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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Wanted – Vivo o morto

27 martedì Ago 2019

Posted by andreaklanza in action, azione, B movie gagliardi, il grande freddo, Recensioni di Manuel Ash Leale, W

≈ 13 commenti

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blade runner, gary sherman, monologo, rutger hauer, wanted vivo o morto, Wanted: Dead or Alive

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…”.

Lo conoscete tutti, vero?

Il monologo che, nel finale di Blade Runner, consacra un attore olandese scortandolo nella Storia del Cinema. Quante cose si sono dette e scritte sul film di Scott, quante su quel monologo che spesso è citato da chi nemmeno sa cosa sia Blade Runner. La maledizione dello spettatore medio: non so di cosa parlo, ma lo faccio molto bene. Una situazione che non si è certo fermata al 1982, ma che pure attualmente miete vittime illustri, come i supereroi Marvel indossati da gente che, fino al giorno prima, dava del nerd sfigato al lettore di comics. Croce e delizia della potenza cinematografica, suprema e dannata democrazia della settima arte. Ma non sottraiamoci al gioco, il monologo di Blade Runner è troppo iconico, facile riconoscerlo. “Trova lei e troverai il lupo che cerco, il lupo che voglio…il lupo che la ama”. Troppo facile anche questo, sono sicuro che abbiate detto Ladyhawke in poco tempo. Facciamola più difficile: “Io non sono un criminale, sono un soldato e come un soldato merito di morire” – “Tu non sei un soldato, tu sei un insetto su un mucchio di merda”. Vi lascio un minuto, ma niente Google, non vale.

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A chi di voi ha indovinato vanno i miei complimenti, mi tolgo il cappello, non è facile. A tutti gli altri, perlomeno a coloro che non sono dei piccoli e ridicoli poser, do un nome, una data e un titolo: Rutger Hauer, 1986, Wanted: Dead or Alive. Come ho scritto poco prima non era facile, questo film non è certo tra i più famosi interpretati da Hauer e forse proprio per questo risulta tanto interessante. Diretto da Gary Sherman, regista di Morti e sepolti, Poltergeist 3 e Lisa… sono qui per ucciderti!, con il dolce visetto di Staci Keanan, Wanted si colloca nei classici action anni ’80, dove il nostro eroe di turno, sicuro di sé e imbattibile, fa piazza pulita dei nemici. Con più gusto se questi sono stranieri stereotipati che vogliono colpire la santa madre America. Cliché a parte, fate pace con voi stessi a riguardo, il razzismo spiccio derivante dalla società degli eighties è sempre un curioso leitmotiv, ed è incredibile come chi sia cresciuto in quegli anni ci passi sopra, menefreghismo a palate, vogliamo i terroristi cattivi crivellati di colpi. Se prima il nemico aveva gli occhi a mandorla, ora ha la pelle olivastra. Dio benedica l’occidente!

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Il film di Sherman decide che la minaccia debba arrivare dal Medioriente e per darle il volto sceglie il bassista e cantante della hottest band in the world: Gene Simmons. È meraviglioso pensare che a interpretare un terrorista arabo si scelga un uomo nato ad Haifa, in Israele. Ma Simmons può tutto, come ogni fan dei KISS sa bene e qui, cattivissimo e senza scrupoli, si mette anche in testa di uccidere Rutger “carisma” Hauer. Riuscito, infatti, ad atterrare negli Stati Uniti, Malak Al Rahim organizza un piano per seminare il caos e, scoperto che il suo vecchio nemico, Nick Randall, è in città opta per farla pagare anche a lui. Randall, stereotipo dell’americano che vive in un magazzino strabordante armi, è un ex della CIA ora cacciatore di taglie. Lo scontro è assicurato. D’accordo, penso a questo punto sia chiaro come Wanted rispecchi tutti i dettami di quel genere di action tanto amato negli eighties. Ma questo non gli impedisce di essere straordinariamente godibile, di avere l’incredibile capacità di non perdersi in ciance e di mantenere un ritmo abbastanza sostenuto per tutta la durata.

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La regia di Sherman non è da strapparsi i capelli, ma in centosei minuti fa il suo dovere basico, riuscendo persino a piazzare un paio di inquadrature accattivanti. Non che servano, siamo sinceri, tutto quello che si chiede e si vuole vedere in un film così sono battute sagaci, cazzotti e sparatorie. Dateci questo, e potremmo anche soprassedere ai difetti che caratterizzano produzioni con un budget che solo un Craig R. Baxley potrebbe trasformare in oro. Wanted fa il suo dovere e lo fa grazie, e soprattutto, al suo attore protagonista. Rutger Hauer è conosciuto solo per poche produzioni, quelle commercialmente più appetibili, siano Blade Runner, The Hitcher o Ladyhawke e certamente negli ultimi anni il suo viso è apparso quasi solo in piccoli ruoli. Tuttavia è un crimine non riconoscere la grandezza di un attore capace infondere carisma, fascino e credibilità in ogni ruolo. E allora lasciamo perdere per un attimo ciò che l’ha reso famoso, lasciamo gli androidi e i cavalieri lupo. Detective Stone, Furia cieca, I falchi della notte, La leggenda del Santo Bevitore, I colori della passione, film diversi, budget diversi, personaggi diversi. Ma con la stessa identica passione, professionalità e impegno.

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Arrivati qui forse è chiaro che la recensione di Wanted è una scusa. Già, perché a Luglio 2019 Rutger Hauer ha lasciato questo mondo infame, in silenzio, da gran Signore qual è sempre stato. E allora noi, quelli della mia generazione e delle generazioni vicine, ci siamo ritrovati con un pezzetto d’infanzia e adolescenza rubato. Perché quando il cinema ti scorre dentro capita di crescere con film che, in qualche modo, ti segnano e gli attori che li interpretano acquistano un’aura unica. Diventano amici, compagni di vita, affettuosi punti saldi nei periodi tumultuosi dell’esistenza. Perderli significa perdere un pezzetto di noi, anche se siamo così fortunati da poterli ritrovare ogni volta che vogliamo. Magia del Cinema.

Onore a te, Rutger Oelsen Hauer, noi qui proseguiamo la lotta.

Manuel “Ash” Leale

Wanted: vivo o morto

Titolo originale Wanted: Dead or Alive

Regia: Gary Sherman

Interpreti: Rutger Hauer, Robert Guillaume, Gene Simmons, Sam Elliott

Durata 106 min. – USA 1987.

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Beast within

20 martedì Ago 2019

Posted by andreaklanza in alieni, B movie gagliardi, fantascienza, licantropi, mostriciattoli, Recensioni di Andrea Lanza, scifi horror, splatteroni

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animali, australia, cinema, horror, howling, l'ululato, licantropi, lupo, mora, oz, recensione, recensioni, stupri bestiali, un lupo mannaro americano a londra

Malastrana appoggia completamente il progetto Notte horror, un tributo settimanale dove i blog di cinema più gagliardi recensiscono i film apparsi sul mitico ciclo di Zio Tibia. Stasera per esempio si affronteranno il bellissimo Cimitero vivente e l’altrettanto figo Deliria col gufo assassino di Michele Soavi. Intanto noi di Malastrana abbiamo deciso di iniziare parallelamente una rubrica a cadenza settimanale a tema horror: Le notti mai viste di Zio Tibia, ovvero film horror inediti su ogni supporto che avrebbero potuto essere pane per i denti delle notti d’estate di Italia uno. Stasera tocca ad un film bellissimo, anni 80, sui licantropi o meglio sulle cicale mannare, girato da un  regista famoso per aver girato gli Ululati peggiori, il 2 e il 3.

Via con la sigla, in questo mondo alternativo di film mai trasmessi è la sigla del cartone più terrorizzante di sempre, Bem il mostro umano.

Strano film questo Beast within, forse l’opera più interessante dell’australiano Philippe Mora, che si macchierà in seguito di abominevoli horror (The Howling 2 e 3) e altrettanto orribili film di fantascienza (2049, L’ULTIMA FRONTIERA con Joanne Chen e Rutger Hauer). Strano perché inclassificabile come genere: ad occhio distratto trattasi di un film licantropesco, d’altronde gli elementi sono quelli, la luna piena, la metamorfosi da uomo in bestia, gli omicidi ferini, ma più vicino come concetto, soprattutto nel make up del mostro, ad una fantascienza anni 50, pur essendo troppo fuori tempo massimo per appartenervi.

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La sceneggiatura del bravo Tom Holland, uno che in seguito girerà due cult movie come Ammazzavampiri e La bambola assassina, non è rozza, ma ricca di sottotesti, soprattutto sessuali, arrivando a dipingere le vittime del mostro come altrettanti mostri, il becchino in odore di necrofilia, il padre che ama troppo morbosamente la figlia adolescente (in una scena che culmina con un abbraccio passionale tra i due), un giornalista con tendenze pedofile (la frase “Come ti piace la carne?” detta al ragazzo protagonista), tutti elementi lasciati in ombra, ma che conferiscono a Beast within un’aria malata al di fuori delle scene di stupro mostruose che lo contraddistinguono. A questo aggiungiamo che la regia di Philippe Mora è nel complesso buona, quando i suoi standard sono tra il mediocre e il disastroso, e si può pure perdonare qualche faciloneria evitabile di sciattezza nella messa in scena (la fasciatura grondante sangue che il dottore non cambia mai tutto nell’ultima parte).

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Il make up del mostro è anticipatore de La mosca di Cronenberg, ma anche debitore di Curse of the Fly di Don Sharp, con un’idea, a livello effettistico, di fare ibrido tra look classico e moderno, tra scifi vecchio stile e la trasformazione della carne tipica degli anni 80. Il lavoro di morphing di Thomas R. Burman è fantastico, impressionante e quasi inaspettato in un film che tutto sommato dal cast senza sorprese e dagli autori poco più che esordienti lasciava credere ad un’innocua serie B. Cosa che sicuramente è Beast within, ma di certo non innocua, perché si ritaglia un posto magico negli horror 80 per i temi maturi trattati (lo stupro come abbiamo detto, ma anche la paura nascente per l’AIDS e il contagio sessuale), ma anche per l’idea di un mostro cicala antropomorfo, unico a quanto ricordi in tutta la storia del cinema del terrore. L’inedito tema naturalistico a muovere le azioni della belva, il suo contatto con gli insetti (“Stava ore a parlare con il bosco e tutto quello che conteneva”) rendono sicuramente il film di Mora un’opera poco conosciuta (in Italia non è mai stata editata), ma meritevole di una riscoperta.

Andrea Lanza

The beast within

Anno: 1982

Regia: Philippe Mora

Cast: Ronny Cox, Bibi Besch, Paul Clemens, Don Gordon, R.G. Armstrong, Katherine Moffat, L.Q. Jones, Logan Ramsey, John Dennis Johnston, Ron Soble, Luke Askew, Meshach Taylor, Boyce Holleman, Natalie Nolan Howard, Malcolm McMillin

Durata: 90 min.

Inedito in Italia

Hellraiser revelations

13 martedì Ago 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, H, Recensioni di Andrea Lanza, Seguiti direct to video, splatteroni

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hellraiser revelations

Malastrana appoggia completamente il progetto Notte horror, un tributo settimanale dove i blog di cinema più gagliardi recensiscono i film apparsi sul mitico ciclo di Zio Tibia. Stasera per esempio si affronteranno il (bel) remake americano di Ringu e il classico Changeling di Medak. Intanto noi di Malastrana abbiamo deciso di iniziare parallelamente una rubrica a cadenza settimanale a tema horror: Le notti mai viste di Zio Tibia, ovvero film horror inediti su ogni supporto che avrebbero potuto essere pane per i denti delle notti d’estate di Italia uno. Stasera tocca ad uno degli Hellraiser più sfigati, il Revelations, quello con l’anima più da straight to video miserabile, ma anche uno dei più interessanti da tanto tempo a questa parte.

Via con la sigla, in questo mondo alternativo di film mai trasmessi, in piena nostalgia da Festivalbar, è il compianto Giorgio Faletti nella terribile Ulula col make up da I Was a Teenage Werewolf is del 1957.

Steven e Nico, due amici inseparabili, decidono di partire per il Messico e fare una vacanza a base di bevute e ragazze, filmando le tappe del viaggio. Una sera vengono attaccati da una misteriosa figura e svaniscono nel nulla. Le autorità non possono fare altro che comunicare la cosa alle famiglie, inviando loro anche le registrazioni del viaggio dei due giovani. Emma, sorella di Steven, trova tra gli oggetti del fratello una misteriosa scatola con decorazioni dorate che sembra un rompicapo. Manipolandola, riappare Steven, coperto di sangue. E’ l’inizio di un incubo…

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Vedere Hellraiser Revelations è assistere a uno spettacolo quasi di contrabbando, una sorta di snuff movie negato ai più. La storia dietro al film è un piccolo film a se stante che poteva terminare peggio di come è andata. Si perché il tanto detestato, dai fan, dai produttori, dai critici, dallo stesso Barker, Hellraiser revelations si rivela alla fine opera buonissima che sublima il bassissimo budget a disposizione con una storia avvincente, capace di rileggere con efficacia il primo capitolo della serie. Eppure all’inizio il motivo che ha spinto i produttori della Dimension, o meglio della sua sottocasa per horror diretti in video, Dimension extreme, a mettere in cantiere un nono episodio della saga del cenobita dalla testa di puntaspillo è solo e meramente commerciale. Infatti troppi anni erano passati dal brutto Hellraiser hellword e i diritti sul marchio stavano per scadere, cosa imperdonabile anche perché un remake ad alto budget del primo film era accarezzato da troppo tempo senza concretizzarsi.

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Fare un altro Hellraiser di poco conto significava avere tempo per il progetto più ambizioso, anche in fretta e furia e senza crederci molto. Venne quindi contattato il regista più abile in circolazione nel giostrarsi con seguiti dal budget nullo, il Victor Garcia di Mirrors 2 e Return to the house on haunted hills, costretto ad improvvisare un canovaccio scritto forse su qualche centimetro di carta igienica, con appena i dollari giusti per comprarsi un panino alla salamella nel chiosco del Vuncio.

hell5 Doug Bradley, il Pinhead storico di Hellraiser, fiuta la fregatura e si da’ alla macchia: si opta per il meno conosciuto Stephan Smith Collison, gigionesco e fuori parte pltre misura. Il film ha destino davvero sfortunato: vive un futuro di oblio, solo un Festival sperduto in Texas, e due anni quasi di nulla, dove lo stesso Garcia si chiede che fine abbia fatto la sua creatura. Poi, magia delle magie, il film riappare, solo in dvd insieme ad un altro seguito di basso profilo della Dimension extreme, Children of the corn genesis, ottenendo critiche feroci da tutto il globo. Che Hellraiser revelations non sia un capolavoro è un dato di fatto: troppo povero, troppo gratuito nel suo gioco al massacro, troppo inconsistente per gareggiare con i grandi capitoli della serie, il primo di Barker e il secondo di Randel, eppure dotato di un fascino tutto suo.

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Non proprio il miglior Pinhead

La prima parte, quella a Tijuana, è anche quella più originale, si gioca con la moda dei mockumentary e si da’ una nuova dimensione alla serie, più giovanile, meno pomposa, sicuramente più barkeriana nell’anima di tutti i seguiti, dal terzo in avanti. Non si lesina nel sangue, nel sesso, si remakizza l’Hellraiser originale ribaltando il rapporto tra due amanti con quello di due amici. Il finale è la parte più debole certo, ma nel complesso Garcia osa, in un film di basso profilo, a dare un tocco autoriale, ritrae una famiglia “american pie” con un occhio quasi fasshbinderiano, dove la scatola di Lemarchand, quella del dolore e del piacere, è solo l’imput per rovesciare un vaso di Pandora fatto di incesti taciuti e odi malcelati.

hell7Ecco la famiglia mostruosa, che in Hellraiser comprendeva Julia e l’amante Frank, si è ampliata e ha generato aborti di ipocrisia accomodante, quasi un rigurgito di horror troppo corretti politicamente, troppo pulitini che, dalla politica Bush in avanti, abbiamo sopportato in un cinema castrato e imbelle, così lontano dai fasti hardcore anni 80. Con Hellraiser revelations si ha certo il tassello meno perfetto, il più rozzo, ma anche il seguito più riuscito da molti anni a questa parte, tanto da collegarsi alla fine con l’immortale (e inavvicinabile) capolavoro barkeriano. I catecumeni della serie ne stiano lontani, ma chi non si accingesse con la puzza sotto il naso potrebbe anche divertirsi e non trovare questo nono capitolo tanto orribile come lo si descrive. Col decimo si è fatto peggio.

Andrea Lanza

Hellraiser: Revelation

Anno: 2011

Regia: Victor Garcia

Interpreti: Stephan Smith Collins, Tracey Fairaway, Nick Eversman, Jolene Andersen, Jay Gillespie, Sebastian Roberts

Durata: 75 min.

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Le notti mai viste di Zio Tibia: Dark ride

30 martedì Lug 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni

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Alex Sorowitz, amie Lynn-DiScala, Clayton Rogers, Craig Singer, Patrick Renna

Malastrana appoggia completamente il progetto Notte horror, un tributo settimanale dove i blog di cinema più gagliardi recensiscono i film apparsi sul mitico ciclo di Zio Tibia. Stasera per esempio si affronteranno il malsano American Gothic e, su queste pagine, il terribile Trucks, la versione scema di Brivido di Stephen King. Intanto noi di Malastrana abbiamo deciso di iniziare parallelamente una rubrica a cadenza settimanale a tema horror: Le notti mai viste di Zio Tibia, ovvero film horror inediti su ogni supporto che avrebbero potuto essere pane per i denti delle notti d’estate di Italia uno. Stasera tocca ad uno slasher fantastico, Dark ride.

Via con la sigla, in questo mondo alternativo di film mai trasmessi è Alice Cooper che canta Identity crisis, uno dei guilty pleasure di Malastrana vhs, Monster dog, ma cambierà ogni settimana

Dieci anni dopo aver brutalmente ucciso due giovani fanciulle, un pericoloso serial killer riesce a fuggire dall’istituto psichiatrico dove era stato rinchiuso, per tornare nel suo macabro covo, il Dark Ride, una sorta di tunnel dell’orrore dove si è divertito a trucidare decine di vittime. La fortuna vuole che proprio in quel momento un gruppo di giovani studenti in vacanza, decida di fare una visita al Dark Ride, elettrizzati dall’idea di addentrarsi in quel luogo ancora avvolto dal terrore.

Di Craig Singer conoscevamo un solo film: Perkins’14, una pellicola cupissima, creata grazie ai consigli dei fan raccolti via internet. Caso più unico che raro e, forse anche per questo, esempio di cinema irripetibile che spezza il velo di maia tra autori e spettatori.

Dark ride è l’opera precedente, un omaggio al Tobe Hooper de Il tunnel dell’orrore, un film splatter vecchia maniera come se ne giravano nei gloriosi anni 80, senza incursioni nel comico, un’opera talmente tesa e grondante sesso e sangue che quasi non ci si crede.

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Dark ride con i suoi colori accesi da vero luna park dell’orrore, con la sua straordinaria atmosfera e le budella mostrate senza paura, è una boccata d’aria fresca ai vari teen movie con ragazzi urlanti o alle masturbazioni mentali meta horror di vecchi tromboni alla Wes Craven.

Dark ride è un horror con tutti i crismi, un perfetto B movie del terrore che non ha alcuna pretesa che non sia quella di intrattenere in maniera onesta per un’ora e trenta.

C’era il pericolo di un prodotto estremamente banale, pieno di apparenti eterni cliché (ragazzi in fregola chiusi in un luogo isolato alla mercè di un maniaco deforme e mascherato), ma

1) il film non risulta mai, grazieiddio, noioso, anzi il ritmo concitato lo rende scorrevole e avvicente

2) la sceneggiatura di Robert Dean Klein, autore di almeno un capolavoro, Heart of America di Uwe Boll, riesce ad rielaborare il deja vu con colpi di scena frequenti e non banali.

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Dark ride, rispetto a tanti altri film con maggiori pretese, fa la sua porca figura di prodotto di cassetta riuscendo ad anticipare persino umori futuri del cinema horror, come il più recente The Hills Run Red, mettendo in scena una maschera se non uguale, molto simile al villain Babyface.

Siamo davanti ad una perfetta opera grindhouse senza i trucchetti di sgranatura o perdita di pellicola dei vari Rodriguez e Tarantino, un atto d’amore sincero verso il cinema del terrore passato.

Tanto di cappello a Craig Singer per questo. Consigliato.

Andrea Lanza

Dark ride

Regia: Craig Singer

Interpreti: Jamie Lynn-DiScala, Patrick Renna, Clayton Rogers, Alex Sorowitz

Durata: 94 min.

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Vivere nel terrore

09 martedì Lug 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, V

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andrew fleming, Ben Kronen, Bruce Abbott, bruce dern, Damita Jo Freeman, Dean Cameron, Elizabeth Daily, Harris Yulin, Jennifer Rubin, John Scott Clough, Louis Giambalvo, Missy Francis, notte horror, Richard Lynch, Sheila Scott-Wilkenson, Susan Barnes, Susan Ruttan, Sy Richardson, vivere nel terrore

Una premessa prima di questa recensione: da stasera Malastrana vhs insieme ai blog più fighi del mondo, roba che Jerry Calà ce li invidia, affronterà uno dei momenti più iconici della tv italiana, almeno per noi appassionati di horror, ovvero La notte horror di Italia Uno. Da quel lontano e afoso 1989 ne sono passati di titoli importanti, curiosi o, perché no, deliziosamente bruttini, in un’epoca senza internet, quindi senza poter attingere a qualsiasi film e affidandosi soltanto alle vhs, molte fuori catalogo, o ai ricordi da grande schermo. Erano gli anni dove Notte horror veniva introdotta da un pupazzo sardonico dalle fattezze del Creepy americano, prima con uno show che fungeva da Blob splatter, poi con una serie di titoli che spaziavano dal classico moderno (Ammazzavampiri, La cosa, Creepshow) per poi toccare i curiosi inediti come il disgustoso Ticks – larve di sangue o il gagliardo Waxwork – Benvenuti al museo delle cere. Con gli anni il simpatico Zio Tibia è scomparso e anche la qualità dei film è scemata, ma il ricordo di quelle notti rosso sangue al ritmo di Una rotonda di bare è sempre vivido e presente nel nostro cuoricino nostalgico.

Abbiamo deciso perciò di recensire quei film visti proprio durante quelle serate horror. Ogni blog ha scelto uno o più titoli.

Comincia il fratello Raptor Cassidy alle 21 con il bizzarro Stuff – il gelato che uccide del compianto Larry Cohen e alle 23 arriviamo noi con un classico non classico, Vivere nel terrore di Andrew Fleming, anno domini 1988. Si spengano le luci: lo spettacolo è dei più emozionanti.

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Il calendario con le uscite di tutte le recensioni dei film

Bad dreams è uno strano prodotto anni 80, dimenticato dai più ma che avrebbe meritato maggiore fama. Certo non si sta parlando di un film perfetto, ora come allora, nel 1988, ma di un horror dalla buona fattura, pieno di idee e di spunti interessanti. La pellicola inizia negli anni 70, nel periodo d’oro delle sette pacifiste, degli hippies e dell’amore libero. Una di queste, la Unity, predica la bellezza della morte, intesa come liberazione dalla prigionia della vita. Vediamo, nell’intro, i membri del gruppo sorridere, parlare di felicità eterna mentre stringono a loro i propri figli, in quella che sembra una cerimonia di battesimo. Non abbiamo idea però che il loro leader, il reverendo Franklyn Harris, stia usando non acqua ma benzina per benedirli. La strage è delle più crudeli: le fiamme devastano i volti, le persone urlano, ma una di loro, la giovane Cynthia, all’ultimo, cerca di scappare. La fortuna la premia, la cenere la ricopre, è viva. Solo che, dopo 13 anni di coma, si sveglia e non è sola: lo spirito del reverendo Franklyn Harris è tornato per lei.

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Gli echi al famoso massacro della Guyana che vide, a Jonestown, il pastore Jim Jones spingere al suicidio, nel 1978, ben 909 membri della sua setta, sono evidenti ma l’esordiente Andrew Fleming, all’epoca 23enne, non si limita a questo, ad una riproposta fantasy di un fatto di cronaca.

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Jim Jones, quello vero in carne e follia

Il modello per Bad dreams è senza dubbio il famigerato Nightmare on elm street che, in quello stesso 1988, celebrava il quarto fortunatissimo capitolo, diretto dal finlandese Renny Harlin, The Dream Master. La bellissima modella Jennifer Rubin non venne scelta ovviamente per caso: era stata un anno prima nel cast del precedente Freddy Krueger movie, interpretando efficacemente la tossica Taryn White. Se però il marchio della creatura di Wes Craven era un marcato umorismo, lo stesso non succedeva con Bad dreams, tesissimo e senza mai cedere alla parodia modaiola tanto cara agli adolescenti dell’epoca.

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E’ anche vero purtroppo che la pellicola di Fleming presenta delle coreografie di morte non molto ispirate, alcune persino fuori campo, un po’ poco per una pellicola che prometteva, fin dal titolo, “sogni cattivi”. Quello che però fa Bad dreams è concentrarsi sui personaggi, trasformando un canovaccio troppo simile a Nightmare 3 in qualcos’altro, una sorta di Qualcuno volò sul nido del cuculo in salsa splatter. Merito della sceneggiatura di Steven E. Souza, sceneggiatore del cult movie Die Hard ma anche regista dello sciagurato Street fighter, che rende la follia delle varie vittime, pazienti di un manicomio, più accurata psicologicamente della media del genere, distaccandosi anche, dai vari horror teen del periodo, nel presentare un cast di adulti e non solo ragazzini. D’altronde Bad dreams è un film interessante anche perché non si limita a sparare le sue cartucce con il solito body count, ma tenta di sorprendere il suo pubblico con un ribaltone alla M. Night Shyamalan prima che Shyamalah fosse probabilmente svezzato.

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Anche il cast di attori è eccellente, a partire dall’astro nascente dell’epoca Bruce Abbott (Re-animator), ma la parte del leone spetta ad un incredibile Dean Cameron, pazzo, autolesionista e dalla recitazione travolgente. Senza ovviamente dimenticare un mellifluo Richard Lynch nei panni bruciacchiati del reverendo malvagio. In bilico tra horror e thriller, più a suo agio con una violenza carnale alla Clive Barker, fatta di carne martoriata, che con coreografie estetizzanti alla Wes Craven, il film di Andrew Fleming è un prodotto che rivisto anche oggi non annoia. Ad accrescere poi il suo valore è una strepitosa colonna sonora di pezzi heavy metal (ma ad un certo punto si ascolta La Donna è Mobile di Giuseppe Verdi durante un cruento omicidio con un’auto). Nei titoli di coda, poi fa la sua potente figura il capolavoro dei Guns N’ Roses, Sweet child ‘o mine. A tal proposito sembra che il gruppo di Axl Rose e Slash, all’epoca non ancora così famosi, dovessero girare proprio un videoclip sul set di Bad dreams, ma la fidanzata del frontman della band si oppose: la canzone, scritta per lei, era romantica e non adatta ad essere imbruttita con le immagini di un horror splatter.

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Axl e una stronza, Erin Everly

Dopo questo film Fleming non ebbe una carriera importante ma diresse negli anni 90 almeno un cult movie generazionale, Giovani streghe. In Italia Bad dreams uscì al cinema con il titolo Vivere nel terrore ma non fu mai un cult movie, troppo strano forse e poco incline a fare l’occhiolino al pubblico teen. In più di solito viene confuso, per il titolo simile, con Dimensione terrore di Fred Dekker. A questo si aggiunga che non arrivò mai in dvd e morì solo nelle sue uscite in vendita e noleggio per la CBS FOX. Peccato.

NB Della pellicola esiste pure un finale scartato, molto efficace, che vede lo scontro finale tra Cynthia e il reverendo, spostando l’ago della bilancia dal thriller con venature horror all’horror puro. La produzione però optò solo per il finale vulgato.

Andrea Lanza

Vivere nel terrore

Titolo originale: Bad Dreams

Anno: 1988

Regia: Andrew Fleming

Interpreti: Jennifer Rubin, Bruce Abbott, Richard Lynch, Dean Cameron, Harris Yulin, Susan Barnes, John Scott Clough, Elizabeth Daily, Damita Jo Freeman, Louis Giambalvo, Susan Ruttan, Sy Richardson, Missy Francis, Sheila Scott-Wilkenson, Ben Kronen

Durata: 80 min.

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Night Watchmen

08 lunedì Lug 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, commedia horror, Recensioni di Andrea Lanza, splatteroni, vampiri

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butcher bros, mitchell altieri, pagliacci, pagliacci assassini, sangue, tette, the night watchmen, vampiri, zombi

La copertina di Night Wachtmen con il suo clown dalla dentatura bestiale è così efficace che fa subito scattare la campanellina del probabile film di merda. Sì uno di quei film così miserabili da avere come unica chance di vendita, da acchiappagonzi dell’home video, solo un buon illustratore.

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Fortunatamente non è così e ci troviamo invece davanti ad un buon horror comico dalla discreta fattura, splatter come un film anni 80, carico, se non di tensione, almeno di mostri ben realizzati, una sorta di vampiri simil zombi, un po’ come succedeva nel bel Stake Land di Jim Mickle.

A girare il tutto è Mitchell Altieri che un tempo, insieme all’amico Phil Flores, si faceva chiamare Butcher Brothers in quel periodo dove, se non avevi fratello, eri fuori dal giro: out, sfigato o, per dirla alla maniera dei vari gruppi autistici di facebook, flop anzi flooooop! Mi ricordo di aver sentito che molti registi mettevano annunci sulle bacheche di Hollywood “Cercasi fratello per girare film” proprio sotto la foto di Birba il gatto scomparso, “vendo basso usato a buon prezzo” e “cerco appartamento zona centro, studentessa universitaria”.  Quante famiglie allargate si sono formate in quegli anni? Quante mamme la mattina si sono svegliate per trovarsi sconosciuti seduti a tavola in attesa della colazione? Era la maledizione dei fratelli Wachowski, senza dubbio, prima che si scoprissero transgender e di conseguenza sorelle. Proprio in quest’ultima fase molti registi hanno gettato la spugna per paura di dover fare il grande passo, via i gioielli di famiglia, via l’armatura di Massimo Decimo Meridio, ai giochi addio, per sempre addio.

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Farinelli, per l’amor di Dio, non cantare!!

Fortunatamente come tutte le follie hollywoodiane anche questa è scemata e così, dopo il discontinuo The Thompson del 2012, i Butcher Brothers si sono ritirati dalle scene. Se i successivi Holy Ghost People (2013) e Raised by Wolves (2014), diretti dal solo Altieri,  portano ancora la firma in fase di sceneggiatura dell’amico Flores, con questo The Night Watchmen assistiamo al primo parto davvero solista del regista. E, ça va sans dire, la sua opera migliore.

A scrivere la storia, stramba, folle e sopra le righe, di un Nosferatu pagliaccio che contamina un  intero stabile sono stati due attori del cast, Ken Arnold e Dan DeLuca (regista tra l’altro di un horror non male, The Jersey Devil), con la collaborazione di Jamie Nash, mente creativa dietro i lavori solitari dell’Eduardo Sancher de Il mistero della strega di Blair.  Rispetto ai lavori dei Butcher Brothers, di solito prolissi e confusionari, The Night Watchmen è convincente e dal ritmo veloce, un perfetto B movie da vhs trasposto in epoca blu ray.

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Se fino ad ora Mitchell Altieri si era dimostrato un autore altalenante, a causa anche di una certa asincronia tra ambizioni alte e budget miserrimo, è con questa pellicola che il suo cinema trova la perfezione mai raggiunta.

The Night Watchmen è cinema popolare, ma di quello fatto bene, costato forse tremila lire ma che sembra invece avere miliardi alle spalle, baciato da recitazioni perfette, caratteristi azzeccati, situazioni sceme ma non in fragranza di vilipendio all’intelligenza dello spettatore e quel gusto da film anni 80 che percepisci senza che per altro ci sia un pompino alla Netflix sugli anni 80.

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Certo alcuni effetti speciali sono scrausi senza dubbio, ma c’è il sangue a fiotti a colmare e idee da vendere, alla Mel Brooks, su come dissacrare in maniera creativa il mito del vampiro.

Non pensiate poi di stare assistendo ad uno staight to video perché The Night Watchmen ha una fotografia da urlo, una regia attenta alla costruzione delle sequenze e non si tira indietro neanche sul versante tette, tante e generose come ci trovassimo in un Decoteau anni 80 pre froceria.

Si respira aria da Demoni di Lamberto Bava, quasi una dimensione alternativa dove il The end di Daniele Misischia si colora di splatter e carnazza, strafumato come un cazzosissimo James Franco.

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The Night Watchmen ci regala i vampiri più strambi della storia del cinema, creature implacabili e sanguinarie che possono ricordare le analoghe dell’iconico Vampires di Carpenter, ma che appena trafitte da improvvisati paletti di frassino cominciano a scoreggiare come fossero divoratori messicani di fagioli.

D’altronde davanti ad un film come questo o si è propensi alla risata dissacrante, alla cazzata non sense o è meglio lasciar perdere. Fermo restante che la sceneggiatura è abbastanza abile nel non scadere nel demenziale o nella parodia anche quando le situazioni sono assurde.

Tanti i momenti folli come la prova di ballo per dimostrare di non essere vampiri o l’assalto dei pagliacci non morti al ritmo di una musica heavy metal potente, questo un tuffo nel passato emotivo ai grandi horror italici musicati da Simon Boswell da Argento a Lamberto Bava.

Come comparse spiccano la trometta Tiffany Shepis, splendida alla soglia dei 40 anni, e l’ex guerriero della notte James Remar.

The Night Watchmen è una visione sicuramente consigliata, una di quelle che ci avrebbe fatto felici da ragazzini ai tempi di Zio Tibia su Italia uno, un amarcord, forse consapevole, forse no, di un cinema amato, seppellito e vivo solo nei nostri ricordi nostalgici.

Andrea Lanza

The Night Watchmen

Anno: 2017

Regia: Mitchell Altieri

Interpreti: Ken Arnold, Dan DeLuca, Kevin Jiggetts, Kara Luiz, Max Gray Wilbur, James Remar, Matt Servitto

Durata: 80 min.

Disponibile in blu ray e dvd

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Il voodoo dei morti viventi (I Eat Your Skin)

23 domenica Giu 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, V, zombi

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Nel 1971, negli States, uscirono, nel circuito dei drive-in, il truce La rabbia dei morti viventi (I Drink Your Blood) e I Eat Your Skin. Era prassi per le pellicole più infime di usare la formula un biglietto/due spettacoli; così successe sia per i bevitori di sangue che per i mangiatori di pelle, lanciati dall’accattivante strillo sulla locandina, “Two Great Blood-Horrors to Rip Out Your Guts!”, quindi lo spettatore era avvertito, si trattava un doppio show che prometteva di strappare le budella allo spettatore.

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Nessuno arrapato teenager da drive-in venne ovviamente eviscerato, ma la cosa più buffa era che, se La rabbia dei morti viventi soddisfaceva la voglia di zombi e budello, così non faceva I Eat Your Skin, una pellicola spensierata in bianco e nero, poco violenta e senza neppure la sequenza tanto attesa dal pubblico: il pasto orribile a base di pelle umana.

C’erano voluti ben 7 anni prima che questo film potesse trovare la via della sala cinematografica, snobbato un po’ da tutti, non troppo estremo per essere venduto, e troppo sciocco per diventare un cult tra il pubblico. In più non lo aiutava il bianco e nero, una follia nel 1971.

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lntervistato dal critico cinematografico Bryan Senn, il regista Del Tenney ammise candidamente che I Eat Your Skin non era un buon film (” Non mi piaceva molto, ho sempre pensato che fosse una cazzata“). Non fu comunque un horror facile da girare: i problemi incominciarono quando la  Twentieth Century-Fox, interessata a distribuire l’opera, impose categoricamente alla produzione di assoldare persone iscritte al sindacato, pena l’abbandono del film. Del Tenney, infiammato dal sacro fuoco dell’arte pura, non accettò e il film andò incontro, da vero kamikazen, al suo olocausto personale (“Tutta quella gente era lenta e poco collaborativa perciò mi sono impuntato“). Si sforarono le due settimane di rito per le riprese a causa di un terribile uragano, un presagio da vero film maledetto. A questo si aggiunsero altri problemini, malattie contratte e vari serpenti che avvelenarono diversi membri del cast. Forse era un segnale dal cielo: Dio non amava i mangiatori di pelle.

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Quando le riprese terminarono, senza più nessuno interessato a distribuire I Eat Your Skin, Del Tenney aveva buttato via circa 120000 dollari. A nulla era servito ingannare alcuni investitori, poco propensi al cinema horror, vendendo il film come Caribbean adventures, quasi fosse un avventuroso esotico, e non col vero titolo di lavorazione, Voodoo Blood Bath. In qualsiasi caso la troupe non si spostò mai ai Caraibi ma girò il tutto a Miami Beach e Key Biscayne in Florida. Alla fine, quando visse la sua prima nei drive-in, Del Tenney lo vendette al distributore Jerry Gross ad appena 40000 dollari perdendoci moltissimo. Per tornare alla regia poi il nostro, da quel lontano 1964, dovette attendere quasi 40 anni quando nel 2003 firmò assieme allo sceneggiatore Kermit Christman il brutto Descendant con William Katt.

C’è da dire che il film, nel 1971, era non solo vecchio, ma praticamente un reperto storico: grazie, o in questo caso per colpa, di George Romero e del suo The night of living dead, la figura dello zombi era stata completamente ripensata. Il pubblico aveva dimenticato, o comunque non li ricercava in sala, i morti viventi classici, quelli della tradizione haitiana, schiavi lobotomizzati usati per lavorare senza sosta nei campi o diventare lo strumento di vendetta di uno stregone. A questi guardava I Eat Your Skin, ai cult anni 30/40 di Victor Halperin e Jacques Torneau, capolavori datati come Ho camminato con uno zombi e White Zombi. Il pubblico invece chiedeva ad alta voce cadaveri affamati di carne umana, film shockanti e color sangue anche nel bianco e nero più freddo di La notte dei morti viventi.

I Eat Your Skin partiva poi come il classico clone di James Bond con persino lo stesso albergo, il Fountainbleu Hotel di Miami di Agente 007: missione Goldfinger, per poi ovviamente trasformarsi in altro, un’avventura horror con voodoo e zombi.

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Il protagonista Tom Harris, interpretato da William Joyce al suo unico ruolo da protagonista in una carriera iniziata nel 1954, uno scrittore donnaiolo dalla camicia perennemente sbottonata (quando non è a petto nudo), incarna lo spirito di un’opera un po’ frivola, veloce, a suo modo divertente.

D’altronde, non dimentichiamo, che il nostro eroe dalla patta sbarazzina sull’isola voodoo non vuole andarci. Come dargli torto? Storie sanguinarie, morti viventi, pericoli, poi il suo agente letterario gli confida “Un tornado ha ucciso quasi tutti gli uomini. Le donne sono tantissime e aspettano solo te”. Il nostro alla parola donne è già con la valigia in mano. “Si parte allora?”. Diavolo di un Tom Harris!

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C’è da dire che il film ha un paio di sequenze di un certo pregio, non ultima la scena di apertura con un’ipnotica danza tribale e una mora ballerina, in azzardata lingerie, pronta ad essere sacrificata insieme ad una capra.

Certo I Eat the Skin ha un certo nonsense di fondo che lo rende oltre il cretinismo, ma non sfocia mai fortunatamente nel demenziale sciocco e molesto come per esempio capitava in un altra pellicola non dissimile, Bela Lugosi Meets a Brooklyn Gorilla, con però uno scimmione canterino al posto degli zombi.

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Cobra atomici

Il territorio è quello dei classici low budget del terrore: un luogo esotico, un dottore artefice di terribili esperimenti, una bella in pericolo e l’eroe pronto a salvare la situazione. Potremmo imbatterci, nella peggiore dell’ipotesi in Bride of the Monster di Ed Wood, un B movie, anzi uno Z movie inconsapevolmente sublime, ma per fortuna siamo davanti ad un’opera modesta ma divertente, non un cult movie certo ma che merita un’occhiata.

Il punto forte poi sono gli zombi: armati di machete, implacabili, altissimi colossi di colore, anticipano, ben 26 anni prima, nel make up, il delirante Il cacciatore di  uomini di  Jesús Franco del 1980. Del Tenney azzarda persino una scena di decapitazione senza stacchi, nulla di che secondo gli standard moderni ma si apprezza, per l’epoca, lo sforzo di osare in campo shock.

Il trucco dei non morti è semplicissimo: farina d’avena spalmata e due uova al posto degli occhi. Molti hanno storto il naso, ma quando I Eat The Skin ci mostra una trasformazione live di un povero sventurato, creata ovviamente con modeste dissolvenze, l’effetto non è dei più disprezzabili, anzi.

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Jess Franco e gli zombi di I Eat The Skin

A creare questi cadaveri viventi, come prassi vuole, è un dottore, Robert Stanton al suo unico ruolo, che, nel tentativo di curare il cancro grazie a degli esperimenti su dei cobra atomici, ottiene come effetto secondario la creazione degli zombi. Se pensiate che sia abbastanza cretina l’idea dei serpentoni radiottivi, in perfetto clima di paranoia americana da atomica, dovete sapere che sulla Voodoo island si balla, ci si diverte, si tromba, a patto che non ci siano bionde sennò voodoo, macheti assassini e sacrifici umani. Indovinate di che colore ha i capelli la figlia del dottore interpreta da Heather Hewitt?

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Miss Vermont 1957

Il vero cattivo del film però è un aristocratico che, come tutti i B movie un po’ cretini, vuole conquistare il mondo grazie agli zombi del Dottor Biladeau, un piano che prevede la marcia dei non morti con casse di esplosivo in mano verso non si sa dove, Washington, la casa bianca, boh. Non chiedetelo al malvagio Duncan Fairchild, interpretato da Dan Stapleton nelle duplici vesti di produttore e attore per la prima e unica volta nella vita, perché sicuro vi risponderà con una risata malvagia. Questi cattivi sono così geniali e criptici nelle loro bieche intenzioni.

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L’idea della cassa di esplosivo è la scusa per forse l’unica scena davvero memorabile della pellicola, quella che potrebbe far smascellare lo spettatore sonnacchioso: con un baule in mano con scritto a lettere cubitali, come nei cartoni Warner di Bugs Bunny, Explosive, uno zombi marcia alla cieca sulla spiaggia, trova davanti  a lui un elicottero, ma sapendo andare solo in linea retta, come un brutto gioco per cellulare, viene fatto a pezzi. Vi immaginate questo piano così perfetto ed elaborato nella testa del cattivissimo Duncan Fairchild che viene sputtanato da un gruppo di zombi un po’ pasticcioni che deflagrano davanti a qualsiasi ostacolo sulla loro strada? La via per Washington è lunga, my friend, e io la vedo dura.

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Gli attori sono quello che sono, ma spicca per bellezza Heather Hewitt, Miss Vermont 1957 ad un passo da essere Miss America. Dopo questo film passeranno ben 15 anni prima che la ragazza ormai donna torni a calcare le scene, stavolta del piccolo schermo, con il primo episodio di Un uomo chiamato Sloane, spy story di scarso successo dalla vita breve.

I Eat Your Skin non è certo una visione imprescindibile, ma è un film che sa intrattenere e non annoiare.

Da noi è arrivato grazie alla Freak video col titolo Il voodoo dei morti viventi in un’edizione ottima, sottotitoli e video sfavillante, forse un po’ troppo per un film scacciapensieri, ma, che diavolo, non di solo buon cinema può vivere il cinefilo!

Andrea Lanza

Il voodoo dei morti viventi (I Eat The Skin)

Titolo originale: Zombie Aka “Zombies”, “Zombie Bloodbath”, “Caribbean Adventure”, “Voodoo Blood Bath”

Anno: 1964 (uscito però nel 1971)

Regia: Del Tenney

Interpreti: William Joyce, Heather Hewitt, Walter Coy, Dan Stapleton, Betty Hyatt Linton, Robert Stanton, Vanoye Aikens, Rebecca Oliver, Matt King, George-Ann Williamson, Don Strawn 

Durata: 92 min. 

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Killer Party

24 mercoledì Apr 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, commedia, commedia horror, demoni, K, Recensioni di Andrea Lanza, slasher

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Alicia Fleer, confraternite, Deborah Hancock, Elaine Wilkes, esorcista, halloween, hell night, Howard Busgang, Jason Warren, Jeff Pustil, Joanna Johnson, killer, killer party, la notte dei demoni, Laura Sherman, linda blair, Martin Hewitt, palombaro, Pam Hyatt, Paul Bartel, Ralph Seymour, scream, Sherry Willis-Burch, sorellanze, Terri Hawkes, tridente, venerdì 13, wes craven, william fruet, Woody Brown

Da vent’anni una casa è abbandonata (ha una fama spaventosa: vari delitti sono stati consumati fra le sue pareti). Ed è proprio lì che un gruppo di ragazze decide di dare la festa annuale degli studenti. Data la nomea della casa, hanno promesso un vero “party della morte”. Ma se ne pentiranno.

Sono da sempre un grande fan degli slasher, soprattutto di quelli anni 80, tutti ragazze seminude e sangue versato da improbabili emuli di Michael Myers. Tra i miei preferiti ci sono senza dubbio, senza scomodare l’inflazionata  saga di Jason, il feroce Rosemary’s Killer di Joseph Zito e il cultissimo Hell Night con la meravigliosa Linda Blair.

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Lo slasher è un sottogenere semplice ed economico: prendi un gruppo di ragazzotti, li filmi mentre bevono, fumano e a scopano come ricci, poi ti inventi una maschera stramba, la fai indossare ad un killer, e via con la mattanza. Più facile di così? In più la sceneggiatura può essere anche improvvisata, ma quello che non deve mancare, e che rende divertente il tutto, è soprattutto la varietà di omicidi e l’alto tasso di emoglobina.

Questa cosa non dev’essere stata molto chiara alla MGM che, al momento distribuire Killer party, decise di tagliare tutte le scene più sanguinose, inficiando il senso narrativo dell’opera. In parole povere: ora, nel cut vulgato al popolo, non si capisce nulla!

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Quindi una merda, penserete voi, giustamente. Invece per strane alchimie che solo la serie B possiede, il film è uno spasso, una cosa che la guardi e ti sorprende, ti cade la mascella e, tra un “Ma che cazzo!” di rito, capisci di essere in un luna park del terrore, con quei ribaltoni incredibili di plot che non ci credi ma accadono.

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Scena tagliata

Per tre quarti il film è un blando slasher con  due morti in croce (una donna presa a martellate e un professore fulminato con la corrente elettrica), oltretutto, per le maglie della censura, tutto fuori campo come in un mondo alla Black Mirror dominato dal MOIGE. Quando però si arriva all’ultima mezz’ora succede l’inaspettato: regista, sceneggiatore e attori  giureresti che si sono fatti  di droghe pesanti!

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Lo slasher, se non ha derive soprannaturali, alla fine è un giallo più hardcore dove sotto la maschera c’è un picchiatello che uccide per le ragioni più varie. In Killer Party questo non succede: ad un certo punto, a tipo trenta minuti dalla fine del film, arriva un omicida vestito da palombaro e comincia in pochi minuti ad uccidere tutto il cast in maniera fantasiosa (chi con un tridente, chi soffocato in una vasca, chi impalato mentre è seduto su una griglia, che poi cazzo ci fa tra l’altro una griglia in una casa?). “Wow!” direte voi, solo che ad un certo punto il palombaro sparisce, nessuno ne parla più e, colpo di scena, la protagonista si trasforma in una sorta di Regan dell’Esorcista con voce gutturale, bava alla bocca, che cammina sul soffitto mentre, meschina e maledetta, ride da sola con la lingua serpentesca.

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Killer party è quello slasher anarchico che fa come cazzo vuole, ride delle regole rigide del genere e si permette persino di atteggiarsi alla Alfred Hitchcock trasfigurando la figura della virginea eroina, prima facendola accoppiare con un ragazzo poi tramutandola lei, la figura cardine di ogni slasher, nel mostro, nella bestia sanguinaria, in una maledetta puttana sputata dall’inferno.

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Certo la MGM con i suoi tagli ha incasinato il tutto ed è probabile che proprio questi abbiano reso impossibile da comprendere l’intreccio della vicenda. In più nel film regna una confusione incredibile a cominciare dagli abiti dei protagonisti: durante la prima parte siamo, cappotti che lo testimoniano, in autunno, anche quando tutti si stanno preparando per lo scherzo del Pesce d’Aprile.

Su questo horror poi c’è la leggenda, confermata da imdb, che Killer Party fu iniziato nel 1978, si interruppe per motivi di budget, per poi essere ripreso nel 1986. Su un sito internet dedicato interamente alla pellicola questo viene smentito da un’intervista ad una delle attrici protagoniste, Elaine Wilkes, che afferma che il film fu girato senza pause, a  metà degli anni 80, con l’unico problema dei cambi incredibili della sceneggiatura. Sembra infatti che una delle ragazze che arriva ai titoli di coda, Sherry Willis-Burch, si sorprese perché la sua Vivia sarebbe dovuta morire all’inizio!

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A girare l’opera, con mano sicura, è il William Fruet di alcuni B movie efficaci: suo infatti l’incredibile Spasms con Oliver Reed contro Peter Fonda e un serpentone assassino, ma anche il divertente Il mio scopo è la vendetta con un reduce dal Vietnam che si bomba la Tisa Farrow di Zombi 2 e combatte un cinese killer esperto di kung fu. Robe da cestone da supermercato, senza dubbio, ma girate bene, dannatamente bene.

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Colpevole invece del delirio narrativo è Barney Cohen che due anni prima però diede alla luce uno dei copioni su Jason Vorhees più belli di sempre, il capitolo finale, diretto dal sempre mai troppo apprezzato Joseph Zito.

Il cast fa la sua porca figura e abbiamo tutti interpreti efficaci e mai stranamente impacciati anche nell’interpretare un horror da cassetta. Nel cast poi spicca il grandissimo Paul Bartel, regista di cult come Cannonball, Anno 2000 – La corsa della morte e soprattutto Bambole e sangue, nella sua lunga carriera di attore/comparsa divertita (ben 91 ruoli su 14 regie).

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La già citata Elaine Wilkes, già conosciuta per ruoli in commedie romantiche come Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare di John Hughes e Who’s That Girl di James Foley accanto a Madonna, abbandonò la carriera di attrice nel 1989. Si riciclò come esperta naturologa con libri di grande successo tra le masse come I messaggi segreti della natura, un tomone di 340 pagine arrivato anche da noi.  Ma non ha mai rinnegato il suo passato di attrice, cosa che le rende sicuramente onore.

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La palma d’oro però di miglior interprete però spetta ad Alice Fleer che riesce ad incutere un certo disagio nel suo passaggio da vittima sacrificale a demonio incazzato, una roba che è seconda solo a Linda Blair in L’esorcista.

Per il resto Killer Party è un’opera sicuramente stramba ma tremendamente divertente che vive lo stato di grazia anche di una magnifica colonna sonora orecchiabilissima anni 80. D’altronde come non volere bene ad un film che presenta ben due intro finti, prima di Wes Craven e Scream 4, dei quali uno è un vivace videoclip dei White Sister, You’re No Fool, con degli zombi assassini che ballano con una ragazza sulla falsariga di Thriller di Landis. Giuro succede anche questo e non solo questo perché ci saranno, durante la visione del film, tante cose che metteranno a dura prova la vostra incredulità come una sequenza dove dei simpatici buontemponi liberano delle api per vedere scappare nude delle ragazze. Gli stessi poi si vestiranno da aponi giganti per essere giustamente uccisi dal palombaro killer che forse passava solo di lì solo per caso.

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Girato in Canada con il titolo di lavorazione di April Fool’s Day, come il precedente Jolly Killer di George Dugdale, dovette cedere il titolo all’omonima pellicola di Fred Walton, Pesce d’aprile. Del trietto dei film nati con lo stesso nome però questo è sicuramente quello che preferisco.

Da noi è uscito prima in vhs MGM poi in un dvd Quadrifoglio dall’audio italiano ridondante ma dal video perfetto in widescreen. Purtroppo Killer party non ha mai avuto la fama che si meritava: un po’ un cane rognoso che a prima vista non accarezzeresti mai, ma che se impari a conoscerlo ti conquista. Noi gli vogliamo bene.

Andrea Lanza

Killer Party

Anno: 1986

Regia: William Fruet

Interpreti: Martin Hewitt, Ralph Seymour, Elaine Wilkes, Paul Bartel, Sherry Willis-Burch, Alicia Fleer, Woody Brown, Joanna Johnson, Terri Hawkes, Deborah Hancock, Laura Sherman, Jeff Pustil, Pam Hyatt, Howard Busgang, Jason Warren

Durata: 91 min.

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Contamination – Alien arriva sulla terra

14 domenica Apr 2019

Posted by viga1976 in azione, B movie gagliardi, C, fantascienza, Le recensioni di Davide Viganò, scifi horror

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Carlo De Mejo, Carlo Monni, Contamination - Alien arriva sulla terra, Gisela Hahn, Ian McCulloch, Lewis Coates, Louise Marleau, luigi cozzi, Marino Masè, Siegfried Rauch

Luigi Cozzi ha dato una bellissima definizione dei suoi film:  pellicole d’imitazione. Cioè prodotti che seguono la moda del momento e li ripetono in piccolo, sicuri di un incasso decisamente buono. Il pubblico vuole super eroi? E noi imiteremo il loro film di maggiore successo economico,  la gente abbocca. In questo ragionamento c’è la storia e la caduta dell’industria cinematografica di genere italiana. Con queste premesse si evince che da una parte si giudica il pubblico un po’ un ammasso di individui a cui basta dar qualcosa di raffazzonato e via,  quello se lo beve. Due, non si investe nel creare un immaginario nostro, forse non siamo in grado e così ci adattiamo a scimmiottare gli altri. Forse il mio giudizio è fin troppo sbrigativo e  severo, nondimeno veniamo da decenni in cui abbiamo giudicato fin troppo positivamente ogni esperienza del e nel genere italiano. Proprio in onore ai grandi maestri e agli artigiani che hanno fatto la storia del cinema italiano non possiamo essere troppo generosi con tutti.  Cozzi dalla sua ha un carattere che in parte ammiro. Sa vendersi bene, sa raccontare con gusto la sua storia, tanto che tu alla fine davvero credi che Star Crash sia un film imperdibile. Tutto questo è possibile perché lui ha una grandissima passione per la fantascienza e il fantastico e riesce a trasmetterla agli altri. Peccato non capiti (quasi) mai attraverso i suoi film, ma per la persona provo tanto rispetto.

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Il leggendario Cozzi

Dopo il successo di Star Crash, Cozzi decide di far un film che fosse l’imitazione di Alien.  Un’opera di pura fantascienza con l’attacco degli alieni ambientata in una grande città. Purtroppo i produttori pensarono bene di spingere il tutto verso le atmosfere alla James Bond, boicottando in vari modi le istanze legate alla fantascienza: il risultato è un film che è un ibrido, a volte indigesto .

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Effettivamente la seconda parte, quella nella foresta sudamericana con la Spectre dei poveracci è una parte debole e lo sviluppo della trama stenta a dar soddisfazione.

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Il film potrebbe funzionare bene nella prima parte.  C’è abbastanza mistero, decenti effetti splatter, un certo mestiere che rende godibile il tutto. La storia raccontata è quella di un’invasione aliena attraverso delle strane uova che una volta toccate creano una reazione nel corpo delle vittime facendole esplodere il loro stomaco.  Il tutto viene scoperto perché a New York sta transitando una nave alla deriva. Una volta a bordo i poliziotti e il personale medico scopriranno l’agghiacciante verità.

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L’unico sopravvissuto, un poliziotto loquace e divertente, dovrà collaborare con una serissima scienziata per poter salvare il mondo. In loro aiuto un ex astronauta, ormai ridotto uno straccio, tornato cambiato da un viaggio su Marte.

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Non siamo nei paraggi di una “cozzata” stile Paganini Horror, qui si sta nei confini della decenza filmica. Cozzi usa sapientemente l’uso del chiaroscuro per rendere credibili gli effetti speciali, compie un duro lavoro affinché il mostro che appare nel finale non ci induca a ridere a crepapelle.   Per questo forse l’opera è una delle sue pellicole migliori (ma stiamo parlando di un regista che di pellicole migliori non ne ha fatte nessuna). Però ammiro il durissimo lavoro e l’impegno che chiaramente mette nelle sue cose. Non mi piacciono i suoi film e non lo reputo un regista fondamentale per il genere, applaudo alla tenacia, alla passione che mette in gioco. Ho seguito la vicenda abbastanza interessato e tutta la prima parte credo sia anche valida. C’è mistero, sangue, un disegno rudimentale ma efficace dei personaggi. Paga la sua natura di film a basso budget e gli scontri con la produzione. Sicuramente è datato, superato, ma una visione la consiglio.

Davide Viganò

Contamination – Alien arriva sulla terra

Titolo alternativo: Alien contamination

Anno: 1980

Regia: Lewis Coates (Luigi Cozzi)

Interpreti: Ian McCulloch, Louise Marleau, Gisela Hahn, Marino Masè, Siegfried Rauch, Carlo De Mejo, Carlo Monni  

Durata: 95 min.

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Contagion

23 sabato Mar 2019

Posted by andreaklanza in azione, B movie gagliardi, C, cannibali, Recensioni di Andrea Lanza, tette gratuite, thriller

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Avete presente quei bei centri commerciali dove potete trovare qualsiasi cosa, dalla Coca zero aromatizzata con l’eucalipto al togli peli dal naso a 99 cent? Beh se la risposta è sì vi sarà quindi capitato di aggirarvi nel reparto audio e video avendo certamente notato un cestone polveroso, pieno di dvd, con film mai sentiti. Sono il magico mondo dei Futurama con action girati nel giardino di casa David Worth, degli Storm video dei Breakdance senza un vero pubblico, e delle etichette tipo la Legocart che spacciano per HD delle vhs registrate a volte male. In mezzo a questi film, sfigati, partigiani, mai benedetti neanche da un culto terrapiattista di adoratori delle feci cinematografiche, potreste trovare un gioiellino. D’altronde lo dice anche il poeta che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Contagion è quel titolo inaspettato, il bacio ricevuto quando ti aspetti uno schiaffo, la mitragliata che, Santa Madonna dell’Incoronata, salva Vincent Vega da una morte certa e, in questo caso, la vostra serata cinefila.

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Non proprio una garanzia

Recita il retro della copertina la seguente e dettagliata trama:

“Mark Clifton è un ambizioso venditore di computer di trentanni. Mentre sta andando dalla sua ragazza Cheryl che è sorella del senatore Herbert Davies, un ricco allevatore del Quuensland, ha un incidente con  la sua Porche sulla super strada nota come “il nastro dell’assassinio”. Nel bosco intravede una fattoria e dopo un brutto incontro con una trappola esplosiva raggiunge la casa dove viene aiutato da 2 bellissime ragazze, Helen e Cleo, ospiti di Mr. Bael, un ricchissimo finanziere. Mark ha rapporti con Helen, un’amante molto aggressiva. A Bael, che controlla molti fondi ed è specializzato in “futures” su valute e materie prime, piace Mark e gli offre una parte della sua ricchezza se lavorerà per lui come suo apprendista. Mark entra alla grande nel sistema che prevede di introdursi illegalmente in computer privati internazionali e accesso a chiavi finanziarie e dati personali. Perpreta così una serie di orrendi atti per raggiungere ricchezza e sesso. Cheryl però sospetta che non tutto sia giusto e comincia ad investigare con risultati spaventosi“.

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siamo a neanche 5 minuti e presto un motociclista verrà decapitato

Coinvolti? A parte alcuni vistosi errori come “trentanni” e “Porche” devo darvi una brutta notizia: la trama è inventata. Cioè parzialmente inventata, ad essere sinceri, come se qualcuno avesse visto col fastfoward il film bloccandolo di tanto in tanto per capirci qualcosa. Quindi nessuna trappola esplosiva, nessuna sorella del senatore Vattelapesca, nessun nastro dell’assassinio, nessun sistema da hacker anni 80 e mica il nostro si fa solo una delle due ragazze, ma entrambe! Probabilmente uno stagista sottopagato della Futurama sarà il colpevole di tutto questo. Ma chi siamo noi, seduti comodi sulla nostra poltrona, con la pappa calda di mammà e i caloriferi accesi a contrastare il rigido inverno, per rimproverare il povero Ferruccio, 45 anni, cappello al contrario, mai una scopata diversa dal fazzoletto di solitario piacere, e tanta voglia di sfondare in un mondo difficile come quello del lavoro.

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tette

Contagion parla sì di un certo Mark che incontra un vecchio mago della finanza e le sue due ancelle, ma prima c’è tutta una parte survival tra Le colline hanno gli occhi e Un tranquillo weekend di paura, poi omicidi, follia e fantasmi mentre il protagonista cerca di intraprendere “la strada dei tre sentieri” che gli donerà il successo meritato. Dire di più sarebbe spoilerare il film che regala un ribaltone nella prima mezz’ora e un colpo di scena prevedibile ma gagliardo nel finale. Il tutto diretto in maniera eccellente e concitata da Karl Zwicky che l’anno dopo, il 1988, girerà l’altrettanto notevole To Make a Killing prima di essere fagocitato per sempre dalla tv e da opere al di là del bene e del male come Il budino magico.

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Il budino magico

Dire che Contagion sia scritto bene sarebbe mentire, ma ha una storia abbastanza bizzarra da tenere alta l’attenzione. Certo il film è pieno di sottotrame mai chiuse, di personaggi non approfonditi, ma siamo sullo stesso piano di un Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea diretto da un Freda pazzo, dove è il fascino del non sapere, della potenza delle immagini a sovrastare dialoghi a volte un po’ cretini e trame con più buchi di una gruviera di Topo Gigio. Lo stesso “Contagio” sbandierato nel titolo è una cosa piuttosto fumosa e mai davvero spiegata. Lì c’è tutta l’abilità della supercazzola comunque. Come se fosse antani naturalmente. Capito? No? Allora nella confusione pensi “Geniale!”

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Mickey Mouse stupratore

Basti pensare all’inizio, tesissimo, con la macchina da presa a mano che segue la fuga di Mark nei boschi. Non una roba che ti aspetteresti da un dvd da 99 cent del cestone del supermercato, ma da un Wes Craven appena uscito dal porno e con la voglia di orrore urbano. Quando il maniaco prende il protagonista, gli cala i calzoni e comincia a violentarlo indossando una maschera brutta di Mickey Mouse, Zwicky te la fa sentire addosso la sporcizia anche a te, spettatore smaliziato. Nel momento che credi poi di aver capito in che film ti sei cacciato con questi pazzi, probabilmente cannibali, che massacrano donne, con i corpi delle vittime nude e martoriate su dei pali, beh il film diventa altro. Mutaforme e schizzato come il suo protagonista.

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Si possono trovare i semi futuri di Wrong turn e probabilmente di questo sgarruppato film se ne ricorderà pure il Tiziano Sclavi di Dylan Dog con Mefistofele, in un’epoca in cui l’indagatore dell’incubo univa gli elementi più disparati, Golem e Terminator, per creare vere opere originali dal non originale. Certo è che l’influenza maggiore per Contagion è sicuramente Shining con un Jack Nicholson altrettanto ammaliato da alcuni fantasmi. I paragoni tra i due film si fermano qui ovvio, nelle ispirazioni, senza levare nulla né a Kubrick in grande né a Zwicky nel suo piccolo artigianato di idee gagliarde e selvagge.

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Gli attori, brutti, soprattutto gli uomini, come ogni low budget richiede ma efficaci nella loro parte, non fanno mai pensare ad un prodotto scadente. In più, se il sangue è assente, lo spettatore voyeur può rifarsi gli occhi sulle tette piccole ma splendide delle sue starlette, loro sì  comunque graziose come nel caso della generosa Nathy Gaffney.

Parlando tra l’altro di attori brutti come si può non citare il protagonista, John Doyle, una sorta di Gianni Ciardo, l’attore di gioielli poco comici come Doppio Misto con Andrea Roncato, Tinì Cansino e Moana Pozzi?

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Ciardo o John Doyle?

Contagion è un discreto esempio di ozploitation, un film australiano di genere, che di solito viene sbeffeggiato ingiustamente nei siti ma che, per chi scrive, è risultato un prodotto interessante e ben confezionato, una sorpresa inaspettata.

Anche il dvd Futurama è sì una vhs riversata, ma una buonissima vhs, che si vede decentemente anche sui 50 pollici.

Al prossimo cestone l’acquisto è obbligatorio, no?

Andrea Lanza

Contagion

Anno: 1987

Regia: Karl Zwicky

Interpreti: John Doyle, Nicola Bartlett, Ray Barrett, Pamela Hawkesford, Jacqueline Brennan, Nathalie Gaffney (Nathy Gaffney), Chris Betts, Michael Simpson, Reg Cameron, Michael McCaffrey, Tracy Nugent, Donna Jan Newby, Deirdree Wallace, Allen Harvey, Michael Stanford, Rosemary Traynor, Maurice Hughes, Melody Scott, Greg Powell, James Kable, Craig Cronin, Penny Tobin, Rod Pianagonda, Louise Ryan, Andrew Johnson, Paula Norman, Vassy Cotsiopolous (Vassy Cotsopoulos), Kerrianne Carr, Hazel Howson

Durata: 90 min.

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