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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

Malastrana VHS

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It vs It

27 mercoledì Set 2017

Posted by andreaklanza in anteprima, demoni, I, Recensioni di Andrea Lanza, serie tv

≈ 9 commenti

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andy muschietti, Bill Skarsgård, craig r. baxley, it, john ritter, mick garris, stephen king, tim curry, tommy lee wallace

It il film, la prima parte almeno, è uscito in (quasi) tutto il mondo, Italia esclusa ovviamente. Per quello bisogna aspettare il 19 Ottobre quando ormai noi saremmo la barzelletta del pianeta.

Io, nella scelta se vedermelo a casa in un discreto cam o farmi 4 ore di auto per gustarmelo in un cinema all’Estero, ho scelto, come il Franklin di GTA V, la decisione meno assennata. Ieri, con la potenza di un audio potentissimo, uno schermo gigante e ben 4 ore sul groppone per arrivare alla (quasi) vicina Ginevra, ho visto It. Certo in inglese sottotitolato in francese, e sia il mio inglese che il mio francese fanno schifo, ma n’è valsa la pena.

Alla fine quindi com’era It di Muschietti?

Una bomba.

Avevo però deciso di non parlarne qui perché volevo dedicare più spazio ad una lista di film introvabili su vhs che aspettano solo di essere recensiti e che, anche stavolta, aspetteranno.

La molla che genera questa non recensione è il solito dibattito che infiamma i vari forum di cinema, se ne esistono ancora, o i tanti gruppi facebook dedicati all’horror: è meglio It la miniserie o It il film? Un tema che sta superando per complessità gli eterni quesiti “E’ nato prima l’uovo o la gallina?”, “Mi piace più il culo o le tette?”, “Perchè non esiste più il risolatte al cioccolato?”.

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Quindi ho deciso di richiamarli qui i due It, il Pennywise di Tim Curry, criogenizzato al 1990, e il Pennywise di Bill Skarsgård, allenati rispettivamente da Tommy Lee Wallace e Andy Muschietti, in quello che si prospetta uno scontro di boxe epocale, al pari di quello tra Tyson e Holyfield. 

Voi su chi puntereste?

Ho rivisto da pochissimo la miniserie It e devo dire che me la ricordavo molto peggio di quella che effettivamente è. Posso affermare con certezza che è senza dubbio uno dei migliori prodotti tratti da Stephen King per la tv (con Le notti di Salem di Tobe Hooper). Questo però non rende It un ottimo prodotto né tantomeno la cosa migliore diretta da Tommy Lee Wallace che il più delle volte qui sembra svogliatissimo. E’ comunque una miniserie più che discreta che sarebbe potuta essere ottima, forse però i tempi non erano ancora maturi. It 1990 non manca di grandi scene che si intervallano però a momenti di stanca atroce.

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C’è da dire che Tommy Lee Wallace veniva da due film di un certo culto, lo sfortunato Ammazzavampiri 2 e il grandioso Halloween 3, e aveva ancora un certo estro nel girare prima che Flipper o il terribile Vampires 2 lo rendessero uno shooter qualunque. I prodotti tratti da King, soprattutto quelli televisivi, tendono a depersonalizzare anche i migliori talenti, ne sa qualcosa un regista ottimo come il Tom Holland di Fright night e La bambola assassina reso un inetto incapace dai Langolieri o l’esuberante Craig R: Baxley di Action Jackson e Arma non convenzionale trasformato in un pedante Piero Angela dell’Apocalisse da La tempesta del secolo. Per questo Mick Garris è uno che riesce bene anche nei disastri kinghiani perché ha già di suo uno stile di regia piatto e poche velleità autoriali.

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In It invece si percepiscono le ambizioni, la voglia del giovane Lee Wallace di portare in tv il cinema: ci sono le carrellate, i movimenti di macchina, il timido splatter, gli spaventi improvvisi prima di capire che cazzo fossero i jumpscare. Tutto questo cozza e si sfracella dietro una sceneggiatura che deve condensare 1000 e passa pagine in neanche tre ore e dieci, che sacrifica i momenti più alti del libro per dei compromessi, che non riesce ad essere eccitante in tutta la sua durata, ma crolla, si disgrega e poi cerca ancora di appassionare quando il pubblico si è già addormentato. In It funzionano alla grande i rapporti tra i bambini, la prima parte meglio della seconda che risulta più ripetitiva e meno interessante, i momenti puramente horror con tocchi di gustosa cinefila come l’arrivo della mummia o del lupo mannaro nella trasfigurazione del cult anni 50 I Was a teenage werewolf. Non funziona invece la scelta del cast in quasi tutta la sua totalità con attori che sembrano spauriti, fuori parte per l’età o in overacting più atroce come John Ritter. Sicuramente la scelta dei giovani perdenti è migliore della controparte adulta, ma in generale, a livello recitativo, siamo sul mediocre andante. Si salva l’efficace Brandon Crane nei panni di Ben bambino/Cannone e naturalmente il Pennywise di Tim Curry. 

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Eccolo qui il fulcro del nostro articolo: Tim Curry e il clown danzante. Diciamolo subito che si sta parlando di una leggenda dell’immaginario collettivo, al pari del Freddy Krueger di Robert Englund. Toccarlo è come toccare la mamma, provare a rimpiazzare un’icona di tale spessore è un atto di guerra che trasforma ogni buon patriota del cinema in Trump contro la Corea del Nord.

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Tim Curry nel 1990 aveva alle spalle già almeno due ruoli di un certo peso nella storia del cinema, il transessuale Frank-N-Furter di The Rocky horror picture show, e il diavolaccio dello sfortunato ma bellissimo Legend di Ridley Scott. La sua interpretazione in It è sicuro di maniera, ma alla fine lo era pure quella comunque grandiosa di Jack Nicholson in Batman. Questo non toglie che, per chiunque abbia visto soltanto la miniserie di Wallace, lui è It, il male, l’inizio di tante sedute dallo psicologo per curare la coulrofobia. Certo Tim Curry non è l’It del libro di King, ma è comunque l’It che ci verrà tramandato nei secoli dei secoli con buona pace di Bill Skarsgård.

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Per il trucco di Pennywise, l’effettista Bart Mixon (Nightmare 2, Robocop, Ammazzavampiri 2) si ispirò a Lon Chaney nel classico Il fantasma dell’Opera in versione però “clownesca”. Il trucco sul viso di Tim Curry era così esagerato che l’attore stesso doveva sembrare “un cartone animato vivente“. Furono usati soltanto effetti speciali vecchia scuola, a parte alcune scene che richiedevano una tecnica molto simile allo stop motion. It all’epoca costò la cifra non indifferente di 12 milioni di dollari, fu un grande successo televisivo e vinse anche un Emmy per la colonna sonora di Richard Bellis.

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King all’epoca gradì questa serie tv definendola “molto buona, un adattamento veramente ambizioso di un libro davvero lungo “. Certo, come già detto, King non pecca di grandissimo spirito critico nel giudicare gli adattamenti dei suoi libri, ma stavolta perché non appoggiare il suo giudizio?

Sia dato atto che la miniserie era stata concepita per durare sulle otto ore, ma alla fine si optò per ridurre drasticamente la durata. All’inizio della partita poi doveva esserci come regista George A. Romero, ma per problemi con la produzione rinunciò all’incarico, proprio perché la serie era stata condensata in meno ore (all’epoca tre puntate, poi diventate due). Non che alla ABC non piacesse It, ma non si fidavano a finanziare così tante puntate per quello che alla fin dei conti era un horror, quindi un genere basso. Lo sceneggiatore Lawrence D. Cohen, lo stesso di Carrie, parlando di It dichiarò che “era una via di mezzo, tante cose si erano perse nell’adattamento di tre ore come la perdita della verginità dei perdenti con Bev, ma altre molto buone erano rimaste come la sequenza dei biscotti della fortuna“. Per lui It era come una guerra e come ogni guerra aveva vittime da lasciare sul campo di battaglia.

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Passiamo però all’It di Muschietti che, come specificato ad inizio articolo, è un gran bel film, a livello spettacolare sicuramente dieci spanne sopra il precedente adattamento.

E’ bene dire però che cambiano i mezzi, lì la tv degli anni 90, che era ben lontana dagli standard di adesso, e qui invece il cinema.

L’It 2017 dura ben 2 ore e 15, ma è un luna park velocissimo di immagini, sensazioni e spaventi, tanti e ben dosati, anche per chi è smaliziato.

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Muschietti fa un passo gigantesco dal suo precedente lavoro, La madre, e finalmente dimostra il suo talento in una storia ben scritta che non è soltanto terreno sterile per un esercizio di stile alla Wan o alla Balaguero. Certo le influenze di film come Dead silence o Insidious sono ben visibili, soprattutto quando entra in scena una donna spaventosa da un quadro, ma in linea massima il film ha una propria originalità soprattutto in una messa in scena impeccabile e in una capacità di inorridire e spaventare che non aveva il precedente modello. 

Gli attori sono tutti in parte, stavolta, anche se la pellicola si ferma alla parte del passato senza mai mostrare il futuro, ventisette anni dopo, dei perdenti, come invece la pellicola di Wallace. L’azione è spostata a fine anni 80 e l’effetto Stranger things è evidente anche nella scelta di usare il Finn Wolfhard del telefilm Netflix. La città di Derry, rispetto al vecchio prodotto, è comunque più viva e credibile e non si limita a due strade addobbate in stile vintage.

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Tra gli attori la più convincente è senza dubbio la quindicenne Sophia Lillis in un ruolo non semplice, quello della ragazzina abusata dal padre. Anche in questo caso i temi sono più accentuati laddove precedentemente la miniserie alleggeriva le violenze sessuali o gli atti di bullismo spinti alla tortura.

Le trasformazioni di It sono sicuramente meno cinefile ma più terrorizzanti sia quando la creatura diventa un lebbroso che quando strappa un braccio ad un bambino sotto la pioggia. La trasformazione in ragno che tanto fece arrabbiare gli spettatori dell’epoca non si vede ancora, ma, se il film seguirà l’opera letteraria, l’andamento sarà quello. Niente di grave certo anche perché il grosso ragno nella miniserie di Wallace falliva soprattutto per via di effetti speciali non proprio di primo livello. 

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Bill Skarsgård, giovanissimo e non proprio un attore di grido, è però una sorpresa inaspettata, piacevole e un ottimo Pennywise ben diverso dal precedente di Tim Curry. La scuola sembra essere quella del Jared Leto di Suicide squad o ancor prima dell’Heath Ledger de Il cavaliere oscuro, uno studio alle radici, quindi il libro di King, senza imitare il modello famoso precedente. Il suo It è più fisico, meno grottesco, con comportamenti che ricordano quelli di un bambino, uno spaventoso clown dagli sbalzi di umore improvvisi e inaspettati. L’attore ha fatto un lavoro ottimo e purtroppo le critiche negative che potrebbe ricevere saranno giustificate soltanto dalla cieca ottusità dei fan hypster del cinema horror.

In pochi giorni di uscita, It di Muschietti è già un successo si  sta lavorando già al seguito che speriamo mantenga le premesse di questa prima parte e fissato per il Settembre 2019.

Intanto mentre noi parliamo i due clown si sono seduti sugli sgabelli in attesa del gong. Sono sicuro sarà uno scontro equo tra pagliacci del male, sicuramente Tim Curry si tramuterà in ragno mentre Bill Skarsgård proverà a morderlo e i suoi denti, si sa, sono affilatissimi.

Se dovessi scommettere forse punterei sul nuovo arrivato, ma, come l’Apollo di Rocky, credo che il Pennywise anni 90 aveva e ha ancora delle carte da giocare.

Mi siedo comodo e aspetto. Inizia lo scontro. It vs It. Voi avete scommesso, vero?

Andrea Lanza

 

 

 

The omen (Il pilot del 1995)

02 martedì Ago 2016

Posted by andreaklanza in anteprima, demoni, O, Recensioni di Andrea Lanza, serie tv

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andrea lanza, cinema, pilot, recensione, seguiti folli, the omen

Il Presagio di Richard Donner è uno di quei film che hanno reso importante mio cammino cinefilo. Amore al primo fotogramma. senza dubbio.
Se devo dirla tutta, nel mio immaginario, Il Presagio batte L’Esorcista come film sul Maligno, pur adorando il film di Friedkin/Blatty. Sarà la storia del bambino puro con il DNA di Belzebù, una cosa che, nella testa di un ragazzino, può risultare come “Ehi potrei essere anche io il figlio di Satana!”. Perchè, diciamolo, essere la puttana di Satana fa cagare, vedi Reagan che vomita bile verde, ma essere il figlio di Satana è un po’ come essere Superman, solo un po’ più cattivo.

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Solo un po’ più cattivo

I seguiti de Il Presagio oscillavano tra il mediocre (il secondo) e il pessimo (il terzo), ma erano comunque vedibili in quegli anni in cui anche I ragazzi del cimitero ti sembrava bello, soprattutto perchè, anche nel disastro, il personaggio di Damien Thorn, che fosse un cadetto o il Presidente degli Stati Uniti D’America, era sempre figo. Insalvabile invece il remake di John Moore, uno che aveva appena alzato la patta dei pantaloni dopo avere stuprato un bel gioco come Max Payne, e si apprestava a farsi un giro anche con il figlio del diavolo. Il remake de Il Presagio era come una di quelle lattine che trovi al supermercato di mojito analcolico, lo bevi, magari gli ingredienti sono gli stessi che userebbe un barista, ma cazzo fa più schifo del tuo alito il mattino dopo la pasta aglio, olio e peperoncino. E non solo perchè manca l’alcol, qui si parla di anima, una cosa più complessa.

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A John Moore non piace la fregna

Lo sceneggiatore David Seltzer ci aveva anche provato, nel 2005, a portare su piccolo schermo una storia di Demoni e presagi, ma la tv allora forse non era avanti come ora, e la miniserie Rivelations di sei episodi, con Bill Pullman mattatore, si era persa nella noia.
Ultimamente poi è stata creata una nuova serie tv su Damien Thorn che funge da seguito del primo film di Donner così da fare tabula rasa del secondo, terzo e pure quarto film con una pestifera bambina anticristo. Sulla miniserie (sempre 6 episodi) su Damien mi astengo dal giudizio, in attesa di vederla, ma mi dicono, speriamo, che sia molto bella e vicino, come spirito, all’originale di Donner.

 

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In questa serie io non ci sono

Eppure non è la prima volta che qualcuno prova a trasporre su piccolo schermo Il presagio. Ci avevano già provato, nel 1995, in un pilot morto senza mai vedere la luce di una serie tv.

Tutti i cultori di cinema, soprattutto chi adora Tarantino, sanno cos’è un pilot. In Pulp fiction, Uma Thurman parla di Volpe forza cinque, una serie strafiga a base di donne a karate che purtroppo non si è sviluppata oltre la punta pilot. Il pilot, in parole povere, è quella puntata prova, la prima, che si gira per vendere il prodotto alle reti. Se piace si da’ il via alla serie completa, se non piace resta solo quella puntata. Di solito le reti approvano anche la merda, ma non sempre. Esempi di pilot mai diventate serie tv ce ne sono a bizzeffe come quello di Zombieland o di Fargo fatto nel 2003, o ancora l’idea di fare una Justice League senza Superman e Batman. Tutte teste mozzate, idee non capite, a volte assurde, a volte troppo avanti coi tempi, tra questi, gli esclusi, c’era anche The omen.

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Cinque sfigati, la Justice league

Nel 1995 la serie più cool in voga era senza dubbio X-files, quindi allo sceneggiatore John Leekley gli dovette sembrare strafiga l’idea di fare un simil X-files da The Omen. Leekey poi dev’essere un anarchico perchè non era la prima volta che cercava di resuscitare un brand morto con dubbie scelte narrative. Suo Knight Rider 2010 che passò alla storia per essere un brutto Supercar, ambientato nel futuro prossimo, che si fregiava di non avere nel cast il Michael Knight di David Hasselhoff. Anche in questo caso The Omen non aveva Damien e con Il presagio c’entrava come il pecorino sugli spaghetti allo scoglio.

Quindi se voi avete dei soldi da buttare e volete, che so, fare una nuova miniserie su Hulk, chiamate chiunque, il vostro barbiere, il vostro giardiniere, ma non usate John Leekley come sceneggiatore perchè inforcherebbe i suoi occhiali da divo di Hollywood e vi direbbe sornione: “Ehi man, ma se la serie la facessimo senza Hulk?”.

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Un film su Damien senza Damien. Geniale.

Così succede in The Omen, con tanto di benedizione come produttore esecutivo di sua maestà Richard Donner: di Damien non si parla e il plot è una variante soprannaturale di X- files.

A girare il prodotto un sempre bistrattato Jack Sholder, uno anche bravo, ma che, oltre a L’Alieno, viene sempre rcordato per essere il regista del Nightmare più odiato, il 2, che comunque a noi di Malastrana vhs piace molto. Nel 1995 la sua stella non brilava molto, tra serie tv fallimentari e prodotti mediocri, e presto avrebbe visto l’apogeo di miserabilità con Wishmaster 2 e la regia salvatutto di Supernova di Walter Hill, fino ad abbandonare la carriera cinenatografica nel 2004, come un vecchio cowboy stanco.

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Il presagio della fine di Jack Sholder a pochi minuti dall’inizio del pilot

In The Omen, Sholder è comunque scatenato, forse credeva nel progetto o forse gli gustava di girare una serie tv che pescasse a pieni mani dal suo L’alieno con il demonio che passava di bocca in bocca come una sorta di virus. Quindi le inquadrature di The Omen, quasi tutte le scene d’azione, la parte tecnica, in parole povere, è eccellente. Siamo senza dubbio in un prodotto sopra la media, al quale possiamo perdonare alcune ingenuità come la sequenza d’inseguimento durante la parata di San Patrizio con le comparse visibilmente non a loro agio e una bambina che assiste ad un accoltellamento e poi bellamente riprende a sorridere.

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Ehi, bambina, lo vuoi il virus nello zuchero filato?

Il cast è molto buono con il tris di protagonisti, Chelsea Field (la bellissima moglie di Bruce Willis in L’ultimo Boyscout), Brett Cullen (Lost e Person of interest) e Will Sandler (Die Hard 2), perfetti e molto capaci. Oltretutto tutti e tre questi attori vivranno post The Omen una brillante carriera, magari non da star, ma di fiorenti comparse tv, a volte protagonisti di solidi B movie, in quella hall of fame fatta dalle facce che riconosci senza ricordarti il nome o il ruolo. Nelle seconde file poi troviamo la fighissima Julie Carmen, la Regina di Ammazzavampiri 2, nel breve ruolo della sorella della Field, Rita.

Cosa non funziona in The Omen allora?

In primis la storia che vede tre persone eterogenee, un medico, un’infermiera e un reporter, unirsi per fronteggiare la minaccia del Maligno che passa, come detto, da un corpo ad un altro, e cerca di portare il mondo all’Apocalisse. In questa puntata il Satanasso, tra voci gutturali e pessima computer grafica ante litteram, cercherà di rubare un virus mortale, non riuscendoci ma giurando vendetta ai tre malcapitati.

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Momento originale dove Chelsea Field parla come la Reagan de L’esorcista

La sceneggiatura poi vive momenti di incredibile imbecillità dove ci vogliono fare credere che, per studiare un virus letalissimo, gli scienziati più all’avanguardia dell’esercito usino lo scantinato di un ospedale, sorvegliato da tipo tre soldati addormentati. Il problema però sta all’apice del problema, quello che avrebbe dovuto fare alzare dalla sedia Richard Donner e dire “Cazzo Jack, cazzo John, ma che stiamo facendo? Chiamare The Omen, l’X- files del Maligno non è propriamente un’idea geniale”. Eppure Richard sta zitto perchè era nell’aria, già dal suo primo film su Damien, che i seguiti sarebbero dovuti essere una cosa scollegata. Sta zitto perchè tanto pensa “Cazzo me ne frega, tanto il produttore esecutivo vale come il due di picche ad Hollywood”.

E così The Omen giustamente muore. Viene trasmesso l’8 Settembre 1995 in tv e lì dimenticato.

Alla fine nei suoi 45 minuti di durata non annoia mai, ma è davvero fatto per fare incazzare i fan, una cosa così vicina al suicidio che fa quasi commuovere nella sua ingenuità e nella speranza impossibile di essere un cult. Non è successo ad una fighissima serie su donne e karate, come poteva succedere a Il presagio senza Damien? Siamo seri, John Leekley, dai.

Andrea Lanza

Il pilot in inglese:

The omen

Regia: Jack Sholder     

Sceneggiatura: John Leekley

Interpreti: Brett Cullen , Chelsea Field, William Sadler , Norman Lloyd , Julie Carmen, Steven Williams

Musica: J. Peter Robinson    

Durata: 46 min.

L’invasione zombie secondo l’Asylum: Z nation

01 domenica Feb 2015

Posted by andreaklanza in anteprima, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, splatteroni, Van Damme, zombi

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andrea lanza, asylum, john hyams, peter hyams, scifi, serial, walking dead, z nation

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Diciamocelo chiaramente: l’Asylum non è che ha mai sfornato chissà quali capolavori. Stiamo parlando d’altronde di una casa cinematografica famosa per i figli mongoloidi dei blockbuster. Una cosa che può piacere a Fin il benzinaio del Texas che sputa cicche di sigaretta, ride sparando ai cartelli stradali e sogna le tette di Mary Lou Parker mentre si inchiappetta il suo chihuahua. L’Asylum piace ai senza Dio, alle meretrici di Babilonia, a Cicchetto e Tiramolla, ai due fan di Gordon Link, a quelli che cazzo il Corvo 2 l’ha girato il regista dei Cure, ma non a chi ama un cinema con almeno uno stile che faccia la differenza. Certo perchè mai uno dovrebbe sbavare per l’uscita di Atlantic Rim, con un’ora di chiacchiere e poco altro, quando può vedersi comodo comodo un Pacific Rim pieno di mazzate, di mostri ben fatti e stronzatone da fumettaccio stracazzuto alla Ishirō Honda? Per nessun motivo perché Transmorpher non vale Transformer, pure nella sua totale imbecillità, perché I am Omega non è I am a legend anche se il titolo è simile, perché lo Sherlock Holmes dell’Asylum è divertente i primi dieci minuti, ma non è cinema nè mai lo sarà, è la scoreggia di un mediocre che copia i grandi, qualunque essi siano. D’altronde ci sarà un motivo perché al Louvre non spicca una bellissima copia della Monna Lisa con lo sfondo di un cielo azzurrissimo ma quella di Leonardo? E non scomodiamo i nostri Bruno Mattei, Aristide Massaccesi o Claudio Fragasso perché è vero che la loro filmografia è piena zeppa di imitazioni basse, da John Milius a James Cameron da John McTiernan a George A. Romero, ma un conto è copiare senza estro, un conto è rielaborare la materia in una forma inaspettata, anche nel plagio, seguendo la regola del lepre fulciano che fa capolino quando pensi di avere visto tutto. Eppure un segnale di cambiamento si è percepito anche in territorio Asylum: Sharknado, Zombie night di Joel Gullagher e Hansel & Gretel sono stati il primo passo per raggiungere la decenza cinematografica in una selva di orrori brutti da fare spavento. Sempre filmacci si intende, ma nella media di un prodotto di cassetta, una cosa che sembra una manna dal cielo visto i precedenti. Certo i Bikini Spring breakers alla faccia di Harmony Korine vengono (e saranno sempre) sfornati, ma le rivoluzioni si cominciano sempre con un piccolo, flebile movimento.

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Z nation è la risposta Asylum a Walking dead di Robert Kirkman, il serial zombie più visto di sempre, e come risposta/fotocopia ne ricalca lo schema on the road e gran parte dei personaggi. Solo che stavolta accade l’imprevisto, il guizzo da guappo, quello che doveva essere un disastro diventa un piccolo miracolo. Sia chiaro: Z nation non vale neppure l’unghia di Walking dead, ma a suo modo è comunque un capolavoro, un prodotto così ferocemente oltre gli schemi da trasformare la cretineria in genio. In 13 episodi si assiste a talmente tante cose, situazioni, idee che diventa difficile soffermarsi sulla stronzata, che comunque esiste, ma ci si lascia coccolare dalla sostanza, da quello che Z nation alla fine è, fantasia al potere, anarchica, molesta fantasia. Ecco stavamo parlando di rivoluzione e Z nation è la cosa che si avvicina più ad essa, dove la dignità di essere un prodotto fruibile al grande pubblico diventa realtà. Ecco che nasce inaspettato lo stimolo per l’iperbole, l’esagerazione, con quel gusto molto pulp dello scazzo rielaborato che manca ai prodotti deviati e derivati. Ecco se Walking dead è un ristorante stellato, Z nation è la trattoria di Trastevere dove il vino scorre sempre e comunque e sai che alla fine ti alzerai sazio, cambiano i modi ma la sostanza è la stessa, la soddisfazione. E’ alla fine un problema di scelta, di essere schizzinosi, di eiaculare o sborrare, di romanticismo o sesso selvaggio: volete zombi li avrete, volete una bella sceneggiatura siete sulla strada sbagliata, ma anche qui il tiro viene aggiustato dalla follia e dalle invenzioni inaspettate.

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Prendiamo per esempio il sesto episodio “Resurrection Z” dove nel finale muore un personaggio fino ad allora cardine, un po’ l’equivalente del Rick Granes di Walking dead. Impossibile, o per lo meno improbabile, che la Fox attui la stessa scelta nel suo serial zombesco salvo poi trovarsi davanti agli studi kamikazen di fan in delirio omicida. Eppure in Z nation quest’idea della precarietà del ruolo da protagonista diventa un’arma vincente, già attuata nel pilot dove l’antipaticissimo Harold Perrineau di Lost e Oz, uno dei due o tre volti noti al grande pubblico del serial, muore prima del finale. Ecco che la serie B o C o Z annienta le certezze del mainstream e non lascia addito alla prevedibilità che il nome di, che so, Brad Pitt in Z world ti rassicura, perché lo sanno pure i sassi, le star non muoiono nelle produzioni importanti. Certo poi esistono eccezioni come il Ben Affleck di Smocking Aces, ma sono appunto eccezioni.

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In Z nation gli attori sono brutti, cagnacci e non spiccano per simpatia, sono l’equivalente umano delle comparse zombi, un po’ meno truccati ma la linea recitativa è sempre di grugniti e di approccio fisico. Le ragazze che dovrebbero essere le fighe della produzione hanno le imperfezioni da video gonzo porno, con il culone da mangia hamburger, il corrispettivo della tua vicina di casa se scoppiasse davvero l’apocalisse ZOMBI. In questo il pubblico si trova trasportato in un contesto, almeno attoriale, da reality, annullando tutta l’artificiosità da fiction, con i corpi scolpiti dalla palestra e le frasi più belle e ad effetto. Qui vige invece la scorrettezza, i cannoni fumati in faccia agli zombi, i dialoghi che pronunceresti anche tu davanti ad un mangiacarne incazzato e quest’atmosfera incredibile da torture porn bulgaro. Sarà la fotografia smarmellata, saranno le ambientazioni da Sarajevo post atomica, ma ogni puntata di Z nation ti fa respirare una sensazione di morte e distruzione incredibile, di fame e miseria quasi da combact film, un po’ come succedeva per il nostro sfortunato e abominevole Zombi 3.

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Ma Z nation non è solo follia e scazzo, anche se alcune invenzioni come gli zombi radioattivi sono davvero oltre l’umana concezione, ma anche il tentativo di portare temi alti in una produzione bassa. Se bisogna fare uno sforzo biblico per non spegnere la tv fino a Home Sweet Zombie dove il classico plot Asylum di tornadi e squali diventa l’assurda variante zombi e tornadi, già a partire dall’episodio 6, Resurrection Z, il prevedibile diventa inaspettato e giù di sette suicide, di sparatorie western, di mandrie di zombi che si comportano come nel giochino per IPHONE Zombie tsunami, mangiando ogni cosa gli si pari davanti, in un cammino di devastazione dalle connotazioni surreali. Ecco Z nation dal sesto episodio è un crescendo di WOW e applausi, di popcorn sgranocchiati e rutti liberi, ti riporta più di una madeleine proustiana agli anni della tua infanzia quando anche Zombi horror di Andrea Bianchi era genio. Poi arrivano quei due episodi che ti lasciano spaziato, Zunami e Die Zombie Die… Again, dove il gruppo viene lasciato in disparte e ci si focalizza solo su tre personaggi. In questi due frammenti si parla del tempo, dei paradossi, dell’ineluttabilità del destino, la trama arriva a toccare corde di sensibilità inaspettata quando arriva a concentrarsi sull’umano più che sul superficiale. Certo la struttura è da episodio di Star Trek, soprattutto in Zunami, ma si denota un tentativo apprezzabile di non essere solo un prodotto fotocopia.

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E poi naturalmente c’è Murphy. Si perchè è vero che Walking dead è Rick, Daryl e Michonne, e non basta mettere ad una ragazza di colore una spada per rapire il cuore dei fan, ma Z nation ha Murphy che è uno dei personaggi più belli degli ultimi anni. Murphy è il paperino dei fumetti, il pusillanime che non vorremmo mai essere, ma è anche una vittima degli eventi. Si trova suo malgrado coinvolto nel ruolo di salvatore del genere umano, è stato morso dagli zombi ma grazie ad un vaccino non si è tramutato, quindi nel suo sangue ha la cura. Il serial lo segue mentre il suo carattere si evolve, mentre assistiamo ad una trasormazione anche fisica che gli fa mutare pelle, mentre si trova costretto a dover scegliere da che parte stare, i suoi amici improvvisati o i morti viventi che gli assomigliano sempre più. In Welcome to the Fu-Bar morsicherà un umano, in Zunami farà entrare uno zombi in uno stabile a divorare la moglie e la figlioletta, ma salverà più volte i suoi compagni da morte certa. Murphy non è un uomo, è una nuova specie, a metà tra la nostra e quella dei cadaveri, nè buono nè cattivo, solo incazzato come lo saremmo noi se qualcuno ci avesse fatto il regalo di un ruolo che non abbiamo richiesto. Jena Plinsken invocherebbe la fine del mondo: come dargli torto?

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La figura di Murphy, più che l‘Eugene di Walking dead, ricorda molto il Gary Fleck della trilogia letteraria sugli zombi di  David Wellington, anche lì come qui un personaggio che si trova suo malgrado ad essere protagonista di un’evoluzione/rivoluzione dell’epidemia zombi.

Altro punto di merito di Z nation è la presenza come regista (gli episodi migliori sono i suoi) di John Hyams, figlio del Peter di Atmosfera Zero e Timecop, e famoso per essere uno dei migliori autori di action testosteronici degli ultimi anni. Hyams è riuscito nell’impresa disperata di dare dignità alla serie degli Universal soldier, diventando il Re Mida del film d’azione del nuovo millennio. Iil suo tocco autoriale in Z nation lo si percepisce prepotentemente: quando gira lui ecco che la serie davvero acquista una dignità inaspettata.

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Mentre scriviamo la serie è stata confermata per la seconda stagione, ma in Italia resta purtroppo ancora inedita. Noi potremmo dirvi di aspettare che prima o poi la trasmetteranno anche da noi, ma che cazzo, esiste internet, siamo nel nuovo millennio, Z nation è strafiga, che aspettate a scaricarla? Z nation è lì per sorprendervi. A noi è successo.

Andrea Lanza

 

 

Noi, Zagor (la conferenza stampa)

03 giovedì Ott 2013

Posted by andreaklanza in anteprima

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bonelli, fumetti, gallieno ferri, moreno burattini, zagor

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In attesa dell’uscita del documentario su Zagor ecco per voi di Malastrana la conferenza stampa di ieri 2 Ottobre 2013. Non proprio tutta a dire il vero perchè ad un certo punto il mio cellulare ha cessato di esistere ma mancava pochissimo, m spero apprezzerete lo sforzo. Tutti comunque al cinema il 22 e 23 di questo mese. Ayaaaaaaaaaaaaaaak!

Pain and gain (Muscoli e denaro)

01 domenica Set 2013

Posted by andreaklanza in action, anteprima, azione, drammatici, P, Recensioni di Andrea Lanza

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culturisti, daniel lugo, mark whalberg, michael bay, muscoli e denaro, pain and gain, the rock

In Pain and gain i corpi non hanno gravità: sono come pesci in un acquario. Li vediamo volare, lottare contro il tempo e poi crudelmente essere lasciati ad agonizzare quando l’acqua viene loro tolta. Per molti dev’essere stato difficile digerire il nuovo lavoro di Michael Bay, il coattissimo regista di Transformers 1, 2 e 3, anche perchè si tratta (stavolta) di un film notevole. C’è un ritorno alle origini del suo cinema, uno spettacolo girato con un budget dignitoso ma non da capogiro, un omaggio agli anni 90 del suo Bad Boys (tanto da riciclarne all’interno alcune riprese aeree), un film pieno di battute, di stilismi preziosi, cinema imperfetto e preziosissimo.

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Pain and gain (suda e cresci ma da noi malamente risolto con Muscoli e denaro) è un pachiderma di 2 ore e passa, fatto passare nella copertina italiana per un poliziesco tanto da ritrarre Whalberg e The rock (ma senza il terzo membro della loro Scooby band) con occhiali a specchio da FBI. Peccato che Pain and gain non sia un poliziesco e neanche ci prova ad esserlo: è una storia vera sulla follia lucida di tre culturisti che decisero di arricchirsi nella Miami anni 90 grazie al rapimento di un miliardario. Il bello del film è che ogni cosa che vedi e che pensi “Si va beh è impossibile” è successa, questi tre ernegumeni hanno commesso così tanti errori nel loro cammino verso la pena di morte da far sembrare l’intera vicenda così parossisticamente grottesca, ci ridi sopra ma poi ti inquieta pensare che anche tu fai parte della stessa specie umana, che un Daniel Lugo potrebbe essere tuo figlio, il tuo migliore amico o persino te stesso.

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Girato con stile isterico e videoclippato, Pain and gain è uno strano film di chiacchiere, fatto più che di azioni di confessioni, di persone che sono alla disperata ricerca di Dio in un mondo dove Dio sembra essere stato sostituito da milioni di idoli blasfemi. Il protagonista afferma in più momenti di credere nel fitness, The rock con le sue magliette “Team Jesus” abbraccia una religione distorta di facili brand commerciali dove Dio può essere anche la giustizia di un cazzotto (“Gesù mi ha dato il potere di mettere a terra i nemici!”) e il terzo membro, il nero Anthony Mackie, è riuscito a raggiungere una massa grassa del 6 per cento al caro prezzo di perdere la virilità. Dio quindi come muscoli, ma anche come figa e desiderio di essere qualcuno. Perchè alla fine degli anni 80 della Wall Street fast food, nei crepuscolari 90, il sogno americano dovrebbe essere alla portata di tutti. Per dirla come il Johnny Wu interpretato dal Mister Chow di Una notte da leoni (Kendrick Kang Joh Jeong ) “Fissa un obiettivo, fai un piano e muovi quel culo” in un mondo che si divide semplicisticamente in perdenti o vincenti.

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Ecco quindi che il miliardario rozzo e arrogante Victor Kershaw (Tony Shalhoub) è la risposta perchè ha tradito i comandamenti di Dio guadagnando soldi senza meritarselo, senza quel sudore che fa crescere che da’ il titolo al film. Per dirla come Daniel Lugo/Mark Whalberg tutto questo è antipatriotico. Si potrebbe quindi leggere Pain and gain come una visione estremamente distorta dell’America dream, quello che negli anni 50 era rappresentato da coppie borghesi sorridenti e villette a schiera tutte uguali dai prati verdissimi: i tre, ma soprattutto Daniel Lugo, sono stati privati dalla vita di questa possibilità. Possono avere il fisico di un Dio, ma, anche in sella ad un tosaerba da pubblicità, non avranno mai quei soldi che l’estrazione sociale gli ha negato. Non per nulla ad un certo punto lo stesso Lugo ci racconterà una storia del suo passato, all’apparenza insignificante: “C’era un mio vicino di casa quand’ero bambino che cambiava una bicicletta tutte le settimane e i suoi lo portavano a Parigi per le vacanze. Non che volessi rubargli la bicicletta, ma sapevo che a Parigi non ci sarei mai andato se non mi fossi inventato qualcosa”.

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Quindi grazie al rapimento e all’omicidio (prima tentato poi raggiunto) i tre possono riappropriarsi di una seconda vita, quella che tutti gli americani dovrebbero per giustizia avere. Solo che sulla loro strada si mette in mezzo l’ex poliziotto Ed Du Bois interpretato dal bravo Ed Harris che prenderà a cuore il caso di Victor Kershaw, sodomizzato, picchiato, bruciato vivo, travolto da una jeep eppure ancora vivo. L’universo anni 90 descritto da Michael Bay è un luna park dai colori saturi dove le persone non parlano ma urlano, dove i corpi sono perfetti e sudati, dove a contare è l’apparenza e quindi l’apparire. Che i tre delinquenti siano lucidamente cretini non ci piove, ma a colpire è che, nel contesto descritto, non sembrano poi tanto alieni, un mondo fatto di nani da circo e bellissime immigrate che si credono spie, di rapimenti con vestiti da carnevale e cani che vanno in giro con dita mozzate in bocca, dove un uomo in fin di vita viene quasi arrestato solo perchè non caucasico. Pain and gain è il film di Michael Bay più intimista, quello che potrebbe mettere in pace anche i suoi detrattori, schizzato come uno degli ultimi film di Tony Scott ma con un rigore narrativo ineccepibile, girato con così tante idee da far pensare ad una seconda giovinezza del regista lontano dai giocattoloni tutti uguali ai quali ci ha abituato. Certo è forse troppo lungo, troppo pompato come i suoi protagonisti, ma questa volta i difetti che altrove troveremmo insopportabili acquistano un valore aggiuntivo. Difficile d’altronde non amare un film che alla fine, come dopo una corsa, si prende il tempo di respirare, neanche fosse un poliziesco anni 70, facendo sedere il suo pubblico con il detective Ed Du Bois e perdendosi nella meraviglia di un lago. “A volte tutto quello di cui abbiamo bisogno ce l’abbiamo davanti agli occhi”.

Andrea Lanza

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Sharknado

21 domenica Lug 2013

Posted by andreaklanza in action, anteprima, azione, film pericolosamente brutti, Recensioni di Manuel Ash Leale, S

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animali incazzati, asylum, film bizzarri, recensione, squali volanti

L’Asylum ama gli squali.

E l’Asylum produce film di scarsa qualità con idee di base degne figlie di un’overdose di peyote.

Unite questi due elementi e avrete Sharknado, l’ultima fatica dello Studio di produzione californiano, balzata alle cronache grazie alla bagarre mediatica che ne ha suggellato il curioso successo. Come consuetudine di casa Asylum, sarebbe il caso di dire.

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La famigerata creatura di Sherri Strain, David Rimawi e David Michael Latt, sforna in un anno anche undici film, tutti low budget e molti di essi sono mockbuster, cioè film a basso costo che cercano di cavalcare il successo di opere più famose emulandole o copiandone, spesso in maniera ridicola, i contenuti. In questo modo spuntano meraviglie come Almighty Thor, Monster, AVH:Alien vs Hunter e Atlantic Rim. Per farla breve, l’Asylum produce decine di film senza badare troppo a sceneggiatura, regia, colonna sonora, interpreti, fotografia ed effetti speciali. Insomma, senza badare troppo a niente. Non nascondiamoci dietro a un dito, lo so io come lo sapete voi.

Eppure, a modo loro, film come Sharknado diventano piccoli cult e Asylum ha molti fedeli seguaci, sebbene la cosa possa risultare incredibile. Potremmo spendere infinite parole per cercare di spiegare il motivo di un tale seguito, ma sarebbe decisamente inutile. Tutto si può descrivere con una terminologia che i cultori dei B-Movie conoscono benissimo:”so bad, it’s so good”. Un qualcosa di così brutto da diventare istantaneamente un cult, solo per il fatto che qualcuno l’ha pensato e creato.

E il trittico dell’orrore sopra citato ci sguazza allegramente come bambini a Natale. Perché quando sei libero di fare qualsiasi cosa, ma le idee che utilizzi sono nate direttamente da una serata alcolica, il risultato non può essere che questo:

un uragano si abbatte sulla California, trascinando con sé tutti gli squali che incontra sul suo cammino, spedendoli direttamente sulle teste dei malcapitati cittadini. Fin (Ian Ziering), surfista e gestore di un locale sulla spiaggia, fugge insieme alla cameriera Nova (Cassie Scerbo) e agli amici George (John Heard) e Baz (Jaason Simmons), per correre dalla ex moglie e dai figli. La situazione peggiorerà quando, dopo l’uragano, delle trombe d’acqua cariche di squali inizieranno a spostarsi sulla terraferma, lanciando i vari selachimorphi, in modo imprevedibile, ovunque.

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Una trama, un parto dell’immaginazione che difficilmente avremmo mai pensato possibile, ma che non avrebbe potuto avere altri creatori se non quelli dell’Asylum. Un’idea così malata da risultare geniale, perché sì, è folle, assurda, malandata, ma allo stesso tempo tremendamente geniale. Degli squali spinti sulla terraferma da un uragano e lanciati come proiettili da trombe d’acqua apparentemente inarrestabili. Vengono i brividi solo a pensarci, ma Sharknado è il film più chiacchierato di questi ultimi giorni e il motivo credo sia proprio l’assurdità della proposta. Quel tipo di assurdità che fa storcere il naso agli intellettuali della domenica, quei personaggi che seguono esclusivamente rassegne di Cinema cosiddetto “impegnato” e film d’essai, profondendosi in elucubrazioni inventate sul momento o lette chissà dove e utilizzate per darsi un tono d’esperto. Peccato poi che quando chiedi cosa ne pensano di un’opera di carattere sociale come Knock on any door, con Humphrey Bogart, ti guardino spaesati neanche fossero Rocky Balboa dopo un colpo di Ivan Drago. È vero, Sharknado è indubbiamente etichettabile in quel genere di trash che sfocia nell’insulto cinematografico, non è un film per tutti, è qualcosa di tanto delirante da lasciare basiti, ma in sostanza è puro divertimento. Certo, un divertimento da sanatorio, ma non si può vivere solo di pane e Pasolini.

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Così, il film diretto da Anthony Ferrante,autore di Boo, e scritto da Thunder Levine, uno degli sceneggiatori preferiti dallo Studio di Los Angeles, risulta un classico esempio di ciò che l’Asylum intende per cinema: buona la prima e sotto con la prossima pazzia. Questa volta però, e chissà se si sono accorti, hanno alzato la media della qualità, che da “inesistente” passa a “ehi, che significa questa parola che inizia con la q?”. Sharknado presenta una regia che si può definire accettabile, con particolare momenti di epica incredulità in cui Ferrante supera se stesso con buone inquadrature aeree. Ma se solo per un istante il buon Tony ha fatto credere al mondo che per la prima volta un prodotto Asylum fosse decente, ecco che a smentirlo arrivano puntuali gli interpreti, i dialoghi e gli effetti speciali. Perché alla fine sempre di Asylum si tratta. E allora via alla fiera dell’indecenza: come prima attrazione abbiamo gli scoppiettanti dialoghi, scritti gagliardamente da Levine, che a questo punto meriterebbe di finire in un girone dantesco a caso, perché certe battute sono da tentato omicidio; la seconda meraviglia include il cast, un atroce revival di stelle cadute o mai nate come Ian Ziering, dimenticabile protagonista dell’unico serial per cui viene ricordato, Beverly Hills 90210, Tara Reid, impegnata da anni a rovinarsi la reputazione, John Heard, caratterista famoso, collaborazioni con Scorsese e Redford, per intenderci il padre di Macaulay Culkin in Mamma ho perso l’aereo e sequel, che solo lui sa come ha fatto a finire così in disgrazia, Jaason Simmons, uno degli aitanti bagnini di Baywatch e per finire gente varia sconosciuta e per niente notevole. E, last but not least, la ciliegina sulla torta: gli effetti speciali. Per coloro che già conoscono i film targati Asylum ci sarà poca o nulla sorpresa nel sapere che sono sempre infimi e ridicoli, ma quelli che si avvicinano per la prima volta potrebbero non sapere a cosa vanno incontro. Ma credo basti essere chiari fin da subito: low budget non si sposa mai con ottima CGI. Fa più rima con “oddio cos’è quella cosa”. E questo è tutto quello che c’è da dire sull’argomento.

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Sharknado è quello che ti aspetti e allo stesso tempo l’incredibile apice della follia sconclusionata di Strain e soci, una cosa che a stento si riesce ad immaginare. Un film dal valore quasi nullo, da vedere esclusivamente se non si ha niente di meglio da fare, incluso stirare le mutande o altri lavoretti inutili, questo è indubbio. Ma sono pronto a scommettere che squali tagliati a metà con una motosega e bombe gettate nei tornado a bordo di un elicottero porteranno l’ennesimo schizzato figlio di Jaws nel regno dei cult movie da serata con gli amici.

Che poi questo sia un bene oppure un male, giudicate voi.

Manuel Ash Leale

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Regia: Anthony Ferrante

Cast: Ian Ziering, Tara Reid, John Heard, Jaason Simmons, Cassie Scerbo

USA 2013

Durata: 90 min.

Inedito

 

 

Bailout – Assault on Wall Street

12 mercoledì Giu 2013

Posted by andreaklanza in A, action, anteprima, azione, B, Recensioni di Napoleone Wilson

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assault on wall street, bailout, cinema, crisi, lavoro, recensione, recensioni, wall street

“Potere. Avidità. Giustizia.”

 Frase di lancio originale del film

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 Non capita tutti i giorni di vedere un film ben fatto come questo ultimo di Uwe Boll, il quale è anche così intenzionalmente e sapientemente catartico e liberatorio. Solo a Uwe Boll poteva infatti venire davvero l’idea di realizzare un riuscitissimo film action sulla crisi finanziaria. Boll ha d’altronde già realizzato alcuni film davvero buoni nel corso degli ultimi anni, e almeno uno assolutamente memorabile, “Rampage”, nel 2009. Pensare che era additato (a questo punto ottusamente) fino a poco tempo fa come uno dei peggiori registi del globo. Invece, almeno ogni tanto il nostro prolificissimo regista tedesco tira fuori dal suo cappello un coniglio cinematografico, che in qualche modo riesce a stupire davvero il suo pubblico, e non solo. L’ultimo suo recentissimo sforzo del 2013, appena distribuito limitatissimamente in alcune sale un mese fa negli States, “Assault on Wall Street” (aka Bailout: The Age o Greed, il titolo con il quale venne annunciato in realizzazione) è per Boll un film rientrante con “Rampage” nella categoria dei memorabili. Che ci crediate o no, potrebbe essere addirittura il miglior film che l’oramai maturo ragazzaccio Boll, abbia mai realizzato.

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Anche se il film tende a indossare sfacciatamente la sua esibita esaltazione, questo non toglie nulla al messaggio che Boll sta cercando di venderci sulla società attuale. Wall Street è un mondo malvagio, il quale letteralmente sgretola la vita e le esistenze della buona gente per tramite di menefreghisti avvoltoi in abiti di grisaglia, tagliati su misura e stirati giornalmente. Tuttavia, il regista e la sua squadra fanno un lavoro ammirevole per avvolgere tutti i possibili commenti intorno a tutto questo in una storia che è sorprendentemente riflessiva e inaspettatamente straziante. Potrebbe sembrare sulla carta un film di Lifetime, ma sullo schermo si sviluppa in modo molto diverso.

Dominic Purcell (attore anche lui molto sottovalutato e spesso sbertucciato) è il protagonista nella parte di Jim, un uomo che lavora come portavalori e sta lottando per sbarcare il lunario, mentre la moglie si sforza di riguadagnare la sua salute da un tumore al cervello che pare risolversi positivamente. La coppia è scioccata nell’apprendere quanto i trattamenti di Rosie vadano a costare un sacco di soldi, soprattutto dal momento che stanno prosciugando fino ai termini da la polizza assicurativa di Jim. La coppia decide di pagare tutto con la carta di credito, mentre Jim prende in esame i suoi investimenti. Purtroppo per la guardia di sicurezza, a quanto pare tutti i suoi soldi sono andati in fumo grazie ai subdoli truffatori e ai loro piani di riqualificazione che se ne fregano dei piccoli investitori, per invece salvare le compagnie e continuare a farsi i loro soldi a Wall Street. Come i problemi della coppia iniziano sempre più ad aumentare, è chiaro che Jim sta per raggiungere il suo punto di rottura.

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Uwe Boll fa davvero miracoli con questo suo copione di “Assault on Wall Street”. Con mia grande sorpresa, il film è toccante ed emozionale senza mai essere terribilmente manipolativo, come invece si sarebbe prestato ad essere date le troppe tragiche disgrazie che si abbattono sul protagonista. Certo, i tanti problemi che Jim affronta nel corso del quadro della storia sono monumentali, ma nessuno di loro potrà mai essere così inverosimile da essere del tutto incredibile. L’ex protagonista di “Prison Break” Dominic Purcell è l’ancora del film: è infatti anche la sua performance che rende alla perfezione tutto questo lavoro di Boll sul suo personaggio, in particolare quando oltrepassati i limiti dell’esasperazione e di ogni umana sopportazione, decide di vendicarsi delle persone che hanno fatto sì che la sua vita e tutto ciò che aveva di più caro andasse letteralmente nel cesso. Senza la sua imponente svolta, “Assault a Wall Street” sarebbe stato un racconto sempre sì infernale, ma di molto più debole.

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Naturalmente, ignorando alcuni dei buchi ovvi della trama la commistione emozionante di dramma e azione da parte di Uwe Boll risulta un pò più facile da digerire, stante l’evidente difficoltà di mettere in atto nella realtà quello che il fantastico finale del film ci mostra. Il finale infatti funziona solo se siete disposti a trascurare alcune delle incongruenze. Per fortuna, il regista ha un gruppo di attori in grado di aiutarlo a smussare eventuali rappezzature un pò grezze, che gli spettatori potrebbero ravvisare durante la visione. Keith David, Michael Paré, John Heard, e Erin Karpluk offrono tutti interpretazioni ammirevoli. Tuttavia, è Edward Furlong che si distingue tra i comprimari. La sua performance potrebbe essere facilmente classificata come un brillante ritorno, ed è bello vederlo fare qualcosa di serio per un cambiamento dai suoi ruoli di pazzo malvagio come ha sempre fatto e pure molto bene, da protagonista, in “Stoic” dello stesso Boll.

“Assault on Wall Street” è un film perfetto? Probabilmente no. Tuttavia, Uwe Boll ha regalato allo spettatore un film di vendetta audacemente emozionale che affronta temi molti americani e anche globali, che ci si trova ad affrontare in questi giorni di un’epoca tanto disgraziata. Il messaggio è a volte veramente commovente nella sua tragicità, e ci si sente spesso come se Boll e la Event, la sua società di produzione, siano più interessati a colpirci in testa con il loro soggetto al contrario di raccontarci una storia a tutto tondo. Tuttavia, tutti questi elementi si fondono in qualche modo, alla fine, grazie alla stimolazione sapiente e costante di Boll e come detto ad una manciata di ottime prestazioni del suo cast, anche nei ruoli di semplici apparizioni. “Assault on Wall Street” potrebbe dunque essere il miglior film di un regista finora tanto snobisticamente e stupidamente disprezzato. Cosa poteva fare di più, oltre che riuscire a confezionare un affine, fantastico e degno compagno, al suo sottovalutato e bellissimo thriller radicale del 2009, “Rampage”.

Napoleone Wilson

Assault on Wall Street

Titolo di lavorazione: Bailout: age of the Greed

Regia: Uwe Boll

Interpreti: Dominic Purcell, Erin Karpluk, Edward Furlong

Durata: 90 min.

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Se fossimo stati negli anni 80… Evil dead remake…

29 mercoledì Mag 2013

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evil dead, vhs

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Pubblicato da andreaklanza | Filed under anteprima

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In attesa di essere visto: La danza de la realidad di Alejandro Jodorowsky

17 venerdì Mag 2013

Posted by andreaklanza in anteprima, curiosità

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anteprima, dance of reality, el topo, in attesa di essere visto, jodorowsky, santa sangre

Dunque ci siamo. Finalmente, il 18 maggio nell’ambito de La Quinzaine des realisateurs del  Festival di Cannes Alejandro Jodorowsky presenterà la sua ultima fatica, “The Dance of Reality”(La Danza de la Realidad), realizzato a 80 anni e ben 22 dall’ultima sua regia cinematografica, il sottovalutato e sfortunato “Il Ladro dell’arcobaleno”(Rainbow Thief).

Era dal 2008 che pareva essersi cocretizzato un suo possibile ritorno di Jodo all’arte fra le tante da lui praticate, che gli ha conferito notorietà internazionale: il cinema. Il film era “King Shot” e alla fine non venne mai neppure iniziato per mancanza di fondi, travolto dalla crisi economica esplosa nel frattempo.

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Peccato, perchè da come Jodo lo descriveva era un sensazionale, purissimo delirio alla Jodorowsky.

Prodotto da David Lynch e da Nick Nolte, da girarsi interamente in studio a Parigi, dove Jodo vive da sempre, e con la fotografia del grande Vilmos Zsigmond, “King Shot” avrebbe incluso nel cast Nick Nolte, Asia Argento, Marilyn Manson, Udo Kier, e Santiago Segura.

Ma, come riportato, in una intervista al Guardian dell’allora 2009 Jodorowsky rivelò che il progetto era stato addirittura cancellato per mancanza di fondi.

Egli descriveva il film come un “gangster movie metafisico”, la cui storia si svolgeva in un casinò nel deserto nel quale erano coinvolti alcuni gangster alla ricerca di un uomo grande come King Kong, e la presenza di Marilyn Manson come un sacerdote ortodosso vecchio di 300 anni.

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Accantonato purtroppo definitivamente il progetto “King Shot” forse a noi maggiormente affine, Jodo che è pur sempre Jodo alla imberbe età di oltre ottanta anni si è buttato su un altro lavoro che ha questa volta concretizzato il suo ritorno cinematografico con un insperabile lungometraggio. Nuovo film di Jodowsky che molti reputavano oramai impossibile  da vedersi, un giorno, e che invece…

Eccolo qua.

“The Dance of Reality” (La Danza de la Realidàd). Ovvero la visione autobiografica, si spera sempre che conservi il caratteristico tocco surrealista e visionario- di Jodorowsky oramai anziano, riportatosi alla sua lontana infanzia in Cile.  Leggendo sul sito ufficiale del film l’accenno ad un’inizio con la sfilata dei Vigili del Fuoco per le strade di Tocopilla, non so perchè mi viene da pensare all’inizio di “Velluto blu”, di Lynch, con il quale Jodorowsky come abbiamo letto anche sopra per la produzione di “King Shot”, ha stretto rapporti oramai da diversi anni.

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Comunque, vedremo anche la vecchia biblioteca massonica nella quale il giovane Jodorowsky vide per la prima volta e imparò la lettura dei tarocchi, così come la spiaggia nella quale ancora una volta fellinianamente inizierà i suoi giochi. Non mancherà neppure l’arrivo immancabile di un vecchio circo. Cioè saranno mesi in scena i ricordi filtrati dello stesso giovane Alejandro che sul sito della sua ultima opera racconta: “… Ho vissuto in Tocopilla per 10 anni. Da quel momento, ho sempre ricordato i particolari che mi hanno formato. Quando mio padre si trasferì a Santiago, ho avuto modo di pesare 100 kg (220 lb). Ora posso dire che ho avuto una terribile depressione, perché mi hanno sradicati dalla cosa più importante della mia vita. Tocopilla è per me ciò che Macondo è quello di García Márquez. Ha segnato la mia esistenza … “.

Speriamo davvero che quindi l’ottantaquatrenne(?) Jodo riesca ancora stavolta a regalarci un film nel quale l’argomento biografico, sempre rischioso ma anche un pò di “riporto” per l’autore all’ultimo film o che comunque ha raggiunto la sua piena maturità, sia condotto e risolto alla sua personalissima maniera, che come sempre sarà legata indissolubilmente al grande amore per il circo.

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La strutture della trama e alcune foto di scena fanno pensare inevitabilmente a “Carnival” la bella e breve serie tv americana del 2006, incentrata sulle vicende di una compagnia circense nel suo girovagare per gli Stati Uniti piagati dalla Grande Depressione degli anni trenta. Sarebbe già notevole se Jodo, a oltre vent’anni dall’ultimo film riuscisse a mantenere l’approccio visionario e fantastico della suddetta serie, per il suo film, il quale nella seconda parte verterà invece maggiormente sul grande attaccamento al teatro, “spiegato” da tre eventi cardine a cui avrebbe assistito quando era bambino: il funerale di un pompiere, un attacco epilettico non scecificato se il suo, ed il canto di un principe cinese. O mostrandoci il surrealismo per come si è insinuato la prima volta nella sua mente di ragazzo una volta che il padre lanciò in aria delle uova fritte sulla testa della madre, che invece finirono su un dipinto per sua definizione “orribile”. I tuorli si fermarono sulla tela, e al giovane Jodo parve come se lo stessero guardando quali due immobili soli. Dandogli quel che si dice la prima rivelazione, e l’illuminazione per un’intera eclettica come poche esistenza, potremmo aggiungere noi.

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Per massima parte Jodo pare sia riuscito a girare nei veri ruoli della sua infanzia. Ancora abbastanza immutati rispetto a sè stessi, di quei lontanissimi giorni degli anni trenta, dato che Tocapilla pare essersi conservata pressochè inalterata nel corso di tutto questo tempo, forse aiutando come ci informa il sito, un lavoro di ricreazione di quel periodo che non sia “modernamente” artefatto e manierato.

Napoleone Wilson

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