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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

Malastrana VHS

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Robot Jox

10 venerdì Apr 2020

Posted by andreaklanza in azione, B movie gagliardi, fantascienza, il grande freddo, Recensioni di Manuel Ash Leale, robot malvagi

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Anne-Marie Johnson, charles band, Danny Kamekona, empire, full moon, Gary Graham, Hal Yamanouchi, Hilary Mason, Ian Patrick Williams, Michael Alldredge, michael bay, Paul Koslo, Robert Sampson, robot, stuart gordon, Transformers

Siamo ormai nel 2020 inoltrato. Nell’ultimo anno abbiamo avuto due attentati terroristici, un impeachment presidenziale, l’abdicazione di un imperatore, l’incendio di una delle cattedrali più famose del mondo, un’ondata di proteste sociali a Hong Kong e Greta Thunberg. Per non farci mancare nulla abbiamo anche una pandemia di portata quasi mondiale. È in momenti come questi che ripenso a quanto la vita fosse più facile quando eravamo bambini. Perlomeno quando quelli della mia generazione erano bambini, ma non fate tanto i giovani adolescenti che presto toccherà anche a voi bere la tisana serale e digerire un Whopper dopo due giorni. “Gli anni d’oro del grande Real, gli anni di Happy Days e di Ralph Malph” cantava il nostro amato bardo della disillusione generazionale, Max Pezzali, e al diavolo le sue verità e la lacrimuccia che scende ogni volta che l’attualità mi rende malinconico. Sì, perché un figlio degli eighties come me si porta dentro una lezione importante, una verità incisa nella carne che nessuna candelina in più sulla torta potrà mai cancellare: quando la terra è avvolta in tempi bui, quando l’umanità è in pericolo, quando ogni speranza vacilla volgi gli occhi al cielo e aspetta…un Super Robot ci salverà!

Che ci volete fare, siamo cresciuti a girelle, tè freddo e robot giapponesi, è impossibile non avere gli occhi lucidi pensando al “cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà” e che “difendiam la Terra dall’ombra della guerra”. Che poi potremmo stare ore a parlare delle differenze fra real robot e super robot, ma chissenefrega: i robottoni sono giganteschi, hanno un arsenale di armi che farebbe impallidire i cattivoni russi dei film anni ’80 e sono pilotati da esseri umani. Non esiste, ripeto, non esiste nulla di più figo di un Robot gigante da pilotare per combattere il male e non nascondiamoci dietro un dito, avere un Megazord a portata di mano è il sogno di ogni maschietto. Non importa che la dura realtà ci rovesci merda addosso e uccida i nostri sogni d’infanzia, dateci un Megazord e renderemo il mondo un posto migliore. Così, nell’impossibilità di pilotare Gundam, ci consoliamo con i vari Transformers che il Sommo Michael Bay ci regala e con le estemporanee sorprese alla Pacific Rim di Guillermo Del Toro. Ma, ormai lo sapete che c’è sempre un “ma”, c’è un’altra persona che, nel 1990, ha tentato l’impresa di rendere reali i Super Robot: prima di Bay, prima di Del Toro, c’era Mister Stuart Gordon.

Il suo nome non è certo nuovo ai cultori dell’horror, essendo il geniale regista di due cult come From Beyond (1986) e soprattutto Re-Animator (1985). Classe 1947, Gordon è uno dei Masters of Horror e in una carriera durata fino a questo infausto anno ha diretto gente come Oliver Reed, Joe Mantegna, Christopher Lambert, William H. Macy, Mena Suvari, Lance Henriksen e pure il nostro Luca Zingaretti. Ma era il 1987 quando il regista statunitense rimase in qualche modo affascinato dal successo ottenuto dal media franchise Hasbro/Takara Tomy dei Transformers, altro pezzo della nostra infanzia. Il concept stimolò la sua fantasia, e da lì a proporre un film dove Robot giganti combattevano fra loro il passo fu breve. Insieme allo scrittore Joe Haldeman e all’amico Charles Band con la sua Empire International Pictures, Gordon diede vita a Robot Jox.

Con diversi milioni di dollari di budget, alcune fonti dicono sei altre dieci, tutto quello che la Empire potesse permettersi, il film racconta di un futuro dove il mondo è sopravvissuto a un olocausto nucleare. Si è deciso quindi di vietare ogni guerra e le nazioni si sono divise in due sole fazioni: da una parte il Mercato e dall’altra la Confederazione. Il solo modo per dirimere le dispute territoriali è un combattimento fra due enormi mecha, pilotati dai Robot Jox. Achille e Alexander, i due piloti delle opposte forze governative, si affrontano in grandi arene mettendo in gioco la loro vita per la causa. Insomma, cosa si vuole di più? Siamo nel 1990 e abbiamo un film con Robot alti come grattacieli, piloti cazzuti e battaglie nelle arene. E questo nove anni prima del prodigio che segnò la netta divisione fra pre e post, Matrix. Un sogno per molti ragazzini appassionati, non fosse che Robot Jox fu un poco sfortunato. In primis Gordon e Haldeman si trovarono in forte disaccordo sul tono generale del film, in quanto il primo voleva un film per ragazzi godibile anche dagli adulti e il secondo desiderava esattamente l’opposto. E poi il budget ridusse praticamente la Empire in bancarotta e per salvare tutta l’operazione dovette intervenire un’altra casa di produzione.

  • Stuart ci mancherai

Naturalmente i problemi di budget minarono il film quasi totalmente, sebbene la stop motion del grande Dave Allen è stata capace di regalarci un’introduzione incredibile, da bava alla bocca. E infatti è qui, in scene come questa, che Robot Jox dà il meglio, dove Stuart Gordon si sente a suo agio e nel pieno della sua idea e dove prende a calci il low budget creando momenti tesi fra lo spettacolare e il divertente, dimostrando ancora una volta la sua genialità. Tutto questo purtroppo non salva quella che avrebbe potuto essere un opera assolutamente memorabile e degna, questa sì, di un remake hollywoodiano. Troppe teste, troppe idee diverse e pochi soldi: Robot Jox resta in quel limbo magico e dannato, fra il patetico e il sublime, dove risiedono le leggende, ed è lecito credere fermamente che con un budget più alto sia la visione di Gordon che quella di Haldeman sarebbero diventate pietra di paragone. Ma la realtà, ancora una volta, si è prodigata come un Tristo mietitore per rovinare i nostri sogni di bambini, almeno fino a quando Michael Bay ha deciso altrimenti. E si sa, contro Bay neppure la vile Realtà può nulla. Ma questa è un’altra storia.

Stuart Gordon ha segnato pagine cult e indimenticabili del Cinema horror, vincendo anche come miglior regista al nostro Fantafestival, nel 1998, con Il meraviglioso abito color gelato alla panna, scritto da quell’innovatore di Ray Bradbury. Se n’è andato pochi giorni fa, il 24 Marzo a 72 anni, in questi tempi assurdi di virus e quarantena, a causa di una sindrome sistemica. Con lui se ne va un grande autore horror, un uomo che non ha mai visto nel Genere del semplice escapismo, bensì la possibilità di manifestare il tuo talento autoriale. E l’ha fatto fino alla fine, con la sua carica sovversiva, il suo amore per la settima arte e per quel Cinema di Genere che, forse, adesso inizia davvero a scomparire.

Manuel “Ash” Leale

Robot Jox

Anno: 1989

Genere: fantascienza

Regia: Stuart Gordon

Interpreti: Gary Graham, Anne-Marie Johnson, Paul Koslo, Robert Sampson, Danny Kamekona, Hilary Mason, Michael Alldredge, Ian Patrick Williams, Hal Yamanouchi, Stuart Gordon (non accreditato)

Durata: 85 min

We Die Young

15 domenica Mar 2020

Posted by andreaklanza in azione, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, Van Damme, W

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rai4, van damme, we die young

Sono passati i tempi d’oro per il belga Van Damme. Vuoi per l’età, ormai un sessantenne dal fisico ancora competitivo ma dal volto segnato, vuoi per un cinema d’azione di serie B coi soldi che non esiste più, ora il nostro si aggira come uno spettrale antieroe in tante produzioni povere per il mercato europeo. E’ proprio in questi lowbuster made in Bucarest, la Hollywood delle tendopoli della settima arte, che la non più star Van Damme ha affinato le sue doti recitative come un attore fallito costretto a passare dalla grande sala al teatro Off-Broadway. Così lo vediamo interpretare personaggi sempre più sofferti come il buttafuori che si immola per la figlia nello struggente The bouncer di Julien Leclercq. La sua figura troneggia in questi prodotti hot dog da cestone del supermercato, alcuni dignitosi come il concitato Pound of Flesh dello specialista Ernie Barbarash, altri indecorosi come l’orribile Black Water, girato insieme al compagno di merende Dolph Lundgren. Più che il collega Steven Seagal, ormai un cartonato appiccicato con photoshop in tante produzioni dello stesso mercato, Van Damme è diventato un marchio, una qualità in pellicole che senza di lui, magari avendo pure buone storie, non si sarebbe cagato nessuno. Fermo restando che siamo in pochi, quasi una partigianeria, ad esaltarci per un nuovo action vandammiano in uscita. I più lo hanno dimenticato, digerito e confuso tra le stelline degli anni 80, cosa che i muscoli da Bruxelles non sarà mai, con buona pace dei vari Mark Dacascos e Michael Dudikoff.

We die young è un dramma dalle forti tinte action, nel quale Van Damme è comprimario in una storia che vede la fuga di due fratelli, un adolescente e un bambino, da una gang latina di spacciatori. Il suo Daniel è un perdente, fin dalle prime scene, un tossico in balia degli incubi di guerra, incapace di parlare per via di una ferita alla gola, che per caso diventata il deus ex machina di una vicenda spinta verso le corde del dramma.

I fan della star belga siano avvertiti: non ci saranno calci o spaccate, We die young segue la strada del verismo e dei combattimenti da strada, poco spettacolari ma molto sanguinosi. Questo lo ribadisce anche il nostro Jean Claude in un’intervista al portale comingsoon “La gente pensa che sia un film d’azione, ma c’è solo un 20% di azione, verso la fine. E’ un tipo di film diverso, gli attori sono anche migliori di me. Non che io non sia bravo, intendiamoci! Parla di comunità da cui, quando ci nasci, è difficile allontanarsi. Quando sono stato in Texas, mi hanno fatto incontrare alcune di quelle persone menomate tornate dalla guerra. Ho pensato subito di accettare, anche se non ero di certo nelle loro condizioni. Parlare con quella gente mi ha aiutato molto per il film. In We Die Young sono realistico, dico cose vere, sono quel tipo di personaggio“.

Sul fatto che il film abbia solo un 20% di azione non è propriamente vero, ma è sicuro che la macchina da presa di Lior Geller, regista di un cortometraggio molto apprezzato, Roads, abbia buon occhio per le scene d’inseguimento. Il momento nel quale i fratellini entrano nella macchina del meccanico Daniel è molto concitato, con un senso del ritmo palpabile e sparatorie improvvise che sfociano in una inaspettata morte.

Il modello forse era anche il bellissimo e inarrivabile Gran Torino di Clint Eastwood, ma We die Young, pur avendo dalla sua anche dei buoni attori sconosciuti, una certa finezza nei dialoghi e un interesse quasi da tragedia shakesperiana nel tratteggiare le varie psicologie, paga la debolezza di una sceneggiatura non all’altezza e con azioni non sempre chiare o plausibili dei suoi personaggi.

Siamo nello strano mondo, un po’ come era, in maniera migliore, il precedente The bouncer, dei B movie con intenzioni, che cozzano prepotente con le logiche del mercato di cassetta, un’opera non brutta, anzi piacevole, che grida autorialità ad un pubblico che vuole solo divertimento e due scazzottate.

Girato in parte negli States, soprattutto Washington, ma nella maggior parte in Bulgaria, con un budget di appena 4 milioni di dollari, We die young è un film che potrebbe riservare più di una sorpresa, ma che non graffia purtroppo come dovrebbe, restando quell’ibrido che per molti sarà indigesto.

Da noi è uscito su Rai4 con un doppiaggio non disprezzabile e presto debutterà in home video, saltando ovviamente il cinema, terra non più fertile per i nostri eroi marziali dell’infanzia. Noi però restiamo come i CCCP, sempre fedeli alla linea, sempre con i nostri eroi, anche nella loro nuova dimensione miserabile, povera ma sicuramente affascinante.

Andrea Lanza

We Die Young

Regista: Lior Geller

Genere: Azione, Drammatico

Anno: 2019 – Bulgaria, USA

Interpreti: Jean-Claude Van Damme, Uriel Emil Pollack, David Castaneda

Durata 92 minuti.

Wanted – Vivo o morto

27 martedì Ago 2019

Posted by andreaklanza in action, azione, B movie gagliardi, il grande freddo, Recensioni di Manuel Ash Leale, W

≈ 13 commenti

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blade runner, gary sherman, monologo, rutger hauer, wanted vivo o morto, Wanted: Dead or Alive

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…”.

Lo conoscete tutti, vero?

Il monologo che, nel finale di Blade Runner, consacra un attore olandese scortandolo nella Storia del Cinema. Quante cose si sono dette e scritte sul film di Scott, quante su quel monologo che spesso è citato da chi nemmeno sa cosa sia Blade Runner. La maledizione dello spettatore medio: non so di cosa parlo, ma lo faccio molto bene. Una situazione che non si è certo fermata al 1982, ma che pure attualmente miete vittime illustri, come i supereroi Marvel indossati da gente che, fino al giorno prima, dava del nerd sfigato al lettore di comics. Croce e delizia della potenza cinematografica, suprema e dannata democrazia della settima arte. Ma non sottraiamoci al gioco, il monologo di Blade Runner è troppo iconico, facile riconoscerlo. “Trova lei e troverai il lupo che cerco, il lupo che voglio…il lupo che la ama”. Troppo facile anche questo, sono sicuro che abbiate detto Ladyhawke in poco tempo. Facciamola più difficile: “Io non sono un criminale, sono un soldato e come un soldato merito di morire” – “Tu non sei un soldato, tu sei un insetto su un mucchio di merda”. Vi lascio un minuto, ma niente Google, non vale.

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A chi di voi ha indovinato vanno i miei complimenti, mi tolgo il cappello, non è facile. A tutti gli altri, perlomeno a coloro che non sono dei piccoli e ridicoli poser, do un nome, una data e un titolo: Rutger Hauer, 1986, Wanted: Dead or Alive. Come ho scritto poco prima non era facile, questo film non è certo tra i più famosi interpretati da Hauer e forse proprio per questo risulta tanto interessante. Diretto da Gary Sherman, regista di Morti e sepolti, Poltergeist 3 e Lisa… sono qui per ucciderti!, con il dolce visetto di Staci Keanan, Wanted si colloca nei classici action anni ’80, dove il nostro eroe di turno, sicuro di sé e imbattibile, fa piazza pulita dei nemici. Con più gusto se questi sono stranieri stereotipati che vogliono colpire la santa madre America. Cliché a parte, fate pace con voi stessi a riguardo, il razzismo spiccio derivante dalla società degli eighties è sempre un curioso leitmotiv, ed è incredibile come chi sia cresciuto in quegli anni ci passi sopra, menefreghismo a palate, vogliamo i terroristi cattivi crivellati di colpi. Se prima il nemico aveva gli occhi a mandorla, ora ha la pelle olivastra. Dio benedica l’occidente!

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Il film di Sherman decide che la minaccia debba arrivare dal Medioriente e per darle il volto sceglie il bassista e cantante della hottest band in the world: Gene Simmons. È meraviglioso pensare che a interpretare un terrorista arabo si scelga un uomo nato ad Haifa, in Israele. Ma Simmons può tutto, come ogni fan dei KISS sa bene e qui, cattivissimo e senza scrupoli, si mette anche in testa di uccidere Rutger “carisma” Hauer. Riuscito, infatti, ad atterrare negli Stati Uniti, Malak Al Rahim organizza un piano per seminare il caos e, scoperto che il suo vecchio nemico, Nick Randall, è in città opta per farla pagare anche a lui. Randall, stereotipo dell’americano che vive in un magazzino strabordante armi, è un ex della CIA ora cacciatore di taglie. Lo scontro è assicurato. D’accordo, penso a questo punto sia chiaro come Wanted rispecchi tutti i dettami di quel genere di action tanto amato negli eighties. Ma questo non gli impedisce di essere straordinariamente godibile, di avere l’incredibile capacità di non perdersi in ciance e di mantenere un ritmo abbastanza sostenuto per tutta la durata.

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La regia di Sherman non è da strapparsi i capelli, ma in centosei minuti fa il suo dovere basico, riuscendo persino a piazzare un paio di inquadrature accattivanti. Non che servano, siamo sinceri, tutto quello che si chiede e si vuole vedere in un film così sono battute sagaci, cazzotti e sparatorie. Dateci questo, e potremmo anche soprassedere ai difetti che caratterizzano produzioni con un budget che solo un Craig R. Baxley potrebbe trasformare in oro. Wanted fa il suo dovere e lo fa grazie, e soprattutto, al suo attore protagonista. Rutger Hauer è conosciuto solo per poche produzioni, quelle commercialmente più appetibili, siano Blade Runner, The Hitcher o Ladyhawke e certamente negli ultimi anni il suo viso è apparso quasi solo in piccoli ruoli. Tuttavia è un crimine non riconoscere la grandezza di un attore capace infondere carisma, fascino e credibilità in ogni ruolo. E allora lasciamo perdere per un attimo ciò che l’ha reso famoso, lasciamo gli androidi e i cavalieri lupo. Detective Stone, Furia cieca, I falchi della notte, La leggenda del Santo Bevitore, I colori della passione, film diversi, budget diversi, personaggi diversi. Ma con la stessa identica passione, professionalità e impegno.

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Arrivati qui forse è chiaro che la recensione di Wanted è una scusa. Già, perché a Luglio 2019 Rutger Hauer ha lasciato questo mondo infame, in silenzio, da gran Signore qual è sempre stato. E allora noi, quelli della mia generazione e delle generazioni vicine, ci siamo ritrovati con un pezzetto d’infanzia e adolescenza rubato. Perché quando il cinema ti scorre dentro capita di crescere con film che, in qualche modo, ti segnano e gli attori che li interpretano acquistano un’aura unica. Diventano amici, compagni di vita, affettuosi punti saldi nei periodi tumultuosi dell’esistenza. Perderli significa perdere un pezzetto di noi, anche se siamo così fortunati da poterli ritrovare ogni volta che vogliamo. Magia del Cinema.

Onore a te, Rutger Oelsen Hauer, noi qui proseguiamo la lotta.

Manuel “Ash” Leale

Wanted: vivo o morto

Titolo originale Wanted: Dead or Alive

Regia: Gary Sherman

Interpreti: Rutger Hauer, Robert Guillaume, Gene Simmons, Sam Elliott

Durata 106 min. – USA 1987.

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Contamination – Alien arriva sulla terra

14 domenica Apr 2019

Posted by viga1976 in azione, B movie gagliardi, C, fantascienza, Le recensioni di Davide Viganò, scifi horror

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Carlo De Mejo, Carlo Monni, Contamination - Alien arriva sulla terra, Gisela Hahn, Ian McCulloch, Lewis Coates, Louise Marleau, luigi cozzi, Marino Masè, Siegfried Rauch

Luigi Cozzi ha dato una bellissima definizione dei suoi film:  pellicole d’imitazione. Cioè prodotti che seguono la moda del momento e li ripetono in piccolo, sicuri di un incasso decisamente buono. Il pubblico vuole super eroi? E noi imiteremo il loro film di maggiore successo economico,  la gente abbocca. In questo ragionamento c’è la storia e la caduta dell’industria cinematografica di genere italiana. Con queste premesse si evince che da una parte si giudica il pubblico un po’ un ammasso di individui a cui basta dar qualcosa di raffazzonato e via,  quello se lo beve. Due, non si investe nel creare un immaginario nostro, forse non siamo in grado e così ci adattiamo a scimmiottare gli altri. Forse il mio giudizio è fin troppo sbrigativo e  severo, nondimeno veniamo da decenni in cui abbiamo giudicato fin troppo positivamente ogni esperienza del e nel genere italiano. Proprio in onore ai grandi maestri e agli artigiani che hanno fatto la storia del cinema italiano non possiamo essere troppo generosi con tutti.  Cozzi dalla sua ha un carattere che in parte ammiro. Sa vendersi bene, sa raccontare con gusto la sua storia, tanto che tu alla fine davvero credi che Star Crash sia un film imperdibile. Tutto questo è possibile perché lui ha una grandissima passione per la fantascienza e il fantastico e riesce a trasmetterla agli altri. Peccato non capiti (quasi) mai attraverso i suoi film, ma per la persona provo tanto rispetto.

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Il leggendario Cozzi

Dopo il successo di Star Crash, Cozzi decide di far un film che fosse l’imitazione di Alien.  Un’opera di pura fantascienza con l’attacco degli alieni ambientata in una grande città. Purtroppo i produttori pensarono bene di spingere il tutto verso le atmosfere alla James Bond, boicottando in vari modi le istanze legate alla fantascienza: il risultato è un film che è un ibrido, a volte indigesto .

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Effettivamente la seconda parte, quella nella foresta sudamericana con la Spectre dei poveracci è una parte debole e lo sviluppo della trama stenta a dar soddisfazione.

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Il film potrebbe funzionare bene nella prima parte.  C’è abbastanza mistero, decenti effetti splatter, un certo mestiere che rende godibile il tutto. La storia raccontata è quella di un’invasione aliena attraverso delle strane uova che una volta toccate creano una reazione nel corpo delle vittime facendole esplodere il loro stomaco.  Il tutto viene scoperto perché a New York sta transitando una nave alla deriva. Una volta a bordo i poliziotti e il personale medico scopriranno l’agghiacciante verità.

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L’unico sopravvissuto, un poliziotto loquace e divertente, dovrà collaborare con una serissima scienziata per poter salvare il mondo. In loro aiuto un ex astronauta, ormai ridotto uno straccio, tornato cambiato da un viaggio su Marte.

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Non siamo nei paraggi di una “cozzata” stile Paganini Horror, qui si sta nei confini della decenza filmica. Cozzi usa sapientemente l’uso del chiaroscuro per rendere credibili gli effetti speciali, compie un duro lavoro affinché il mostro che appare nel finale non ci induca a ridere a crepapelle.   Per questo forse l’opera è una delle sue pellicole migliori (ma stiamo parlando di un regista che di pellicole migliori non ne ha fatte nessuna). Però ammiro il durissimo lavoro e l’impegno che chiaramente mette nelle sue cose. Non mi piacciono i suoi film e non lo reputo un regista fondamentale per il genere, applaudo alla tenacia, alla passione che mette in gioco. Ho seguito la vicenda abbastanza interessato e tutta la prima parte credo sia anche valida. C’è mistero, sangue, un disegno rudimentale ma efficace dei personaggi. Paga la sua natura di film a basso budget e gli scontri con la produzione. Sicuramente è datato, superato, ma una visione la consiglio.

Davide Viganò

Contamination – Alien arriva sulla terra

Titolo alternativo: Alien contamination

Anno: 1980

Regia: Lewis Coates (Luigi Cozzi)

Interpreti: Ian McCulloch, Louise Marleau, Gisela Hahn, Marino Masè, Siegfried Rauch, Carlo De Mejo, Carlo Monni  

Durata: 95 min.

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Contagion

23 sabato Mar 2019

Posted by andreaklanza in azione, B movie gagliardi, C, cannibali, Recensioni di Andrea Lanza, tette gratuite, thriller

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andrea roncato, contagion, doppio misto, dvd da cestoni, dylan dog, Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea, freda, futurama, gianni ciardo, Il budino magico, Jacqueline Brennan, John Doyle, Karl Zwicky, kubrick, Le colline hanno gli occhi, mefistofele, Nathalie Gaffney, Nicola Bartlett, Pamela Hawkesford, Ray Barrett, riccardo freda, shining, tinì cansino, tiziano sclavi, To Make a Killing, Un tranquillo weekend di paura

Avete presente quei bei centri commerciali dove potete trovare qualsiasi cosa, dalla Coca zero aromatizzata con l’eucalipto al togli peli dal naso a 99 cent? Beh se la risposta è sì vi sarà quindi capitato di aggirarvi nel reparto audio e video avendo certamente notato un cestone polveroso, pieno di dvd, con film mai sentiti. Sono il magico mondo dei Futurama con action girati nel giardino di casa David Worth, degli Storm video dei Breakdance senza un vero pubblico, e delle etichette tipo la Legocart che spacciano per HD delle vhs registrate a volte male. In mezzo a questi film, sfigati, partigiani, mai benedetti neanche da un culto terrapiattista di adoratori delle feci cinematografiche, potreste trovare un gioiellino. D’altronde lo dice anche il poeta che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Contagion è quel titolo inaspettato, il bacio ricevuto quando ti aspetti uno schiaffo, la mitragliata che, Santa Madonna dell’Incoronata, salva Vincent Vega da una morte certa e, in questo caso, la vostra serata cinefila.

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Non proprio una garanzia

Recita il retro della copertina la seguente e dettagliata trama:

“Mark Clifton è un ambizioso venditore di computer di trentanni. Mentre sta andando dalla sua ragazza Cheryl che è sorella del senatore Herbert Davies, un ricco allevatore del Quuensland, ha un incidente con  la sua Porche sulla super strada nota come “il nastro dell’assassinio”. Nel bosco intravede una fattoria e dopo un brutto incontro con una trappola esplosiva raggiunge la casa dove viene aiutato da 2 bellissime ragazze, Helen e Cleo, ospiti di Mr. Bael, un ricchissimo finanziere. Mark ha rapporti con Helen, un’amante molto aggressiva. A Bael, che controlla molti fondi ed è specializzato in “futures” su valute e materie prime, piace Mark e gli offre una parte della sua ricchezza se lavorerà per lui come suo apprendista. Mark entra alla grande nel sistema che prevede di introdursi illegalmente in computer privati internazionali e accesso a chiavi finanziarie e dati personali. Perpreta così una serie di orrendi atti per raggiungere ricchezza e sesso. Cheryl però sospetta che non tutto sia giusto e comincia ad investigare con risultati spaventosi“.

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siamo a neanche 5 minuti e presto un motociclista verrà decapitato

Coinvolti? A parte alcuni vistosi errori come “trentanni” e “Porche” devo darvi una brutta notizia: la trama è inventata. Cioè parzialmente inventata, ad essere sinceri, come se qualcuno avesse visto col fastfoward il film bloccandolo di tanto in tanto per capirci qualcosa. Quindi nessuna trappola esplosiva, nessuna sorella del senatore Vattelapesca, nessun nastro dell’assassinio, nessun sistema da hacker anni 80 e mica il nostro si fa solo una delle due ragazze, ma entrambe! Probabilmente uno stagista sottopagato della Futurama sarà il colpevole di tutto questo. Ma chi siamo noi, seduti comodi sulla nostra poltrona, con la pappa calda di mammà e i caloriferi accesi a contrastare il rigido inverno, per rimproverare il povero Ferruccio, 45 anni, cappello al contrario, mai una scopata diversa dal fazzoletto di solitario piacere, e tanta voglia di sfondare in un mondo difficile come quello del lavoro.

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Contagion parla sì di un certo Mark che incontra un vecchio mago della finanza e le sue due ancelle, ma prima c’è tutta una parte survival tra Le colline hanno gli occhi e Un tranquillo weekend di paura, poi omicidi, follia e fantasmi mentre il protagonista cerca di intraprendere “la strada dei tre sentieri” che gli donerà il successo meritato. Dire di più sarebbe spoilerare il film che regala un ribaltone nella prima mezz’ora e un colpo di scena prevedibile ma gagliardo nel finale. Il tutto diretto in maniera eccellente e concitata da Karl Zwicky che l’anno dopo, il 1988, girerà l’altrettanto notevole To Make a Killing prima di essere fagocitato per sempre dalla tv e da opere al di là del bene e del male come Il budino magico.

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Il budino magico

Dire che Contagion sia scritto bene sarebbe mentire, ma ha una storia abbastanza bizzarra da tenere alta l’attenzione. Certo il film è pieno di sottotrame mai chiuse, di personaggi non approfonditi, ma siamo sullo stesso piano di un Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea diretto da un Freda pazzo, dove è il fascino del non sapere, della potenza delle immagini a sovrastare dialoghi a volte un po’ cretini e trame con più buchi di una gruviera di Topo Gigio. Lo stesso “Contagio” sbandierato nel titolo è una cosa piuttosto fumosa e mai davvero spiegata. Lì c’è tutta l’abilità della supercazzola comunque. Come se fosse antani naturalmente. Capito? No? Allora nella confusione pensi “Geniale!”

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Mickey Mouse stupratore

Basti pensare all’inizio, tesissimo, con la macchina da presa a mano che segue la fuga di Mark nei boschi. Non una roba che ti aspetteresti da un dvd da 99 cent del cestone del supermercato, ma da un Wes Craven appena uscito dal porno e con la voglia di orrore urbano. Quando il maniaco prende il protagonista, gli cala i calzoni e comincia a violentarlo indossando una maschera brutta di Mickey Mouse, Zwicky te la fa sentire addosso la sporcizia anche a te, spettatore smaliziato. Nel momento che credi poi di aver capito in che film ti sei cacciato con questi pazzi, probabilmente cannibali, che massacrano donne, con i corpi delle vittime nude e martoriate su dei pali, beh il film diventa altro. Mutaforme e schizzato come il suo protagonista.

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Si possono trovare i semi futuri di Wrong turn e probabilmente di questo sgarruppato film se ne ricorderà pure il Tiziano Sclavi di Dylan Dog con Mefistofele, in un’epoca in cui l’indagatore dell’incubo univa gli elementi più disparati, Golem e Terminator, per creare vere opere originali dal non originale. Certo è che l’influenza maggiore per Contagion è sicuramente Shining con un Jack Nicholson altrettanto ammaliato da alcuni fantasmi. I paragoni tra i due film si fermano qui ovvio, nelle ispirazioni, senza levare nulla né a Kubrick in grande né a Zwicky nel suo piccolo artigianato di idee gagliarde e selvagge.

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Gli attori, brutti, soprattutto gli uomini, come ogni low budget richiede ma efficaci nella loro parte, non fanno mai pensare ad un prodotto scadente. In più, se il sangue è assente, lo spettatore voyeur può rifarsi gli occhi sulle tette piccole ma splendide delle sue starlette, loro sì  comunque graziose come nel caso della generosa Nathy Gaffney.

Parlando tra l’altro di attori brutti come si può non citare il protagonista, John Doyle, una sorta di Gianni Ciardo, l’attore di gioielli poco comici come Doppio Misto con Andrea Roncato, Tinì Cansino e Moana Pozzi?

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Ciardo o John Doyle?

Contagion è un discreto esempio di ozploitation, un film australiano di genere, che di solito viene sbeffeggiato ingiustamente nei siti ma che, per chi scrive, è risultato un prodotto interessante e ben confezionato, una sorpresa inaspettata.

Anche il dvd Futurama è sì una vhs riversata, ma una buonissima vhs, che si vede decentemente anche sui 50 pollici.

Al prossimo cestone l’acquisto è obbligatorio, no?

Andrea Lanza

Contagion

Anno: 1987

Regia: Karl Zwicky

Interpreti: John Doyle, Nicola Bartlett, Ray Barrett, Pamela Hawkesford, Jacqueline Brennan, Nathalie Gaffney (Nathy Gaffney), Chris Betts, Michael Simpson, Reg Cameron, Michael McCaffrey, Tracy Nugent, Donna Jan Newby, Deirdree Wallace, Allen Harvey, Michael Stanford, Rosemary Traynor, Maurice Hughes, Melody Scott, Greg Powell, James Kable, Craig Cronin, Penny Tobin, Rod Pianagonda, Louise Ryan, Andrew Johnson, Paula Norman, Vassy Cotsiopolous (Vassy Cotsopoulos), Kerrianne Carr, Hazel Howson

Durata: 90 min.

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Vampires

18 lunedì Mar 2019

Posted by andreaklanza in azione, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, vampiri, western

≈ 11 commenti

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ammazzavampiri, anne rice, blasfemia, bon jovi, chiesa, Daniel Baldwin, it, James Woods, john carpenter, Mark Boone jr., Maximilian Schell, Sheryl Lee, Thomas Ian Griffith, Tim Guinee, tommy lee wallace, twin peaks, valek, vampires

Vampires è un film che all’epoca, il 1998, spezzò in due i fan del regista: chi lo considerò un prodotto di poco conto, chi lo lodò. A distanza di più di vent’anni bisogna riconoscere che il film è invecchiato davvero molto bene.

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Maestro

Carpenter, nel girare questa pellicola, prende le distanze dai vampiri di Anne Rice, il modello che allora spopolava, eroi dannati e tormentati, creature tragiche e dannunziane, romanticamente flagellati dal retaggio dell’umanità e delle sue passioni. I suoi vampiri sono invece mostri, belve sanguinarie, succhiasangue senza morale che dormono sotto metri di terra che, quando morsicano, dilaniano la carne. Carpenter non poteva sapere che, soltanto un decennio dopo,  le librerie e gli schermi, grandi o piccoli, verranno invasi da vampiri ben diversi dai suoi: gli eterni indecisi di Stephenie Meyer, gli adolescenti efebici che chiedono al cielo e alle margherite se il loro amore è vero. Nel mondo di Carpenter non ci sarebbe stato futuro roseo per i teneri Bella e Edward Cullen, stuprati, uccisi e fatti a pezzi dagli uomini e dai mostri. D’altronde l’evoluzione a volte è crudele. In Vampires il sole non fa brillare nessuno, ma fa esplodere i corpi in mille pezzi, non c’è tempo per frasi d’amore, ma solo per scazzottate o scopate in saloon polverosi, quando la carne si apre sprizza un geyser di ferite, è la realtà che irrompe nell’irrealismo, cinema per machi non per fighette.

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Vampires è la quintessenza del film carpenteriano d’appendice, quello dei vari 1997 fuga da New York o Grosso guaio a Chinatown: un personaggio duro e tagliato con l’accetta (Jack Crow interpretato magnificamente da James Woods in un ruolo creato su misura per Kurt Russel), psicologie spicciole, colonna sonora orecchiabile, battute ad effetto e tanto western camuffato da horror. Carpenter amplifica l’idea di sessualità nella figura del vampiro, un’idea che ha il suo apice nella scena della vampirizzazione di Sheryl Lee, un amplesso selvaggio che imita nella morte le gioie dell’orgasmo. Le scene di sangue non sono moltissime, ma le uccisioni sono crudeli e alcuni momenti, come l’attacco nel motel, sono girate in maniera davvero magistrale. All’epoca però non si perdonava un cattivo cosi’ banale come il Valek di Thomas Ian Griffith, ma prendendo Vampires per un fumettone, un diversivo d’autore dopo tanti capolavori, il personaggio risulta coerente nell’insieme dove i buoni sono buoni e i cattivi maledetti figli di puttana da spedire all’inferno. Stop pippe mentali sulle sfumature di colori, no no in Vampires è tutto fottutamente semplice, ma anche divertente come una bella scorpacciata di cucina di mamma dopo tanto sushi sofisticato. Ci vuole pure quello, no?

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Non manca neppure la componente politica, cara al regista, accennata, blanda, ma che fa capire che siamo in un vero film di Carpenter con l’idea di una Chiesa padrona, tiranna e matrigna. D’altronde non siamo altro che in una pellicola mutaforme, un horror sì ma sotto un western, un western sì ma ancora più sotto un film su un gruppo di crociati che lottano per Dio per accorgersi che il Dio che servivano è falso. Valek, dal passato di prete, rappresenta la stessa Chiesa che John Crow e i suoi uomini servono, lo stesso simbolo usato per pregare diviene un mezzo per portare la morte sulla Terra, una croce nera che segnerebbe l’alba dei vampiri. Ecco allora che la fede diventa bugia, già nell’idea stessa di creare un gruppo di soldati stipendiati dal Vaticano c’è la blasfemia del concetto di guerra Santa intesa come atto di fede fino alla morte. Ecco allora che un prete dopo un massacro si sbronza e probabilmente va a donne, ecco che un altro non può resistere a passare dal bene al male per le promesse di vita eterna. Alla fine quello che resta non è lo spirito: guardate Jack Crown che nel finale sfida Valek a cazzotti. Uomo contro uomo. Alla fine il resto, come diceva Fulci nel suo racconto più bello, Voci dal profondo, “sono solo enormi bugie”. Non rimane neppure la consolazione di un amore se di amore si può parlare: il futuro incerto di Montoya e della sua compagna presto sarà spezzato dalla mano di Crow. Non è un paese questo per anime semplici.

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NOTA
Esistono pure due seguiti di Vampires, I cacciatori delle tenebre (Vampires: los muertos) di Tommy Lee Wallace (Ammazzavampiri 2, It, Halloween 3) con la rockstar Jon Bon Jovi nei panni del nuovo John Crow di turno, e Vampires 3: il tempio di sangue (Vampires: The turning) di Marty Weiss, dove i vampiri questa volta sono orientali e l’aderenza con il modello carpenteriano è pari a zero. Sono entrambi pessimi seguiti che tradiscono la loro natura di prodotti di cassetta senza natura artistica. E’ un peccato perché, almeno nel secondo capitolo, la mano di Tommy Lee Wallace alla regia e Carpenter alla produzione, lasciavano sperare in uno spettacolo meno becero. Ma ahimè per noi così non è stato.

Andrea Lanza

Vampires

Titolo originale: John Carpenter’s Vampires

Anno: 1998

Regia: John Carpenter

Interpreti: James Woods, Daniel Baldwin, Sheryl Lee, Thomas Ian Griffith, Maximilian Schell, Tim Guinee, Mark Boone jr.

Durata: 108 min.

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Giochi pericolosi

16 sabato Mar 2019

Posted by andreaklanza in azione, G, Recensioni di Andrea Lanza, thriller

≈ 8 commenti

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Christopher Dibb, Dangerous game, Giochi pericolosi, John Polson, Kathryn Walker, Marcus Graham, Max Meldrum, Miles Buchanan, Peter West, Raquel Suarstzman, Robbie McGregor, Sandie Lillingston, Stephen Hopkins, Steven Grives, Susan Stenmark, Terry Flanagan

Il cinema australiano, soprattutto quello dei generi popolari, ha una forza inventiva incredibile, capace di poter rivaleggiare con industrie più ricche senza impallidire. Nascono proprio in quella terra, di canguri, aborigeni e città dense di cultura, pellicole horror, action e fantascienza, dalla fattura eccellente e la fantasia al potere. Gli anni 80 vedono titoli conosciuti come Mad Max di George Miller o Razorback di Russell Mulcahy, altri meno come il cupo Nightmares incubi o l’avventuroso Dark Age, senza contare il fenomeno mondiale Mr. Crocodile Dundee, prodotti d’intrattenimento così ben fatti, avvincenti e spettacolari da essere notati subito dall’industria hollywoodiana.

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Così si porta l’Australia in America scritturando gli abili registi per produzioni a stelle e strisce che saranno per i più fortunati Highlander e, per quelli più sfigati, Nightmare 5, il capitolo più imbelle della saga di Freddy Krueger. Colpevole di quest’ultimo delitto sarà Stephen Hopkins che, negli anni, spiccherà sempre per l’ottimo talento al servizio di progetti non all’altezza del suo potenziale.

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In Nightmare 5 il nostro confeziona un horror ineccepibile sul piano tecnico, ma assolutamente noioso e mancante del body count necessario per fronteggiare i precedenti capitoli, anche il numero 2, quello che ingiustamente i fan sfottono. Con Predator 2 non andrà meglio: scene action pazzesche, finale da cult movie, ma storia così così. Da lì Hopkins diventerà l’esempio più eclatante di un cinema selvaggio, come quello australiano, addomesticato dall’industria americana, con l’unica eccezione del pirotecnico Blown away che, pur nelle sue esagerazioni, diventa la sua prova migliore in assoluto.

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anni 80

D’altronde la scelta per i cattivi copioni è una maledizione che il nostro Stephen deve avere nel DNA visto che la sua opera d’esordio, Dangerous Game, quella che sarà il lasciapassare per gli States, ha più o meno gli stessi difetti: regia potente, trama cretina. La poca accuratezza nella scelta dei progetti porterà il regista inesorabilmente negli anni, a causa di flop mostruosi, a girare soprattutto telefilm come 24 Legacy, altro fallimento tra l’altro.

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slasher

Dangerous Game è del 1988 e da noi esce, probabilmente solo in vhs, come Giochi pericolosi: un film talmente ben confezionato da farci credere, senza internet onnisciente, che si trattasse di un film americano. D’altronde per noi spettatori quando un film mostrava spiagge, una buona fotografia, macchine straniere e attori non europei era sempre e solo Stati Uniti. Questo mi fa sorridere perché poi ci provava il povero Bruno Mattei con lo pseudonimo di Vincent Dawn e poteva fregarti solo nelle copertine: quando infilavi nel videoregistratore cose come Cop game, dalla locandina alla Miami vice, partivano i bestemmioni contro le Filippine camuffate da Manhattan. Invece Dangerous Game è internazionale, un film che potresti vendere a Roma come a Los Angeles, ben fatto, avvincente e concorrenziale con produzioni molto più ricche a stelle e strisce.

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poliziotto pazzo

Certo la trama, come detto è quella che è, l’ossessione di un poliziotto verso un gruppo di ragazzi, una cosa che poteva essere anche buona se Hopkins avesse confezionato un horror urbano alla Maniac cop, ma invece sul piano omicidi contiamo una sola vittima e pure uccisa per sbaglio. Non ci siamo di certo, ma il film funziona inaspettatamente non per come viene venduto, uno slasher, ma per quello che effettivamente è, un action.

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horror

Come detto le morti sono esigue, ma è quando il gruppo di ragazzi si trova bloccato all’interno di un centro commerciale con questo maniaco armato di tutto punto che vuole ucciderli per mettere a tacere l’omicidio commesso, che il film ha una vera impennata. Così Hopkins si sbizzarrisce in scene incredibili come un combattimento su un cornicione o l’arrivo di una moto che demolisce al rallenti vetrine, una gioia per gli occhi fatta di oggetti che saltano, acrobazie e proiettili sparati, una cosa che ti aspetteresti da John McTiernan ma non da un regista venuto dalla Culandia.

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esplosioni

Gran lavoro lo fanno anche le scenografie con parti del centro commerciale, come il reparto pupazzi, che sembrano usciti da Poltergeist di Hooper o ancora questi manichini onnipresenti che ti riportano agli zombi romeriani, il modello più evidente insieme al Die Hard di un anno prima.

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combattimenti

Il poliziotto schizzato interpretato, con forse troppo trasporto, facce caricaturali comprese, da Steven Grives ha connotazioni abbastanza inusuali per un cattivo da imitazione americana: non il solito reduce del Vietnam disturbato ma un ex militare irlandese.

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Su imdb è segnata la presenza anche di un co-regista, tale David Lewis, direttore della fotografia ne Le colline hanno gli occhi 2 e La notte dei demoni. Da nessun’altra parte questa notizia viene confermata, anche se, sempre nei credits, è inserito lo sceneggiatore Jon Ezrine come autore del materiale aggiunto. Sarebbe interessante sapere cosa diresse David Lewis e perché, se le scene ulteriori furono pianificate per rendere più vendibile il film all’estero, magari calcando sulla componente horror splatter, ma non ci risultano versioni alternative della pellicola.

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Siamo in un thriller che incarna perfettamente gli anni 80, a cominciare dai capelli e gli abiti assurdi dei protagonisti fino alla visione ridicola, mutuata dal serial I ragazzi del computer, dell’avveniristico mondo dei pc, allora ad un passo dalla fantascienza.

Per il resto però abbiamo un thriller action ben recitato, purtroppo anemico, ma che riesce comunque a divertire. Forse, vista l’ultima scena, gli autori pensavano ad un seguito, ma l’anno dopo Stephen Hopkins era già con un biglietto di sola andata per l’America, pronto a lisciare le unghiacce di Freddy Krueger. Lui in Australia, a lavorare, nel bene o nel male, non ci è più tornato.

NB Questo Dangerous game è uno dei tanti titoli conosciuti in Italia come Giochi pericolosi insieme a  Pentathlon con Dolph Lundgren e il Sex crimes di John McNaughton. Il dvd Quadrifoglio è ai limiti dell’accettabile (4:3 e audio da vhs), ma viene venduto sui 7 euro, quindi, se avete voglia di vedere il film di Hopkins senza piratare, non avete scuse!

Andrea Lanza

Giochi pericolosi

Titolo originale: Dangerous game

Anno: 1988

Regia: Stephen Hopkins

Interpreti: Miles Buchanan, Marcus Graham, Steven Grives, Kathryn Walker, Sandie Lillingston, John Polson, Max Meldrum, Robbie McGregor, Susan Stenmark, Terry Flanagan, Peter West, Christopher Dibb, Raquel Suarstzman 

Durata: 98 min.

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The Faculty

12 martedì Mar 2019

Posted by andreaklanza in alieni, azione, B movie gagliardi, F, Recensioni di Andrea Lanza

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aliene nude, Bebe Neuwirth, Clea Duvall, Elijah Wood, Famke Janssen, Jordana Brewster, Josh Hartnett, kevin williamson, Laura Harris, Piper Laurie, Robert Patrick, robert rodriguez, salma hayek, scream, Shawn Hatosy, so cosa hai fatto, The faculty

E’ il 1998 quando Robert Rodriguez termina The faculty. Siamo ancora lontani dai fasti e dalle miserie che lo porteranno a girare Sin city e gli Spy kids, dagli esperimenti quasi pionieristici con le videocamere digitali al grido di rivalsa di un simpatico cazzaro con talento che ora vuole essere considerato artista.

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Robert nel 1998 ha alle spalle il piccolo miracolo di El mariachi, girato con i soldi della mancia della nonna e venduto in tutto il mondo, uno strepitoso Desperado, l’amicizia nascente con Tarantino, e poco più. Anzi un po’ di più sì: è bravo, bravo da far paura, a livello tecnico è uno dei migliori registi sbarcati in America, qualcosa a metà tra il Sam Raimi più folle e il John Woo dei bei tempi passati, più bravo tecnicamente per esempio del buon Quentin. Il 1998 segna il suo incontro con un’altra promessa del cinema, questa volta horror, quel Kevin Williamson che scriverà Scream, So cosa hai fatto, metterà le mani sulla saga di Halloween, proverà a fare malamente il regista per poi sparire come un fuoco di paglia tra serie tv e insuccessi cinematografici, Alita compresa.

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Ma il 1998 è ancora il suo anno, la stella di Williamson brilla forte ad Hollywood, ed ecco che incrociando quella di Rodriguez i due partoriscono questo The faculty. Chiariamo ogni dubbio non stiamo parlando di un capolavoro, non lo era nel 1998, non lo è alle soglie del 2020, ma di un onesto film che nella sua ora e tre quarti riesce a spaventare, divertire ed appassionare. E’ il prodotto di serie B che ha una sua dignità, che non ha pretese diverse dal raccontare una storia che intrattenga, quel prodotto medio che forse ora non esiste più e se esiste viene rivestito d’oro come Jennifer’s body, ma che risulta più onesto e meno intellettualoide nel suo finto citazionismo di, per esempio, un Planet terror.

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The faculty inizia citando L’invasione degli ultracorpi con questi alieni che si sostituiscono ai pacifici abitanti di una cittadina perché, come dice uno dei protagonisti, “Se tu fossi un extraterrestre incominceresti dalla casa bianca o da un paesino dove poter fare con comodo?” Gli alieni di Rodriguez e Williamson vengono tratteggiati in maniera anomala rispetto al prototipo siegeliano: bevono acqua in quantità industriale, non esitano ad usare armi bianche per sottomettere i futuri involucri di carne e mantengono le emozioni. Ma non sono meno pericolosi: annullano la volontà del corpo ospite per immettere la propria volontà, i propri pensieri, il proprio vissuto, quindi gli umani diventano solo vestiti per extraterrestri.

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Ed è qui che arriva il colpo di genio, l’unico modo per sconfiggerli è strafarsi, sniffare droga, perché gli alieni ne saranno avvelenati. Ecco che in un gioco citazione de La cosa di John Carpenter i ragazzi protagonisti si troveranno, pistola puntata alla testa, a drogarsi per capire chi è il mostro. Un calcio al politically correct hollywoodiano: i nuovi eroi sono gli outsider, la (finta) lesbica, l’atleta con velleità intellettuali, il nerd, lo spacciatore, con un’unica arma per sopravvivere, sballarsi. Ecco quindi che The faculty acquista una propria dignità più del facile gioco delle citazioni, il reclutare nel cast la Piper Laurie di Carrie per ritagliarle un ruolo di cattiva, le battute metacinematografiche che tanto piacciono allo sceneggiatore, l’aria da complotto anni 50, perché The faculty grida una propria originalità di fondo che sublima ogni spunto passato nella contaminatio di essi. Gran cast con Robert Patrick (Terminator – il giorno del giudizio), Famke Janssen, la Fenice di X men, Jordana Brewster di Fast and Furious, Eliah Wood prima de Il signore degli anelli, Josh Hartnett pre Scarlet Johansson e Brian De Palma. La bella e nudissima Laura Harris invece ha fatto niente o quasi nel futuro, ma va a lei il dialogo finale più riuscito, la performace che si ricorda di più, quasi un ruolo citazione di Space Vampires di Tobe Hooper. “Alla fine noi vinciamo e voi perdete”. Non questa volta, baby.

NB La versione integrale originale del film includeva un personaggio di nome Venus (interpretato da Kidada Jones) presente in circa cinque scene, poi tagliata al montaggio. Viene mostrata però in alcuni spot e in una pubblicità di jeans con tutto il cast. La si può notare in una scena nella versione vulgata mentre sta guardando con i suoi amici, ovvero i protagonisti del film, la “nuova specie” nell’acquario.

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Kidada, prima di essere trombata al montaggio, che ride spensierata col resto del cast

Andrea Lanza

The faculty

Anno: 1998

Regia: Robert Rodriguez

Interpreti: Elijah Wood, Jordana Brewster, Clea Duvall, Laura Harris, Josh Hartnett, Shawn Hatosy, Robert Patrick, Famke Janssen, Piper Laurie, Salma Hayek, Bebe Neuwirth

Durata: 104 min.

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Allarme rosso

24 mercoledì Ott 2018

Posted by andreaklanza in A, azione, B movie gagliardi, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza, zombi

≈ 4 commenti

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1985, allarme rosso, Cynthia Carle, Dean Cundey, fog, G.W. Bailey, Hal Barwood, halloween, Hugh Wilson, J. Patrick McNamara, Jack Thibeau, Jeffrey DeMunn, Jerry Hardin, john carpenter, Kathleen Quinlan, Kavi Raz, Keith Szarabajka, la cosa, Leslie Nielsen, Richard Dysart, Rick Rossovich, Sam Waterston, Scott Paulin, scuola di polizia, Tom McFadden, Yaphet Kotto

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La trama

Con Allarme rosso non stiamo parlando del bel thriller sottomarino di Tony Scott, ma di un misconosciuto (e interessante) horror (quasi) zombesco del 1985.

Devo dire che, pur avendo affittato milioni di vhs negli anni 80/90, di questo film, uscito all’epoca per la CBS FOX, non ne ho nessun ricordo, probabilmente non mi capitò mai tra le mani.

Quindi, su invito dell’amico Andrea Bianchi, ho deciso di recuperarlo grazie ad un ottimo dvd della Koch Media dalla copertina non proprio invitante.

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Diciamo pure che la copertina dvd fa schifo

Non sapevo che aspettarmi ed è stata una sorpresa trovarmi davanti ad una pellicola a suo modo anticipatrice di umori che saranno alla base di cult futuri come il 28 giorni dopo di Danny Boyle.

Nulla mi toglie dalla testa che più che più che al The crazy (La città verrà distrutta all’alba) di George A. Romero,  con la stessa idea di un virus che rende folli le persone, il regista Hal Barwood con lo sceneggiatore Matthew Robbins, abbiano guardato al lenziano Incubo sulla città contaminata. Idea non sballatissima, forse, visto che il serrato horror nostrano del 1980 sbarcò, stando a credere a IMDB, negli USA il 18 Novembre 1983 come Nightmare city. In più questi pazzi assassini e sadici che usano come armi le asce antincendio per far fuori le persone sono proprio, casualità o meno, figli proprio di quegli infetti assetati di sangue, comandati in entrambi i film  da uno scienziato ancora più fuori di testa.

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Quello però che differenzia Allarme rosso da un clone di Lenzi o Romero è l’idea brillante di creare uno strano mix tra elementi eterogenei: uno figlio di questa corrente zombi non zombi, l’altra invece parto, o aborto, di pellicole più realiste come Silkwood di Mike Nichols e Andromeda di Robert Wise. Per farvi capire meglio: mentre fuori c’è un dispiegamento di militari che cercano di arginare la minaccia batteriologica con un approccio serio alla Virus letale di Wolfgang Petersen, dentro, nel laboratorio, dove l’epidemia si è moltiplicata, c’è una vera Notte dei morti viventi con questi infetti che a volte sono veloci e a volte camminano più lentamente di un resuscitato del 1943 di Jacques Tourneur.

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Il mescolone però è stranamente saporito: non annoia nelle parti seriose, ed è abbastanza emozionante in quelle horror con personaggi non proprio tagliati con l’accetta e dialoghi per lo meno scritti con un certo gusto. Ad un certo punto, per esempio, lo sceriffo protagonista, interpretato tra l’altro da un Sam Waterston (Urla del silenzio di Joffè) spaesato (e fuori parte) come pochi, mostrerà tutta la sua umana codardia, lui che dovrebbe essere l’eroe, quando, nel calarsi attraverso un impianto d’aerazione verso, forse, morte certa, tentennerà non poco con frasi come “Non ce la faccio“o “Ho paura“. Contando oltretutto che la missione è quella di recuperare la fidanzata prima che dei pazzoidi la facciano a pezzi, non è che questo gli renda particolare onore. Però il suo comportamento certo dona al personaggio un’inaspettata (e simpatica) umanità. In quanti ci saremmo d’altronde cagati addosso all’idea di addentrarci in un luogo pieno di assassini, amore o non amore? Per dirla alla Gialappa’s: “Chi non alza le mani è un  sacripante”, io per primo.

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La regia di Hal Barwood è molto buona e tanto deve però, come resa finale, alla straordinaria fotografia color pastello di Dean Cundey, uno che qualche anno prima aveva lavorato per cult horror incredibili come Halloween, La cosa e Fog di John Carpenter.

Gli attori sono, a parte il già citato Waterston, tutti abbastanza in parte. Fa sorridere però, soprattutto per chi è fan di Scuola di polizia, la presenza di G.W. Bailey, il sergente Harris del cult di Hugh Wilson, in un ruolo serio. Siamo sempre in attesa che urli sguaiatamente “Proctor, razza di imbecille, dove ti sei cacciato!“. Cosa che per fortuna non accade, ma si sa, come nel caso di Leslie Nielsen, alcuni ruoli sono per sempre, anche quando sei portato per essere un bravo attore drammatico.

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Proctor!!!!

Sul versante sangue siamo scarsini, ma la produzione sembra più alta, sia come ambizioni che come budget, di un qualsiasi horror splatter di cassetta dell’epoca. Peccato perché si fosse più calcato la mano sulla violenza, un po’ sulla scia del modello di Lenzi, il film ne avrebbe sicuramente guadagnato.

Leggenda vuole che nella sceneggiatura la ditta di fertilizzanti, scenario della vicenda si chiamasse Biotech, ma per evitare casini con aziende omonime, la si ribattezzò Biotek.

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Noi di Malastrana vi consigliamo il recupero di questo film. Un probabile cult purtroppo mai diventato cult che meriterebbe maggiore fama. Fateci sapere poi se vi è piaciuto.

Andrea Lanza

Allarme rosso

Titolo originale: 

Anno: 1985

Regia: Hal Barwood

Interpreti: Sam Waterston, Kathleen Quinlan, Yaphet Kotto, Jeffrey DeMunn, Richard Dysart, G.W. Bailey, Jerry Hardin, Rick Rossovich, Cynthia Carle, Scott Paulin, Kavi Raz, Keith Szarabajka, Jack Thibeau, J. Patrick McNamara, Tom McFadden

Durata: 99 min.

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La fine del gioco

11 mercoledì Lug 2018

Posted by andreaklanza in action, azione, drammatici, F, Recensioni di Andrea Lanza

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Al Shannon, Arlen Dean Snyder, Bill Duke, Charlie Sheen, Clare Wren, Claude Earl Jones, D.B. Sweeney, Danitza Kingsley, George Dzundza, Guy Boyd, Henry G. Sanders, James F. Kelly, Kenny Endoso, La fine del gioco, Lara Harris, Linda Carol, Linda Shayne, Lori Butler, M. Emmet Walsh, Michael Riley, No Man's Land, Peggy McCay, Peter Werner, R.D. Call, Randy Quaid

“La Lamborghini è spazzatura italiana, io rubo solo Porsche”

(Charlie Sheen/Ted Varrick)

“Benvenuti nel triplo gioco”

(Dal trailer)

La fine del gioco è un poliziesco molto ben fatto di fine anni 80, uno di quei piccoli grandi film del quale non parla nessuno ma che a loro modo hanno influenzato il cinema più celebre a venire.

Il titolo originale No Man’s Land, Terra di nessuno, è di certo più suggestivo di quello italiano, uscito e morto in una vhs Columbia dopo un esordio non memorabile nelle sale.

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Non che in patria fece questi grandi incassi: fu un flop abbastanza consistente, 2 milioni d’incasso su 8 di budget, anche se divenne un piccolo cult dell’home video.

La fine del gioco ha un bel cast di attori: Charlie Sheen come ragazzo cattivo che ruba le auto, il D.B. Sweeney di Bagliori bel buio nella parte di uno sbirro sotto copertura affascinato dal crimine, Randy Quaid come tenente di polizia paterno ma sempre arrabbiato, e, in un ruolo marginale, il Bill Duke di Predator e Commando. Non c’è male, no?

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Il regista Peter Werner dichiarerà, negli extra del blu ray americano, che la Orion Pictures congelò il film per qualche anno facendolo uscire solo dopo il successo di Platoon di Oliver Stone. All’epoca delle riprese, che dovrebbero essere tra il 1985 e il 1986, Charlie Sheen era un signor nessuno, conosciuto per ottime pellicole giovanili come il fantascientifico Il replicante (sempre con Randy Quaid), il drammatico I ragazzi della porta accanto e naturalmente Alba rossa di Milius. Werner è sicuro che l’attore, dopo Platoon, non avrebbe mai accettato di partecipare ad un film a budget così basso.

In La fine del gioco ci sono tutti i semi del Fast and furious che nel 2001 farà impazzire il pubblico di tutto il mondo: l’amicizia tra uno sbirro e un criminale entrambi fissati con le auto (qui solo Porsche), le corse spericolate, persino la Corona come birra consumata e, dulcis in fundo, la sorella del delinquente che si innamora del poliziotto. Certo il film di Rob Cohen non è La fine del gioco, ma diciamo che nell’aspetto gli somiglia moltissimo.

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Il titolo originale si riferisce a quella Terra di nessuno, senza regole, che risucchia il protagonista, uno stile di vita spericolato, vissuto ai limiti, fatto di auto rubate, di soldi e donne. E’ il confine tra quello che si desidera e quello che si ha, a rendere molto interessante il personaggio di D.B. Sweeney, sempre lì lì sul punto di perdersi in quella parte che dovrebbe solo recitare. Il Ted Varrick di Charlie Sheen, più manipolatore, è sicuramente meno interessante, ma ha nel finale, da noir anni 40, il suo riscatto tragico e sanguinoso dal sapore di melodramma disperato.

Come un anomalo teen movie, La fine del gioco è un racconto di formazione che ci presenta un ragazzo e il suo percorso di dure scelte per diventare uomo. Quello che Randy Quaid chiama “novellino”, che i colleghi sfottono per l’eccesso di zelo in servizio, pensa, agisce, si muove come uno di quei criminali che deve arrestare, e alla fine sceglie, dopo aver amato il buio, la luce.

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Nel ruolo della sorella di Sheen si fa notare la bellissima Lara Harris, un’attrice molto valida, ma anche poco sfruttata al cinema, che ritroveremo nel bizzarro La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam. Tra le cose curiose della sua carriera però citiamo la partecipazione al seguito di Johnny Mnemonic, The Interactive Action Movie, un interessante videogame del 2001 con attori campionati.

Peter Werner si dedicherà soprattutto alla televisione e questo La fine del gioco si può considerare, con la serie brucewilliana Moonlighting, il suo lavoro migliore. Sicuramente nella sceneggiatura di Dick Wolf, creatore di Law & Order: Unità Speciale, c’era il modello Miami vice, del quale scrisse 12 episodi, e il suo mondo di auto lussuose, vestiti firmati e criminali poliziotti.

Senza dubbio un poliziesco da recuperare, invecchiato davvero benissimo.

Andrea Lanza

NOTA: Brad Pitt fa una comparsa di qualche secondo come cameriere ad un party. Dovrebbe essere il suo primo ruolo.

 

La fine del gioco

Titolo originale: No Man’s Land

Anno: 1987

Regia: 

Interpreti: Charlie Sheen, D.B. Sweeney, Lara Harris, Randy Quaid, Bill Duke, R.D. Call, Arlen Dean Snyder, M. Emmet Walsh, Al Shannon, Lori Butler, Kenny Endoso, James F. Kelly, Linda Carol, Clare Wren, Claude Earl Jones, George Dzundza, Peggy McCay, Danitza Kingsley, Linda Shayne, Guy Boyd, Henry G. Sanders, Michael Riley

Durata: 105 min.

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