Dolph sta cercando di fare altrettanto.
Manuel “Ash” Leale
Shark Lake
Anno: 2015
Regia: Jerry Dugan
Interpreti: Dolph Lundgren, Sara Malakul Lane, Lily Brooks O’Briant, James Chalke, Michael Aaron Milligan, Ibrahim Renno