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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

Malastrana VHS

Archivi Mensili: ottobre 2017

Uragano Smith

26 giovedì Ott 2017

Posted by andreaklanza in action, action comedy, azione, Recensioni di Andrea Lanza, U

≈ 13 commenti

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action jackson, apollo creed, carl weithers, craig r. baxley, ozploitation, uragano smith

Alla morte della madre, Billy “Hurricane” Smith lascia gli Stati Uniti e si lancia alla ricerca della sorella scomparsa in Australia. Nell’altro emisfero la ragazza s’è messa a fare la prostituta ed è per questo che Billy entra in contatto con Howard, proprietario di un bordello, e con il suo braccio armato. Hurricane ci mette un po’, ma capisce d’essere caduto nel posto giusto.

Uragano Smith è un film strano, non riuscito, ma a tratti interessante, soprattutto se siete fanatici dell’action anni 80 trasposto nei ’90 e del cinema di serie B australiano. Eh sì perché dietro una patina di film  d’azione alla Cannon, magari uno di quelli diretti da Aaron Norris senza Chuck o, che so, da Jack Lee Thompson orfano di Charles Bronson, si nasconde un prodotto d’imitazione in salsa ozploitation.

Siamo in un action che, fin dal titolo, scimmiotta il ben più riuscito e testosteronico Action Jackson, sempre con lo stesso attore, il Carl Weithers/Apollo Creed di Rocky. Solo che, dettaglio importante, al posto di Craig R. Baxley alla regia, abbiamo un semisconosciuto Colin Budds, una cosa non da poco.

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Sulla somiglianza dei titoli ci gioca anche la locandina che recita “The man who put the action in Jackson, now puts the hurricane in  Smith“, ma, come detto, se Baxley era un regista scatenato sul piano dell’azione, lo dimostra quel gioiello di Arma non convenzionale, il nostro Budds è meno avvezzo a giostrare sparatorie e tempi morti.

In primis a non convincere in Uragano Smith è inaspettatamente la colonna sonora di Brian May, non proprio l’ultimo dei compositori, che aveva reso memorabili  gli inseguimenti adrenalinici dei primi due Mad Max di George Miller. Cioè credo che sia tra le cose più suicide del mondo l’idea di musicare un film d’azione con un tedioso jazz alla Cotton club; a me personalmente fa venire in mente delle gran scopatone alla Zalman King piuttosto che il sottofondo ideale per dei colossi muscolosi che si menano e si prendono a pistolettate, sempre che non siamo in un porno gay naturalmente. E ovviamente non lo siamo.

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Altra cosa è il ritmo. Oddio, in 95 minuti sono più le parti dove non succede niente di quelle dove vediamo mezzi esplodere, ferite sprizzare sangue o pestaggi violenti. Non che, in un film d’azione, non ci debba essere anche una parte intimista o uno sviluppo narrativo, ma la cosa che non dovrebbe esserci mai è la noia e qui purtroppo è presente in dosi massicce.

Prendiamo la scena d’amore tra il buon vecchio Uragano Smith e la prostituta Julie, la scusa più gettonata per mostrare le tette dell’attricetta di turno, l’occhio vuole d’altronde la sua parte anche in un film d’azione, peccato che qui sia girata davvero alla cazzo di cane, per citare il buon vecchio René Ferretti. Luci rosse ad illuminare la sequenza forse per fare elegante, telecamera messa in una posizione random, questo jazz perenne e, merda, neanche una tetta. Cioè, caro il mio Colin Budds, che diavolo mi giri una scena di sesso se non hai il minimo talento per girarne una? Io voglio cavalcate alla Ombre rosse, le urla degli indiani del Sand Creek, il pelo di King Kong e l’esplosione dell’Etna, non due attori, tra l’altro neanche empatici, che fingono di sfregarsi in un letto e, men che te ne accorgi, sono già vestiti in pieno post coitum depresso. “Sono stato bravo?“. Hurrican Smith, ma vaff…

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Testa o croce

Per lo meno quando ci sono i momenti action il film diventa più brioso con inseguimenti in piena città e scontri tra auto e bus, poi navi che saltano dal mare alla terra ferma, elicotteri come scenario di scazzottate volanti, esplosioni con tanto fuoco e proiettili che dilaniano carne spruzzando sangue a profusione. Peccato che, come detto, queste scene siano il 30 per cento in un 70 per cento di brutti dialoghi e momenti imbarazzanti.

In più c’è sempre quest’aria poverissima di prodotto d’imitazione, la stessa atmosfera che si percepiva nei nostri polizieschi d’imitazione più smaccati come una Magnum per Tony Saitta di Alberto De Martino: poche comparse, strade semideserte e al massimo un elicottero per fare tanto Hollywood dei poracci.

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Qui non si scopa

Carl Weithers qui sceglie l’ultimo ruolo importante della vita, una pietra tombale per la sua carriera, un film che da noi è giunto solo in vhs e che, anche all’Estero, pur avendo una distribuzione Warner, non se lo sono cagati in tanti. Sarà che l’attore si priva dei suoi baffoni porta fortuna e che così, sbaffato, sembra quello che realmente è, un caratterista famoso, promosso senza molti meriti al ruolo di protagonista. Il nostro Apollo Creed funziona se affiancato da attori di più carisma come lo Swarzy di Predator o lo Sly dei Rocky, o quando un regista coi cosiddetti lo riesce a valorizzare malgrado la sua faccia da granito.

Ad affiancarlo l’altro nome internazionale del cast, Jürgen Prochnow, cattivo di tanti action americani e appena reduce dal successo di Un piedipiatti a Beverly Hills 2. Qui si limita a digrignare i denti e a ripetere il suo clichè di villain già visto meglio in altri suoi film. Però, diavolo di un Jürgen Prochnow, lui almeno ha una scena madre dove dialoga, giuro dialoga, con una prostituta nuda, interessata a tutto forchè che a chiacchierare, ma Colin Budds, visto che non scopa mai, vuole farci credere che in Australia tutti vivono il suo dramma.

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C’è da dire che, malgrado la sciattezza di una regia che, il più delle volte, sembra un tripudio di buona la prima, ci sono momenti di puro delizioso delirio narrativo. Per esempio, ad un certo punto, la spalla comica del protagonista, Stinco interpretato dall’ottimo caratterista Tony Bonner, bussa alla porta di Uragano e si presenta come Sylvester Stallone. In più Carl Weither viene sfottuto in almeno trecento modi dal classico “Vaccaro” al “Negro” con le varianti di “Ti vorrei picchiare ma non ho voglia di sporcarmi” e “Cioccolatino” in un razzismo difficilmente riscontrabile nei prodotti politicalmente corretti americani. Per non parlare del finale dove tutti abbiamo capito il destino della sorella di Uragano, tutti, dalle comparse sullo sfondo al povero spettatore, e quindi esasperato il cattivo gli urla “Oh è morta! Possibile che non ci arrivi?” e applausi a scena aperta.

Fa riderissimo poi che, dopo un pestaggio a petto nudo ai danni del nostro Apollo, gli aguzzini si prendano la briga di rivestirlo di tutto punto, prima di gettarlo da un’auto in movimento, non dimenticando però di rimettergli al polso il suo orologio! Ah l’Australia, terra di gentlemen, altro che di bifolchi!

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Altra scena assurda poi è quella che ci mostra una specie di sottoscala, dove si svolge quello che a prima vista è un combattimento alla Fight club, con tanto di scommettitori accaniti, e che invece si rivela essere un banale lancio di monetine stile Testa e croce.

Nel cast si fa notare Cassandra Delaney, nei panni della coprotagonista Julie, star del classico della ozploitation Fair game di Mario Andreacchio, lì oltretutto nudissima e legata ad un auto in una delle scene più topiche di tutta la storia del cinema australiano d’azione. Altro che scopate flou su sottofondo di jazz.

Hurrican Smith, si chiama così tra l’altro perché il protagonista salvò sua sorella da un uragano quando aveva tredici anni, è uno di quegli scarabocchi cinematografici che si guardano per curiosità ma che si dimenticano più veloci della luce. Non proprio un peccato in fin dei conti. D’altronde cosa aspettarsi dagli ideatori di Uccelli di rovo 2: il ritorno?

Andrea Lanza

NB Naturalmente la pellicola non c’entra nulla con l’Hurricane Smith del 1941 di Bernard Vorhaus o con I Pirati della croce del Sud (Hurrican Smith) del 1952 di Jerry Hopper, tra l’altro bellissimo, con Yvonne De Carlo, John Ireland e James Craig. Esiste poi, per onor di cronaca, un famoso batterista, Norman Smith, collaboratore tra l’altro dei Beatles e dei Pink Floyd, conosciuto con l’appellativo di Hurrican Smith. Anche questa una casualità.

 

Uragano Smith

Titolo originale: Hurricane Smith

Australia, 1992

Regia: Colin Budd

Interpreti: Carl Weathers, Jürgen Prochnow, Cassandra Delaney, Tony Bonner

Durata: 84 min.

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Vincoli di sangue

25 mercoledì Ott 2017

Posted by andreaklanza in Recensioni di Andrea Lanza, slasher, thriller, V

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cinema, film, murder in law, vincoli di sangue

Eccoci a parlare di un brutto film, anzi di un orrendo film sconosciuto ai più, uno dei tanti horror rimasti, per fortuna, nell’oblio della vhs. Noi di Malastrana vhs siamo però come dei deviati coprofili, degli archeologi della merda filmica, perciò ci siamo approcciati, non senza fatica, a guardare questa immondizia che neppure l’essenziale Dizionario dei film horror di Rudy Salvagnini riporta.

La storia è semplicissima: una psicopatica fugge dal manicomio e torna, dopo 10 anni di oblio, dal figlio che non sa nulla delle turbe mentali della madre. Facile immaginare che il resto del film sia l’incontro/scontro tra la donna e il nucleo familiare dove si è inserita a forza, nuora e nipotini annessi, con corollario di stramberie e omicidi a random.

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La pellicola si inserisce nel glorioso filone delle vecchie pazze che ha visto sfoggiare il talento di vecchie glorie come Bette Davis e Joan Crawford in Chi ha ucciso Baby Jane?, Shelley Winters in Chi giace nella culla di zia Ruth?, e, in tempi più o meno recenti, Jamie Lee Curtis in La notte della verità e Jessica Lange in Obsession.

C’è da dire che Marilyn Adams che interpreta, in completo overacting schizofrenico, la cattiva del film, Milly, è un cagnaccio come poche, ma, a sua discolpa, a dire il vero, si parla di un film girato e interpreto coi piedi, una cosa a metà tra l’amatoriale inconsapevole e la gita di Don Buro in America.

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Il regista Tony Jiti Gill, un solo altro film per fortuna nel curriculum e non horror, non riesce mai a portare tensione ad un film che dovrebbe spaventare, è benedetto solo da una bellissima fotografia alla Creepshow, che si perde nella vhs italica, dai colori accesissimi e innaturali, ma, Dio Santo, ogni tanto, se non fosse per il budello, si potrebbe pensare ad un sonnacchioso tv movie anni 80.

Vincoli di sangue non ha un solo momento dove ci si porti a parteggiare per un personaggio, sono tutti antipatici, dai petulanti figli adolescenti, all’irritante moglie, al marito tra lo scemo e il tontolone, per non parlare di lei, l’assassina, un dito nel culo dalla prima apparizione. Cioè, io mi dico, ma se sei la cattiva di un film horror devi averle due o tre qualità che ti facciano ricordare dal pubblico per qualcosa di più di “vecchia rincoglionita assassina”, e invece la nostra Marilyn Adams tra continue lamentele, dildi marciulenti nascosti nella valigia, l’amore per i gatti nella zuppa, l’ossessione da slasher per il sesso, lo sguardo da scema del villaggio si appropria a tutto diritto il ruolo di “vecchia rincoglionita assassina”. Nei secoli dei secoli.

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Il piatto forte del film però è la comicità involontaria, con buona pace degli omicidi, solo uno, tra l’altro, degno di nota commesso a colpi di ferro da stiro. Come non citare i pantaloni rosa shocking del protagonista, Joe Estevez, fratello minore di Martin Sheen? O l’accento esageratamente straniero della donna di servizio? O quando, nel finale, la moglie, rimasta sola con l’assassina, non trova di meglio che affrontarla con una scopa di plastica dai colori di sciatta Ikea? O questa meravigliosa scena che parla da sola:

 

Il versante sesso latita, ma la figlia adolescente, ad un certo punto, senza nessuna logica di trama, decide di farsi una bella doccia mostrando fugacemente le sue tette. Poca roba come d’altronde poca roba è un film che si autodefinisce, nella sua locandina originale, “La madre di tutti gli horror” meritandosi un bel vaffanculo di chi, all’epoca, ha noleggiato la vhs, credendoci.

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Unica nota positiva di questo horror, oltre è la già citata fotografia, è il bel commento musicale di Jon McCallum, struggente e purtroppo fuori luogo in un pastrocchio come questo.

Vincoli di sangue uscì da noi in vhs per la Fox con uno di quei bei doppiaggi di merda da B movie che avevano le nostre videocassette inedite al cinema. Il nostro consiglio è di rivolgervi ad altro se avete voglia di stranezze su vecchiacci assassini come il meraviglioso American gothic di John Hough con Rod Steiger e Yvonne De Carlo. Il tempo perso non ce lo ridarà mai nessuno.

Andrea Lanza

 

Vincoli di sangue

Titolo originale: Murder in law

Anno: 1989

Regia: Tony Jiti Gill

Interpreti: Marilyn Adams, Joe Estevez, Sandy Snyder, Darrel Guilbeau, Debra Lee Giometti, Rebecca Lyn Russell, Carol Stoddard

Durata: 90 min.

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Amityville il risveglio

23 lunedì Ott 2017

Posted by andreaklanza in A, Recensioni di Andrea Lanza

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amityville, amityville il risveglio, bella thorne, Franck Khalfoun, Harvey Weinstein, recensione, recensioni, seguiti

Quarant’anni dopo il massacro della famiglia De Feo a opera di uno dei suoi componenti, la grande casa di Amityville, Long Island, viene abitata da un nuovo nucleo familiare, composto dalla mamma Joan, dalla figlia grande Belle, dalla figlia piccola Juliet e dal fratello gemello di Belle, James, in coma da due anni. Le tensioni in famiglia non mancano: Belle, con un passato scapestrato, si sente in colpa perché James si è ridotto così in seguito a un litigio con un ragazzo che aveva messo su internet delle foto non commendevoli di Belle; Joan, che ha perso il marito di cancro, ha dei rapporti pessimi con Belle e pensa solo a James, sottoponendolo a continue cure ed esami nella speranza (vana, secondo il medico) che torni come prima. Solo la piccola Juliet sembra esente da rancori e recriminazioni, ma soffre nel vedere così turbata la pace familiare. Dopo alcuni accenni denigratori dei nuovi compagni di scuola, Belle scopre che la casa dove la mamma li ha portati a vivere è proprio quella del caso De Feo e ne è inorridita. Affronta la mamma che minimizza dicendo che si tratta solo di una leggenda metropolitana. Le cose però non stanno proprio così, come Belle scopre ben presto. Misteriosamente, infatti, James compie dei notevoli progressi. La mamma ne è entusiasta, ma Belle comincia a pensare che sia posseduto da un’entità malevola.

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A noi di Malastrana la saga di Amityville piace, almeno fino all’onesto Dollhouse, poi, ammettiamo, abbiamo smessa di seguirla tra un capitolo scamuffo dell‘Asylum del 2011 (The Amityville Haunting) e seguiti girati in fretta e furia.

C’è da dire però che questo Amityville il risveglio era riuscito ad accendere la nostra Amityville mania, un po’ come l’ottimo remake in chiave Michael Bay, vuoi perché era girato dall’amico di merende di Alexander Aja, Franck Khalfoun, quello del rifacimento di Maniac e del vituperato –2 livello di terrore, vuoi perché si portava addosso la fama di film maledetto.

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Eh sì, forse più sfigato che maledetto, ma Amityville il risveglio, titolo di lavorazione Amityville the Reawakening, ha iniziato il suo lento cammino di gestazione nel lontano 2012 quando, sulla falsariga di Paranormal activity, si pensò all’idea di girarlo come un found foutage, arrivando un anno dopo l’Asylum e il già citato Amityville Haunting. Il film a sentire le dichiarazioni di Bob Weinstein della Dimension doveva essere una bomba:

“Siamo entusiasti di tornare alla mitologia della saga di Amityville con una nuova e terrificante storia che soddisferà gli appassionati e userà una chiave di lettura nuova per approcciarsi alla mitologia della serie“.

La sceneggiatura, scritta da Casey La Scala e Daniel Farrand, però fu presto scartata a favore di un nuovo script, non più mocku, firmato dallo stesso regista Franck Khalfoun. Solo che, dal 2012, si era già arrivati al 2014.

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Tra il 2014 e il 2015 il film entra effettivamente in produzione con un cast che conta la allora sedicenne Bella Thorne, vista ultimamente in The Babysitter di MCG e la serie di Scream, poi la veterena Jennifer Jason Leigh, Mckenna Grace, Cameron Monaghan, Thomas Mann, Taylor Spreitler, Jennifer Morrison e Kurtwood Smith. Un bel cast di volti noti e meno noti, provenienti per la maggior parte da serie tv, ma capaci di catturare soprattutto il pubblico teen al quale il nuovo film sembra destinato.

Tutto perfetto finché, malgrado le proiezioni al pubblico positive, la Dimension dei Weinstein non cancella l’uscita del nuovo Amityville a data da destinarsi. Ad inizio 2016 alcuni fan notano Bella Thorne di ritorno sul set del film per girare delle nuove scene supplementari, dopo che la Dimension aveva rassicurato i fan che si trattava solo di “nuove scene di effetti speciali” e non riusciva a quantificare il ritardo in sala perché la star Cameron Monaghan era impossibilitata a tornare a girare in quanto impegnato con la serie tv Shameless. Viene il dubbio che probabilmente le proiezioni al pubblico non erano state poi così positive.

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Reshoot con pantaloncini

Amityville è un film chiaramente diviso tra due mondi: uno è il girato originale che, ad occhio è la prima parte del parte del film, l’altro è il girato nuovo  che porta un finale probabilmente diverso  e un’appendice da happy end telefonato. Questo lo possiamo soltanto presupporre, almeno finché non sarà nota una workprint o un director’s cut del film, ma la sensazione, bruttissima, è la stessa che, anni fa, abbiamo percepito nel guardare il mostruoso cut vulgato al mondo di Captive di Roland Joffè dove una storia non banale veniva stravolta in una specie di Saw sadicissimo e ignorante. 

In questo nuovo taglio, Amityville il risveglio manda in vacca tutte le buone cose presenti nella prima parte, abbandonando i personaggi interessanti (Thomas Mann senza motivo logico non appare più) e creando situazioni ai limiti del demenziale narrativo (cosa ci fa la zia alle tre di notte? Perché la mamma colpisce Belle e poi va a dormire?). In più il finale è senza pathos, girato distrattamente, orchestrato male ed ingenuo con attori, come Jennifer Jason Leigh, che sembrano inseriti di forza dal precedente girato. Per non parlare delle divagazioni oniriche alla Nightmare on elm street che non hanno mai il necessario fascino che sulla carta dovevano probabilmente avere.

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La prima parte invece prometteva bene: Amityville il risveglio era un interessante metahorror sulla saga. La scena più riuscita è quella dove Belle, la protagonista si trova a guardare, all’interno della casa maledetta di Amityville, un horror, non uno qualsiasi, ma proprio Amityville horror di Stuart Rosenberg (non il remake perché a detta dei protagonisti “Fa schifo come tutti i rifacimenti”). Ecco che, come una sorta di figlio di Scream, Amityville il risveglio diventa non un seguito dei vari film della saga, ma si appropria di una sua verginità ambendo ad essere il primo film ispirato ai fatti luttuosi della casa maledetta e facendo tabula rasa delle fiction che l’hanno preceduto. 

Il personaggio di Thomas Mann acquista quindi lo stesso spessore e la stessa importanza di Randy nella tetralogia di Craven con il suo essere cinefilo e perciò portatore di un’onniscenza nerd necessaria per sopravvivere agli orrori filmici anche nel reale.

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Bella Thorne, il capolavoro del film

D’altronde è vero che la sceneggiatura di Casey La Scala e Daniel Farrand è stata abortita, ma qualcosa dev’essere comunque rimasto, anche a livello embrionale, soprattutto per l’approccio da film documentaristico con il quale si apre l’opera, un Tg che commenta la cattura di Ronald DeFeo Jr. dopo lo sterminio della famiglia nella casa di Amityville, sotto sembra l’influsso del maligno.

Il film purtroppo non è un capolavoro, ma soltanto un’opera mediocre che non beneficia neppure di una buona performance del suo cast, il più delle volte sciatto e monocorde. La peggiore è senza dubbio Jennifer Jason Leigh, incapace di dare spessore ad un personaggio sulla carta interessante, una madre in conflitto tra l’amore e l’odio per la figlia, rea di aver causato la paralisi permanente dell’altro figlio.

Solo che tutto in Amityville il risveglio viene buttato alle ortiche in una corsa suicida all’accumulo delle sottotrame compresa una inutile divagazione nel territorio del bullismo, presto abbandonata, come tutte le altre.

L’unica cosa che funziona è la sedicenne Bella Thorne, perennemente in mutandine anche nelle scene che non lo richiederebbero. Fa sorridere che il film sia prodotto anche dal famigerato Harvey Weinstein che in questi giorni infiamma le pagine dei giornali grazie ai suoi ricatti sessuali. Ci immaginiamo che il bavoso Harvey fosse presente sul set di Amityville imponendo le quasi nudità della nostra stupenda Lolita.  In questo caso però chi siamo noi per andargli contro?

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Un pò di zucchero, baby

Sembra che Amityville il risveglio però abbia subito nel nuovo reshoot anche un drastico taglio della violenza per evitare, vista già la sua natura di disastro commerciale, un divieto allontana teenagers.

E’ un peccato perché il film poteva essere sulla carta davvero interessante ma alla luce dei tagli e dei vari rimaneggiamenti è una delle incursioni nei territori di Amityville tra le meno entusiasmanti mai girate. Per esempio un brutto film come Amityville la fuga del diavolo di Sandor Stern del 1989 aveva comunque almeno quelle due o tre scene di spavento che qui mancano nella totalità.

In qualsiasi modo quest’Estate il film di Franck Khalfoun è uscito nei nostri cinema e in America è tutt’ora disponibile sul Google play per poi uscire nelle sale un unico giorno, il 28 Ottobre. Diciamo un po’ poco per quello che era “una nuova e terrificante storia che soddisferà gli appassionati”.

Andrea Lanza

 

NB Per saperne di più sulla saga di Amityville vi rimandiamo al blog dell’amico Lucius Etruscus, lo Zinefilo, che ha recensito tutti i film della serie con spirito masochistico lodabile.

Amityville: Il risveglio

Titolo originale: Amityville: The Awakening

Anno: 2017

Regia: Franck Khalfoun

Interpreti: Jennifer Jason Leigh, Cameron Monaghan, Bella Thorne, Mckenna Grace, Jennifer Morrison, Thomas Mann, Taylor Spreitler, Kurtwood Smith, Ava Knighten Santana, Hunter Goligoski, Dan Martino, Brian Breiter

Durata: 90 min.

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Il cannibale metropolitano (The Vagrant)

20 venerdì Ott 2017

Posted by andreaklanza in C, cannibali, comico, commedia, commedia horror, Recensioni di Andrea Lanza

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bill paxton, david cronenberg, il cannibale metropolitano, la mosca 2, mel brooks, recensione

Chissà cosa saltò in testa a Gillian Richardson, produttore de La mosca 2, nel pensare che The Vagrant, da noi Il Cannibale metropolitano, potesse essere un successo? Certo che, nel disastro di un film costato quasi 10 milioni di dollari e che ne portò a casa più o meno la metà, si imbarcarono pure Mel Brooks come produttore esecutivo, nel secondo e ultimo horror dove figura il suo nome, e Randy Auerbach, già tuttofare per David Lynch e appunto Brooks, come coproduttore.
Cerchiamo di togliere ogni dubbio: The Vagrant non è un brutto film, è solo un film sbagliato, indeciso sulla via da intraprendere e sempre percorso da questo black humor grottesco che, 9 volte su 10, sembra fuori luogo.

Mel Brooks

Saranno stati i tempi sbagliati o l’idea che, dal nome di Mel Brooks e Chris Walas, dopo i due La mosca, sarebbe germogliato un altro horror simile, violento e teso, cronenberghiano anche senza David Cronenberg come già il discontinuo The Fly 2, ma la delusione, all’uscita, fu piuttosto devastante.
Il modello al quale Richard Jefferies, lo sceneggiatore, si ispirava era senza dubbio alto: Polanski e il suo L’inquilino del terzo piano, e quindi Kafka, a cominciare dal nome del protagonista della pellicola, Graham Krakowski, polacco di origine. A Polanski/Kafka quindi si rifà tutto l’impianto a metà tra realtà e fantasia, tra le paranoie di un immigrato snaturalizzato nell’America degli yuppies e una paura per il diverso, in questo caso un barbone, che viene ingigantito nelle proporzioni sub umane di un mostro cannibale.

In questo The vagrant è un film politico perché affronta, non senza punte di genialità narrativa, la fallacia di un sistema capace di rendere vero il sogno americano di ogni cittadino, la carriera, la villetta a schiera, la fidanzata perfetta, per poi ributtarti giù, tra topi e immondizia, al primo cedimento. Politico perché mette al centro un divario soprattutto di classi, quella manageriale e quella dei poveri, degli homeless, ampliando ogni singolo tic del protagonista, ogni sua paranoia per creare un cattivo, lo sfortunato senzatetto, che probabilmente esiste solo nella testa del nostro Graham Krakowski. La paura di perdere tutto, di non essere all’altezza per le scadenze lavorative, di non meritarsi una fidanzata “all american girl” porta proprio a quello, essere tacciato di essere diverso e non omologato a quel sistema chioccia che ci sfama, ci culla e ci divora pezzo dopo pezzo. Graham Krakowski nel trovare il nemico in una paura innata diventa quella paura e arriva a perdere tutto, a vivere lui stesso come il barbone sanguinario del bidone affianco.

Peccato che Richard Jefferies non porti fino alla fine questi suoi intenti politici, questo suo creare l’horror urbano che vagheggiava eoni fa George A. Romero, e ha bisogno di una soluzione più terrena, meno nevrotica, dove si rimette in riga il classico schema di eroe buono/antagonista cattivo, anzi povero, brutto e cattivo. Non sono chiari alcuni passaggi di sceneggiatura, soprattutto quando verso il finale si parla di un’esperimento e si rivela l’identità del barbone, una vigliaccheria che cerca di salvare capre e cavoli, di far piacere un piatto agrodolce ad un pubblico di bovari mangiatori di bistecche.
The Vagrant poteva essere un film avanti col tempo, un flop che ci parla dal passato anche a noi italiani del 2017, soprattutto in questo periodo di negri mangiabambini, di extracomunitari stupratori perché i bianchi sono tutti buoni, cacca al diavolo fiori a Gesù, la lega ce l’ha duro, tutti a casa merde di colore. Un periodo dove gli idioti di Facebook hanno preso la parola e quindi tutti critici, tutti opinionisti, tutti con l’idea che a qualcuno freghi un cazzo di quello che pensiamo, ma, zio, sei soltanto l’evoluzione di una scimmia con l’aggravante che le scimmie non parlano e non ti giudicano dalla pelle, guardano solo “il mondo con occhio lineare come un animale che non sa cos’è il dolore”.

Certo Richard Jefferies non è di certo David Mamet, e la sua filmografia parla chiaro tra un terribile Oscure presenze a Cold Creek di Mike Figgins e una regia tra il mediocre e il pessimo, Living hell con la bellissima Erica Leerhsen. Non lo aiuta poi Chris Walas, ottimo effettista speciale, ma altalenante regista che, dopo quest’esperienza, tornò al sangue e al lattice. D’altronde La mosca 2 era già lì per dimostrare l’incapacità di Walas con la macchina da presa, un esordio sfortunato è vero perché figlio di un capolavoro girato da uno dei migliori registi in circolazione, ma fare di peggio era impossibile.
Qui si vede che è volenteroso ma la sua regia non è mai memorabile, è un compitino grazioso ma senza voli pindarici che avrebbe meritato la mano di David Cronenberg e della sua filosofia della carne. In quel caso il grottesco e lo splatter profuso avrebbero trovato un’armonia che qui purtroppo non ha vita.
Gli attori poi, tutti molti bravi, a partire da un giovane Bill Paxton ad un sempre ottimo Michael Ironside, tendono ad andare sempre in overacting per via di una direzione artistica che cerca in tutti i modi di puntare la carta del tragicomico generando imbarazzo e confusione nel povero spettatore, seduto al cinema a volersi vedere un horror sui cannibali.
In Italia The Vagrant uscì abbastanza rapidamente in vhs per la Fox e sparì presto, ma, per fortuna, il doppiaggio non era dei più pedestri.
Dispiace perchè poteva essere un buonissimo film, sicuramente originale, ma a causa di una regia acerba e di una sceneggiatura spaventata della direzione da prendere, è un quasi horror sbilanciato e senza ragione di essere.
Per fortuna però gli effetti speciali sono strafighi e la partitura di Christopher Young è davvero ottima, ma è poco per consigliarlo.

Andrea Lanza

Il cannibale metropolitano

Titolo originale: The vagrant

Anno: 1992

Regia: Chris Walas

Interpreti: Bill Paxton, Michael Ironside, Marshall Bell, Mitzi Kapture, Colleen Camp, Patrika Darbo, Marc McClure, Stuart Pankin, Teddy Wilson, Derek Mark Lochran, Mildred Brion, Brett Marston, Ken Love, Katherine Gosney, Steve Gates

Durata: 90 min.

La creatura del cimitero (recensione 2)

03 martedì Ott 2017

Posted by andreaklanza in animali assassini, B movie gagliardi, C, Recensioni di Andrea Lanza

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Brad Dourif, cinema, David Andrews, film, Graveyard Shift, horror, Kelly Wolf, la creatura del cimitero, Ralph Singleton, recensioni, stephen king, Stephen Macht

C’è stato un periodo non molto lontano in cui uscivano alla velocità della luce, al cinema mica solo in vhs, tantissimi film tratti da Stephen King, dove la parola d’ordine era quantità più che qualità. Si arrivavano a saccheggiare non solo i romanzi, ben prima che arrivasse l’apocalisse delle miniserie tv del Re, ma anche i racconti della mitica raccolta A volte ritornano. Il primo, vado a memoria, mi sembra che fosse l’efficace Grano rosso sangue del 1984 di Fritz Kiersch che generò tipo ottocento milioni di sequel tutti uguali e quasi tutti terribili, compreso un inutile remake. Prima ancora, ad essere sinceri, c’era una raccolta di cortometraggi, da noi uscita (male) solo in vhs, dal titolo 4 storie per non dormire con, tra l’altro, manco farlo apposta, una trasposizione poverissima di I figli del grano, lo stesso che ispirò appunto Grano rosso sangue. Beh comunque questo per dire che il nome di Stephen King era così importante, negli anni 80, da vendere qualsiasi cosa, basta ci fosse appiccicato in copertina il suo nome.

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Il racconto originale de “La creatura del cimitero”, 1974

A volte però ai vari registi riusciva bene l’operazione allunga brodo dei vari racconti come nel caso di A volte ritornano di Tom McLoughlin, di The mist di Frank Darabont o, perchè no, di Brivido dello stesso King, ma a volte, il più delle volte, uscivano cose che, se non brutte, non c’entravano nulla con King come Il Tagliaerbe di Brett Leonard (e il suo seguito nel cyberspazio) o The mangler di Tobe Hooper e le sue declinazioni future tra teen movie e torture porn. 

La creatura del cimitero è uno dei parti cinematografici peggio ricordati dai fan dello scrittore, tratto da un raccontino presente (ancora!) nella raccolta A volte ritornano, Secondo turno di notte.

Graveyard Shift quad poster

Inutile dire che del racconto ispiratore,  il regista Ralph S. Singleton ha mantenuto soltanto l’idea di fondo ovvero un gruppo di operai, chiamati per pulire le cantine di uno stabilimento tessile, alle prese con dei topi molto particolari, soprattutto un ratto gigante. Per arrivare a questo, all’incontro con il rattone assassino, purtroppo dobbiamo prima subire una lunga parte introduttiva che ci presenta i vari personaggi, nessuno davvero interessante. Certo anche la seconda parte non è proprio questa meraviglia, visto che l’idea kinghiana di una razza di topi mutata geneticamente, capace anche di volare, viene semplicizzata in un pipistrellaccio gigante dalla coda di panteganona, una cosa che non ci credi finché non la vedi. Però il ritmo è veloce, il sangue scorre copioso e ci si fanno tante risate, più di un film comico, soprattutto quando per uccidere il mostrone il nostro eroe gli lancia, con una fionda da Pierino, una Pepsi cola alla faccia della pubblicità occulta!

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Il film è invecchiato meglio di come si presentava all’epoca, sarà merito dei brutti film tratti da King che sono seguiti dopo, da I sonnambuli di Mick Garris a tutte le brutte serie tv con a capo il principino delle merde su piccolo schermo, i Tommyknockers – Le creature del buio di John Power. Fatto sta che La creatura del cimitero, anno 1990, a vederlo ora, 2017, è un bello spettacolo da drive in, onesto, dignitoso, ignorante e terribilmente divertente anche nei difetti. Degli attori se ne salvano due, il luciferino Stephen Macht nei panni del cattivissimo Warwick e il grande Brad Dourif (chi non ricorda Qualcuno volò sul nido del cuculo?) in quelli dello sterminatore di topi. Oddio ad essere buoni, verso il finale, anche il futuro Wishmaster Andrew Divoff abbandona una recitazione monocorde per cercare di dare un barlume di umanità al suo personaggio, ma è troppo tardi purtroppo. Il resto del cast è qualcosa di scandaloso, facce granitiche, brutte ragazze che fingono di essere strafighe, zero feeling tra di loro e soprattutto zero empatia col pubblico, un disastro totale che almeno il doppiaggio italiano stavolta salva parzialmente.

Graveyard_Shift

Non fighe

La parte del leone comunque è solo di Dourif, la voce di Chucky la bambola assassina, che entra in scena cinque minuti, sciorina uno di quei dialoghi che avrebbe fatto la sua porca figura in un film di Chuck Norris, a base di topi vietcong infilati a forza in ferite umane e serviti “Au nature… senza maionese”. Chapeau!  

Stephen Match invece non ha grandi dialoghi ma è cattivissimo, così cattivo che fa cose stupide da fumetto di serie Z, tipo licenziare a random l’amante solo per farla uccidere, mandare a morire il povero Dourif senza un perché e vestirsi da Rambo dei poveri nelle fogne ammazzando tutti pur di salvarsi la vita (senza peraltro riuscirci).

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Un ruolo sobrio

La creatura del cimitero però, come detto,  resta un horror divertente anche per queste stronzate, non è un bel film assolutamente ma è piacevole, un buon B movie come quelli che uscivano in vhs a flotte e che guardavi, 5000 lire a noleggio, con altri trecentomila titoli che ti forgiavano nel tuo percorso cinefilo peggio che una notte con i guardiani della notte di John Snow. 

Ralph S. Singleton che ha nel suo curriculum vitae una grandiosa carriera come secondo assistente alla regia di grandi film come Taxi driver, Il giustiziere della notte, Quinto potere, I tre giorni del condor, ha tentato, fallendo, di girare per conto proprio questo unico horror. Non esiste un momento in La creatura del cimitero che ricordi il buon cinema, non un guizzo, un movimento di camera, un banale tecnicismo che faccia alzare la testa del regista dalle fogne dei suoi topi per dire “Avete visto che sono bravo?”.

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Ratti vietcong senza maionese

La creatura del cimitero costò ben 10 milioni dell’epoca, fu prodotta e distribuita dalla Columbia, ma sembra un film molto più povero, scurissimo e con effetti speciali risibili. Il pipistrellone viene inquadrato per di più nei dettagli, con prevalenza per la testa gigante, ma rivela la sua natura raffazzona fin dalla sua prima apparizione.

E’ un film che non fa mai paura eppure, grazie alla sua ambientazione sudicia e fetida, ti lascia addosso lo schifo come se, anche tu spettatore, fossi in mezzo a quello scantinato insieme a cadaveri e topi.

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Usare una Pepsi come arma negli anni 80 non era pubblicità occulta

La sceneggiatura di John Esposito (Talos l’ombra del faraone) ha qualche finezza come chiamare lo stabilimento tessile (uno vero e abbandonato nel Maine) con  il nome di “Bachman” in omaggio allo pseudonimo usato da King per i suoi libri più pulp, Richard Bachman.

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Non ce la sentiamo di disprezzare questo film, anzi ne consigliamo la visione in una notte spensierata, magari proprio in una maratona di Halloween con birra, pizza e amici. In questa dimensione così ignorante è un film che può stupire, divertire e piacere, il cosiddetto guilty pleasure che si nasconde dai club dei cinefili ma che ha un posto fisso nel nostro cuoricino di eterni amanti dell’horror e “di ciò che in esso vi  è di inesplorabile”.

Andrea Lanza

NB Nel 2013 il nostro Davide Viganò ha recensito questo film, ma, dopo una visione notturna, ho sentito il bisogno di un nuovo articolo che rendesse giustizia ad un titolo così sgarruppato ma divertente . La recensione precedente, sempre validissima ma discordante da questa, la trovate qui

NB2 Nello scrivere questa recensione erano così tante le scene folli che ho voluto concentrarmi sulle marachelle di Brad Dourif e Stephen Match ma dai commenti di questo articolo il prode Lucius Etruscus, il menestrello del cinema dimenticato e dei libri gagliardi perduti, ci ricorda una scena a base di topi e Beach boy che meritava di essere raccontata in modo speciale. Ecco quindi in calce uno stralcio di una recensione datata 2009 del nostro Lucius:

“Nel complesso, la sceneggiatura risulta troppo slabbrata, con una esagerata quantità di tempi morti e di scene lunghe che non si trasformano mai in suspense. Si lascia troppo spazio a personaggi in realtà privi di storia mentre si soprassiede su una spiegazione soddisfacente dell’esistenza di un mostro in cantina. Ad onor del vero, però, va testimoniato come neanche King spieghi come in soli dodici anni possa nascere una nuova razza di ratti né quale legame possano mai avere con i pipistrelli, se non quello del luogo comune. Non mancano comunque scene di divertito humor nero, come quella dei topi che, per sfuggire ai violenti getti d’acqua della squadra di lavoranti, si lanciano su “scialuppe” formate da pezzi di legno e sembrano fare surf mentre scorrono le note di “Surfin’ Safari” dei Beach Boys. Il tutto però è annacquato dalle lungaggini di una sceneggiatura incerta, non supportata da una regia esperta.“.

La creatura del cimitero

Titolo originale: Stephen King’s Graveyard Shift

Anno: 1990

Regia: Ralph Singleton

Interpreti: David Andrews, Kelly Wolf, Stephen Macht, Brad Dourif

Durata: 90 min.

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Kung Fu Yoga

02 lunedì Ott 2017

Posted by Manuel Ash Leale in action comedy, Jackie Chan, K, Recensioni di Manuel Ash Leale

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Tag

india, Jackie Chan, kung fu, kung fu yoga, sodu soon

Ci siamo. Forse il momento tanto temuto è arrivato e io, ahimè, non sono preparato. Eppure, se ora guardo indietro, vedo chiari e visibili i segni dell’apocalisse. Probabilmente non ho voluto vederli, ho finto che fosse solo un brutto periodo fatto di scelte sbagliate e compromessi necessari, ma la verità, in quest’ora tragica, ha strappato con violenza il velo della cecità lasciandomi nudo e impaurito. E così giro per le strade spaesato, come non riconoscessi più la mia città, i miei vicini, i miei affetti. La fine di tutto ti mette davanti alla realtà brutale dell’esistenza senza mai indorare, senza pietà, senza riguardi. Insomma, questa è l’ora di guardarsi allo specchio, di trovare la forza, di superare la sfida e di porsi una sola, essenziale, domanda: che cazzo è Kung Fu Yoga?!

Ogni scusa è buona, vecchia volpe…

Io amo Jackie Chan e posso buttare la mia professionalità nel cesso quando si parla di lui, ma farò uno sforzo e vedete di apprezzarlo perché è dannatamente faticoso. Che JC sia ormai il simbolo della propaganda cinese nel mondo è cosa chiara e appurata. Dragon Blade e Chinese Zodiac sono qui a dimostrarlo, se mai ce ne fosse bisogno e quello che la Repubblica Popolare Cinese ha demandato al buon Jackie è l’immagine perfetta, incorruttibile e illuminata di un Paese moderno e sotto dittatura. Risulta quindi difficile scindere il buonismo dei suoi ultimi film da quel, neanche troppo sottile, tentativo di rappresentare una rettitudine che poi tanto cinese non è. Kung Fu Yoga è l’ultimo esempio di tutto questo, un’avventura in salsa bollywoodiana dove Chan può essere mattatore, produttore, protagonista, atleta, cantante, insomma dove può essere quello che ultimamente è sempre: tutto. A scrivere e dirigere questo spot della Pro Loco India è il veterano Stanley Tong, regista di film decisamente più dignitosi come Police Story 3: Supercop e Terremoto nel Bronx, ma anche lui sembra completamente fuori dai giochi. Sicuramente gestire Chan non è impresa facile, questo bisogna concederglielo. E allora via alla giostra colorata che vede Jack (interpretato da Jackie. Avete colto il frizzante scazzo pure nello scegliere il nome?), famoso archeologo, alle prese con un grande tesoro indiano. Sulle tracce dello stesso, tuttavia, c’è anche un nobile riccone locale, intenzionato ad averlo a tutti i costi. Novello Indiana Jones, JC mostra quanta bassezza ci sia nella cupidigia e quanto amore ci sia invece nella condivisione, nella giustizia, nel restituire al popolo le…va beh, tralasciamo il pippone buonista, Kung Fu Yoga è così svogliato da lasciare interdetti.

In qualunque modo lo si guardi questo film sembra la parodia di sé stesso, un tentativo di divertire senza nulla che faccia ridere. E no, se ve lo steste chiedendo un inseguimento con un leone seduto sui sedili posteriori dell’auto non è per nulla divertente. Cosa avesse in mente Tong durante la stesura, se c’è stata, della sceneggiatura è materia per Roberto Giacobbo e voyager: tra personaggi senza caratterizzazione, dialoghi imbarazzanti, CG orrida e, crimine contro l’umanità, stunt ridotti a scaramucce rifinite al computer c’è da scoppiare in lacrime isteriche. La chiusura con tanto di classico balletto in stile Bollywood mette il sigillo a un’operazione inutile e insignificante. Ma perlomeno qui ballano tutti bene. Kung Fu Yoga è il canto del cigno di Jackie Chan? No, tutt’altro, è un ulteriore mossa commerciale per esportare la bella Cina nel mondo. Da questo punto di vista, quindi, c’è ancora speranza.

Manuel Ash Leale

Titolo originale: Kung Fu Yoga

Anno: 2017

Regia: Stanley Tong

Interpreti: Jackie Chan, Sonu Sood, Disha Patani, Aarif Rahman, Miya Muqi, Amyra Dastur, Yixing Zhang

Durata:  1h 47min

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