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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Bloody Nightmare

06 mercoledì Gen 2021

Posted by andreaklanza in B, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni, tette gratuite, tette vintage, thriller

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Betsy Russell, bloody nightmare, cheerleader camp, George 'Buck' Flower, high show, John Quinn, Leif Garrett, Lorie Griffin, Lucinda Dickey, Rebecca Ferratti, Teri Weigel, Travis McKenna, Vickie Benson

Bloody Nightmare era uno dei tanti titoli curiosi che si nascondevano, in pieno boom delle vhs, nei polverosi cataloghi dei film a noleggio. Troppo povero, poco famoso, eccessivamente sgarruppato per ambire all’esposizione aurea dei grandi titoli a noleggio come i Predator, i Die Hard, le mitiche “stallonate” o i sospira movie alla Julia Roberts. Certo, in quella sala di numeri 1, di star pagate miliardi e di produzioni così splendide che i film te li guardavi non una ma cento volte prima di riportarli al mittente, si intrufolava goliardicamente a mò di guappo guascone anche il nostro Bruno Mattei quando nel presentare il suo Shocking dark lo ribattezzava Terminator 2. Anche in quel caso, con un film che faceva schifo persino a Cristo delle montagne nevose, ingoiavi il rospo amaro, sorridendo da brava boyscout dalle sette medaglie, non senza però maledire James Cameron, li mortacci sua, che poretto non c’entrava nulla. Ah, meravigliosi i tempi d’ignoranza pre internet!

Ecco che Bloody Nightmare era il film disgraziato, la vhs con una copertina italica abbastanza bruttina che strillava: “Corpi conturbanti orribilmente trasformati in cadaveri“. Neanche il più sciamannato cinefilo made in Burkina Faso l’avrebbe forse noleggiato. Nell’aria, come la primavera e l’odore rustico di letame di campagna, aleggiava l’aroma di brutto film con l’aggiunta di un (probabile) pessimo doppiaggio italiano. Lo editava però la gloriosa Deltavideo che aveva dato i natali ad Aenigma di Fulci, In una notte di chiaro di luna di Lina Wertmüller, un tostissimo melodramma con Rutger Hauer e Nastassja Kinski, la bellissima Nastassja Kinski, e ovviamente il padre delle follie post Evil dead, Spookies di Thomas Doran, Brendan Faulkner e Genie Joseph. Questo non bastò però per salvare Bloody Nightmare da un’esistenza all’interno dei cataloghi delle vhs più infami, senza una custodia fisica, solo con le locandine da sfogliare. Bellissimi piccoli mostri per cinefili suicidi e ingordi.

Cheerleader Camp, girato col titolo di lavorazione di Bloody Pompon, si chiamò solo da noi Bloody Nightmare, un titolo palesemente acchiappagonzi in puro stile Freddy Krueger. In effetti il film di John Quinn aveva questa strana sottotrama onirica che vedeva la protagonista, una stralunata Betsy Russell, avere terribili incubi nei quali uccideva crudelmente le sue amiche/colleghe. Però il richiamo alla saga di Nightmare era davvero labile anche se, almeno in un momento, il risveglio con una mannaia insanguinata in mano all’eroina, l’omaggio al capitolo 2 di Elm street, a firma Jack Sholder, è tangibile. Restano però, a onore del titolo italico, dei sogni davvero sanguinosi che rendono, per lo meno, Bloody Nightmare uno slasher anomalo, sulla scia del più riuscito, almeno a livello di atmosfera, Dreamaniac di David DeCoteau.

Cheerleader Camp è uno strano ibrido tra la commediaccia alla Porky’s e il thriller violento alla Venerdì 13: da una parte abbiamo una sequela incredibile di nudità gratuite delle generose e bellissime protagoniste, dall’altra omicidi sanguinosi e graficamente efferati. Tutto questo ovviamente frammentato dagli scherzi goliardici di un molesto ciccione che, fin dalle prime scene, mostra le chiappone gargantueliche alle ragazze e poi si traveste, come fossimo in un cartone animato Warner VM18, da cheerleader oversize per meglio spiare le future vittime del killer. Nude ovviamente.

Inutile dirlo: Bloody Nightmare è molto divertente, ma anche molto cretino. L’identità del killer, come scrive anche il sommo Rudy Salvagnini nel suo Dizionario del cinema horror, è un segreto di pulcinella, la si intuisce subito, ma non è questo il punto. Bloody Nightmare è uno spasso anche quando si rivela una cazzatina, fa ridere, è violento, osa come nessun esponente del genere ha mai fatto con tette e culi, è, in parole povere, l’eiaculazione dell’adolescente sulle foto dell’amica, la sborrata catartica, il vaffanculo al metatesto, un horror drive-in che ti piaceva a 16 anni con i calli sulle mani e che, a 44 anni, ti fa applaudire malgrado ” le donne, il tempo ed il governo”.

John Quinn gira palesemente distratto. È alla sua opera prima ma in futuro non farà di meglio. Posiziona la telecamera sbilenca nelle scene oniriche per darsi un’aria alla Wes Craven, ma non ha idea né di cosa sia il ritmo né di come si tagli una scena, col risultato che più volte il film prosegue per inerzia, tipo porno, alternando le tette della futura pornostar Teri Weigel (Masturbation Nation 5, Anal Obsession e l’imperdibile American Bukkake 7) a forbiciate selvagge che penetrano nella nuca delle vittime per uscire dalla bocca devastata. D’altronde il nostro John Quinn girerà, solo qualche anno dopo, La fantastica avventura dell’orso Goldy, in maniera assolutamente identica a questo film, alla cazzo di cane, con scene nate e morte senza nessun criterio logico.

A scrivere l’opera ci pensano lo sconosciuto R.L. O’Keefe, alla sua unica prova artistica, e David Lee Fine, più famoso come tecnico del suono e artefice di un altrettanto follia, questa volta messicana, Demonoid (1981) di Alfredo Zacarías.

Il cast ovviamente è pieno di cagnacci, uomini senza arte né parte e ragazze belle da ammirare ma atroci come attrici. Tra queste bellezze, come detto tutte strepitose a livello estetico, si distinguono, almeno per il loro curriculum vitae da film degenere, Betsy Russell, Rebecca Ferratti e Lucinda Dickey. La prima, la futura moglie del killer enigmista di Saw, la si ricorda soprattutto per il giovanile American College con Phoebe Cates e Matthew Modine nel quale si spoglia nuda a cavallo. La seconda la si era vista nei due Gor, fantasy dove la nostra spiccava con selvaggia bellezza in costumi striminziti, mentre Lucinda Dickey aveva interpretato i meravigliosi Breakdance e il mai troppo lodato horror ninja Trancers. Una menzione d’onore poi per Lorie Griffin, in Bloody Nightmare certamente messa in ombra dalle sue colleghe, ma solo 3 anni prima, nel 1985, capace di accendere gli ormoni del licantropo Michael J. Fox in Voglia di vincere.

C’è da dire che, per chi scrive, l’idea di un horror a tema cheerleaders è sempre vincente, qui come nel più recente, bellissimo e gore, All cheerleaders die di Lucky McKee.

Bloody Nightmare è uscito in dvd in tempi recentissimi per la nuova casa High Show, in versione numerata a 500 copie, un video formidabile che mette a riposo la scura vhs, un poster che riproduce la locandina originale, e ben tre lingue, italiano, inglese e tedesco, tutti 2.0. Non si poteva chiedere altro per uno scult del cinema slasher, misconosciuto e divertente, ardito e imbecille, l’ideale per ogni cinefilo con il sangue guerriero, pronto ad affrontare ogni temeraria impresa filmica.

Per noi di Malastrana comunque, se non lo si era capito, solo amore per Bloody Nightmare!

Andrea Lanza

Bloody Nightmare

Titolo originale: Cheerleader Camp

Anno: 1988

Regia: John Quinn

Interpreti: Betsy Russell, Leif Garrett, Lucinda Dickey, Lorie Griffin, George ‘Buck’ Flower, Travis McKenna, Teri Weigel, Rebecca Ferratti, Vickie Benson, Jeff Prettyman, Krista Pflanzer, Craig Piligian, William Johnson, Kathryn Litton, Tom Habeeb (Tommy Habeeb)

Durata: 89 min.

Prey – La preda

07 giovedì Mag 2020

Posted by andreaklanza in animali assassini, B movie gagliardi, P, Recensioni di Andrea Lanza

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amsterdam, amsterdamned, dick maas, leoni assassini, prey

Che sorpresa questa horroraccio di serie B con il piglio spettacolare della serie A più strafiga. Gira una nostra vecchia conoscenza: quel Dick Mass che negli anni 80 fotografò una desueta Olanda rosso sangue con L’ascensore e con Amsterdamned, storia di un palombaro serial killer. Il nostro non è che in tempi recenti è stato però in panciolle: Sint, su un malvagio San Nicolao, è del 2011, e Quiz, thriller al cardiopalma del genere reality deviato è dell’anno dopo. Maas gira da grande regista, sempre, non china la testa ad Hollywood, ma indisturbato filma i suoi orrori di genere nel modo migliore, coi pochi soldi in tasca ma con risultati da applauso scorticante.

Non fa difetto questo Prey – La preda, un grande spettacolo coatto e popolare, divertente e disimpegnato.

Certo il leone che vediamo aggirarsi per Amsterdam è figlio della peggiore CGI anni 90: posticcio, fintissimo, roba da ps2 se non la prima playstation. Eppure te ne freghi perché la storia funziona, perché il ritmo è indiavolato e ti trovi, tu spettatore, su un cazzo di ottovolante sparato a 8000 km all’ora al luna park. L’alternativa è solo una in questo caso: divertirsi.

I tre attori protagonisti, Julian Looman, Abbey Hoes e Mark Frost, sembrano usciti da una commedia sentimentale anni 90, tipo Singles – L’amore è un gioco di Cameron Crowe: bisticciano, flirtano, battibeccano, si amano, in un cortocircuito di elementi eterogenei per un horror, tutto sommato, rosso sangue. Sembra di assistere ad uno di quei film coreani sulla scia di The Host di Bong Joon-ho dove il mix comicità e orrori vivono comparti stagni e alla fine, quando si incrociano, sembrano il risultato di una ricetta di cucina azzardata tipo una banana piccante. Può piacere o non può piacere, ma al di là del palato quello che conta è il cuoco, in questo caso il regista cioè sua Maestà Dick Maas con tanto di inchini e reverenza.

Le scene da antologia sono pazzesche, assurde a volte, con quell’aria da anarchia cinematografica a La guerra lampo dei Fratelli Marx, sul bilico verso l’abisso della farsa e del film serio, ma sempre mantenendo gli elementi perfettamente shakerati. Roba d’alta magia scriverebbe Isabella Santacroce pre rimbecillimento alla Lulù Delacroix.

La prima ora ci vorrebbe far credere (mannaggia ai poster spoilerosi) che a seminare il panico nella ridente Amsterdam ci sia di mezzo una creatura soprannaturale, soprattutto per le stragi iperrealiste velocissime e con la soggettiva che, da Predator in avanti, ci fa capire che siamo davanti ad un extraterrestre incazzato. Poi si palesa il leone in tutta la sua finzione da povertà effettistica, ma il risultato non cambia perché siamo davanti ad uno degli animali più vicini al concetto di realismo fantastico mai portati sullo schermo: gigantesco, velocissimo si butta in inseguimenti alla Fast and furious della Savana, un assassino goloso di teste umane come un cazzo di alieno da B movie.

In Prey si muore male e muoiono soprattutto gli scemi come due cacciatori da safari montatissimi, gli esaltati nella figure di un gruppo di nazi che appendono polli per beccare il leoncino e finiscono sgranocchiati, ma anche gli innocenti, una cosa che ad Hollywood non ci sarebbe mai stata, ovvero bambini, masticati e portati via dalla furia dell’animale.

La scena clou è l’attacco di un autobus: la gente tranquilla, una piccolina sulla carrozzina guarda il vuoto e dice qualcosa come “Micio” e, me cojoni, il felino è all’interno, felice e sporco di sugo umano come un normale giornalista mannaro al buffet di una conferenza. Splash splash. Magnifico. Magnifique. Très chic. Cool. Daje, Simba!

Leggenda racconta che Maas ci provò anche a chiedere alla compagnia olandese che si occupò di La vita di Pi di Ang Lee un leone in CGI più decente, ma gli si rispose che una sola sola scena sarebbe costata un milione di euro, un terzo del loro budget. La scelta di un vero micione non poteva essere comunque contemplata perché una legge olandese vuole che ad Amsterdam non si possono riprendere animali selvatici. Almeno così dice Imdb e noi chi siamo per non crederci?

Comunque Prey dovrebbe essere studiato da tutti gli idioti dell’orrore, del trash sbandierato, degli eco revenge alla Sy-Fy, degli Asylum con squali o fauna mutata, perché anche con il suo leone sgarruppato, ma fighissimo nel character design con la cicatrice alla Scar della Disney, è puro cinema europeo che guarda spavaldo Hollywood con sfida. “Mena il tuo colpo più duro, amico. Non mi fai paura“.

In più Maas non ci spiega mai i perché, sta a noi credere all’incredibile, a riempire i vuoti della sceneggiatura con la nostra fantasia. Un leone mutato? Un leone solo incazzato? Un predatore da un altro mondo? Certo che un felino alto due metri e pesante duecento kg a spasso per Amsterdam non è la cosa più digeribile da credere se non siamo all’interno di una barzelletta. Eppure, magia del cinema, della sacra arte da narratore del regista, della sua furia da cazzo di Priapo in un harem di vergini lascive, ci credi, oh se ci credi, e ti ritrovi in un cinema non cinema, fanculo il coronavirus, a mangiare popcorn, bambino e adulto, come ai tempi gloriosi di Spielberg e del suo tempio maledetto.

Dick Maas è un genio, mai ricordato, mai oggetto di studi, confuso con milleduecentocinquantatrè, col resto di due, carneadi del cinema, ingiustamente, mentre il suo posto è tra i grandi, i Mario Bava, i Jess Franco quando non facevano le supercazzole, i Roger Corman, e Laudato sii, o mio Signore nell’alto dei cieli, così sia e Amen, tante belle cose ai Corleone.

Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, magari non apprezzerete, ma così facendo vi perdete il bello della vita: gli umori mischiati nell’amplesso, la scarpetta nel sugo, le cazzate che ti portano a Cracovia una mattina che, nel prendere l’auto, DEVI andare a Milano a lavorare.

Prey – La preda, uscito ieri da noi direttamente in home video, è puro cinema che sporca, che vi lascia sorpresi, è un 2016 recuperato nel 2020 come fosse una merda da cestone da discount. Prey, come il suo leone gigante, irrompe nella calma placida di un mondo dove il cinema è solo tv camuffata da grande schermo e graffia, oh cazzo se graffia.

Andrea Lanza

Prey – La Preda

Regia/Sceneggiatura: Dick Maas

Interpreti: Victor Löw, Sophie van Winden, Julian Looman, Mark Frost, Lobke de Boer

Durata: 107 min. DISPONIBILE AMAZON

Doppio delitto

22 mercoledì Apr 2020

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, D, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, tette gratuite, tette vintage

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Annette Sinclair, Brittain Frye, Bunky Jones, Donna Baltron, doppio delitto, George Thomas, Hide and go shriek, Ria Pavia, Scott Fults, Skip Schoolnik, slasher, slasher fighi

Da noi Hide and Go Shriek uscì nel 1989, inspiegabilmente al cinema, a Maggio, con un divieto ai 14 anni. Inspiegabilmente perché a tanti horror/slasher del periodo spettava il solo passaggio in vhs, Venerdì 13 compreso, con i capitoli 6, 7 e 8 trattati come fondi di magazzino per videoteche coraggiose.

Invece il film di Skip Schoolnik, futuro produttore per Angel, lo spin off di Buffy l’ammazzavampiri, Sons of anarchy e The walking dead, fu editato persino dalla Columbia home video con un doppiaggio di tutto rispetto.

Certo il titolo italiano, Doppio delitto, non c’entrava una mazza con la vicenda, ti faceva confondere con una pellicola di Steno del 1977 interpretata da Marcello Mastroianni e Ursula Andress, e soprattutto non ti aiutava a capire che si trattava di uno slasher. Così in Italia il film passò inosservato su grande schermo, in vhs prese la polvere, non ne ricordo un passaggio, uno, in tv, e per 22 anni non ambì alla promozione in digitale. Fino all’arrivo della neonata Thunder video.

L’edizione dvd, con un video perfetto che manda in pensione la vecchia e scurissima videocassetta, restituisce dignità ad una pellicola che, di solito quando se ne parla, lo si fa denigrandola.

Rudy Salvagnini nel suo dizionario horror neanche lo cita e Pier Maria Bocchi, sulle pagine dello speciale slasher di Nocturno del 2003, lo liquida con veleno da viperetta “E pensare che questo cesso da noi possiede pure il nulla osta“. Sbaglia liquidando i personaggi come “di un’idiozia da enciclopedia” ma non sul fatto che il prologo, con l’assassino che sventra una prostituta allo stesso modo di Jack lo squartatore, non abbia molto senso col resto della storia.

Hide and Go Shriek arriva dopo Supermarket Horror (Chopping Mall) di Jim Wynorski, del 1986, e Giochi pericolosi (Dangerous Game) di Stephen Hopkins, del 1987, ma anticipa di un anno il capolavoro del sottogenere “chiusi in un grande magazzino in balia di un killer” ovvero Terrore senza volto (Intruder) di Scott Spiegel.

Il film di Skip Schoolnik, pur non calcando la mano sul sangue, è molto piacevole, scorrevole, con nudi gratuiti e deliziosi e una certa abilità nel gestire la suspense.

Certo a fare la parte del leone è soprattutto l’ambientazione, un negozio di mobili pieno di inquietanti manichini sorridenti, ma le scene di morte sono comunque ben girate, crudeli, e l’idea di un serial killer che si veste con i vestiti della precedente vittima per attirare la prossima è di quelle bizzarre ma interessanti.

Bunky Jones RIP

In più abbiamo gli effetti speciali di Screaming Mad George (Society), castrati è vero per non ottenere la X come rating, ma inventivi quanto basta: decapitazioni con ascensori, ventri perforati da braccia di manichini, corpi trafitti da spuntoni e tanto sangue vomitato dalle vittime.

Se si può accusare di qualcosa il film è che fa iniziare la sua danza di morte a più della metà della vicenda e si ferma a solo 3 omicidi su 8 possibili vittime. Per fortuna non ci annoia mai grazie a dialoghi abbastanza brillanti, a dei personaggi simpatici e soprattutto, come detto, alla generosità delle giovani protagoniste.

Il versante nudi e tette è gustoso soprattutto perché le quattro ragazze, Bunky Jones, Brittain Frye, Annette Sinclair e Donna Baltron, oltre a recitare più dignitosamente della media delle scream queen, sono di un bello inimmaginabile. A contrastare ci pensa un reparto maschile un po’ legnoso a livello recitativo e, nel caso del misterioso serial killer camaleonte, pure cagnesco e macchiettistico.

Donna Baltron, ad orecchio doppiata dalla Laura Lenghi di Neve Campbell, è la ciliegina erotica e inaspettata della torta: goffissima nei panni ingombranti della verginella con camicie di tre misure più grandi a coprirle le grazie, si lancia in uno scatenato spogliarello. “L’ho imparato guardando i porno” afferma e tutte le Demi Moore del mondo zitte.

Hide and Go Shriek, un po’ sulla scia di Nightmare 2 di Jack Sholder, è attraversato da una latente vena omosessuale con personaggi maschili che fanno allusioni sessuali mangiando languidamente banane o toccando il petto degli amici mentre discutono di ragazze. A difesa di questa tesi poi ci sono le motivazioni del killer, che non riveleremo ovviamente, e la sua tenuta da sadomaso alla Cruising nel finale. In più uno di questi ragazzi, Scott Fults, il più efebico, sembra ben poco interessato al sesso con la disponibile Ria Pavia.

Hide and Go Shriek, o Doppio delitto, con le sue luci alla Dario Argento, è un prodotto curioso, sconosciuto e sicuramente da recuperare ora che sta rivivendo una seconda, migliore vita in dvd.

Scopriamo purtroppo che la bellissima Bunky Jones, vista anche in Grotesque con Linda Blair, che all’epoca del film aveva appena 22 anni, morì, alle soglie dei 50, per cause ignote. Doppio delitto fu l’ultimo lavoro di una carriera di appena sei titoli. A noi piace ricordarla così, splendida ed eterna, in quella magia che solo il cinema possiede.

Andrea Lanza

Doppio delitto

Titolo originale: Hide and go shriek Aka “Close yor eyes and prey”

Anno: 1988

Genere: horror/slasher

Regia: Skip Schoolnik

Interpreti: Bunky Jones, Brittain Frye, Annette Sinclair, George Thomas, Donna Baltron, Scott Fults, Ria Pavia, Sean Kanan, Scott Kubay, Jeff Levine, Michael Kelly

90 min. DISPONIBILE SU AMAZON

Robot Jox

10 venerdì Apr 2020

Posted by andreaklanza in azione, B movie gagliardi, fantascienza, il grande freddo, Recensioni di Manuel Ash Leale, robot malvagi

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Anne-Marie Johnson, charles band, Danny Kamekona, empire, full moon, Gary Graham, Hal Yamanouchi, Hilary Mason, Ian Patrick Williams, Michael Alldredge, michael bay, Paul Koslo, Robert Sampson, robot, stuart gordon, Transformers

Siamo ormai nel 2020 inoltrato. Nell’ultimo anno abbiamo avuto due attentati terroristici, un impeachment presidenziale, l’abdicazione di un imperatore, l’incendio di una delle cattedrali più famose del mondo, un’ondata di proteste sociali a Hong Kong e Greta Thunberg. Per non farci mancare nulla abbiamo anche una pandemia di portata quasi mondiale. È in momenti come questi che ripenso a quanto la vita fosse più facile quando eravamo bambini. Perlomeno quando quelli della mia generazione erano bambini, ma non fate tanto i giovani adolescenti che presto toccherà anche a voi bere la tisana serale e digerire un Whopper dopo due giorni. “Gli anni d’oro del grande Real, gli anni di Happy Days e di Ralph Malph” cantava il nostro amato bardo della disillusione generazionale, Max Pezzali, e al diavolo le sue verità e la lacrimuccia che scende ogni volta che l’attualità mi rende malinconico. Sì, perché un figlio degli eighties come me si porta dentro una lezione importante, una verità incisa nella carne che nessuna candelina in più sulla torta potrà mai cancellare: quando la terra è avvolta in tempi bui, quando l’umanità è in pericolo, quando ogni speranza vacilla volgi gli occhi al cielo e aspetta…un Super Robot ci salverà!

Che ci volete fare, siamo cresciuti a girelle, tè freddo e robot giapponesi, è impossibile non avere gli occhi lucidi pensando al “cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà” e che “difendiam la Terra dall’ombra della guerra”. Che poi potremmo stare ore a parlare delle differenze fra real robot e super robot, ma chissenefrega: i robottoni sono giganteschi, hanno un arsenale di armi che farebbe impallidire i cattivoni russi dei film anni ’80 e sono pilotati da esseri umani. Non esiste, ripeto, non esiste nulla di più figo di un Robot gigante da pilotare per combattere il male e non nascondiamoci dietro un dito, avere un Megazord a portata di mano è il sogno di ogni maschietto. Non importa che la dura realtà ci rovesci merda addosso e uccida i nostri sogni d’infanzia, dateci un Megazord e renderemo il mondo un posto migliore. Così, nell’impossibilità di pilotare Gundam, ci consoliamo con i vari Transformers che il Sommo Michael Bay ci regala e con le estemporanee sorprese alla Pacific Rim di Guillermo Del Toro. Ma, ormai lo sapete che c’è sempre un “ma”, c’è un’altra persona che, nel 1990, ha tentato l’impresa di rendere reali i Super Robot: prima di Bay, prima di Del Toro, c’era Mister Stuart Gordon.

Il suo nome non è certo nuovo ai cultori dell’horror, essendo il geniale regista di due cult come From Beyond (1986) e soprattutto Re-Animator (1985). Classe 1947, Gordon è uno dei Masters of Horror e in una carriera durata fino a questo infausto anno ha diretto gente come Oliver Reed, Joe Mantegna, Christopher Lambert, William H. Macy, Mena Suvari, Lance Henriksen e pure il nostro Luca Zingaretti. Ma era il 1987 quando il regista statunitense rimase in qualche modo affascinato dal successo ottenuto dal media franchise Hasbro/Takara Tomy dei Transformers, altro pezzo della nostra infanzia. Il concept stimolò la sua fantasia, e da lì a proporre un film dove Robot giganti combattevano fra loro il passo fu breve. Insieme allo scrittore Joe Haldeman e all’amico Charles Band con la sua Empire International Pictures, Gordon diede vita a Robot Jox.

Con diversi milioni di dollari di budget, alcune fonti dicono sei altre dieci, tutto quello che la Empire potesse permettersi, il film racconta di un futuro dove il mondo è sopravvissuto a un olocausto nucleare. Si è deciso quindi di vietare ogni guerra e le nazioni si sono divise in due sole fazioni: da una parte il Mercato e dall’altra la Confederazione. Il solo modo per dirimere le dispute territoriali è un combattimento fra due enormi mecha, pilotati dai Robot Jox. Achille e Alexander, i due piloti delle opposte forze governative, si affrontano in grandi arene mettendo in gioco la loro vita per la causa. Insomma, cosa si vuole di più? Siamo nel 1990 e abbiamo un film con Robot alti come grattacieli, piloti cazzuti e battaglie nelle arene. E questo nove anni prima del prodigio che segnò la netta divisione fra pre e post, Matrix. Un sogno per molti ragazzini appassionati, non fosse che Robot Jox fu un poco sfortunato. In primis Gordon e Haldeman si trovarono in forte disaccordo sul tono generale del film, in quanto il primo voleva un film per ragazzi godibile anche dagli adulti e il secondo desiderava esattamente l’opposto. E poi il budget ridusse praticamente la Empire in bancarotta e per salvare tutta l’operazione dovette intervenire un’altra casa di produzione.

  • Stuart ci mancherai

Naturalmente i problemi di budget minarono il film quasi totalmente, sebbene la stop motion del grande Dave Allen è stata capace di regalarci un’introduzione incredibile, da bava alla bocca. E infatti è qui, in scene come questa, che Robot Jox dà il meglio, dove Stuart Gordon si sente a suo agio e nel pieno della sua idea e dove prende a calci il low budget creando momenti tesi fra lo spettacolare e il divertente, dimostrando ancora una volta la sua genialità. Tutto questo purtroppo non salva quella che avrebbe potuto essere un opera assolutamente memorabile e degna, questa sì, di un remake hollywoodiano. Troppe teste, troppe idee diverse e pochi soldi: Robot Jox resta in quel limbo magico e dannato, fra il patetico e il sublime, dove risiedono le leggende, ed è lecito credere fermamente che con un budget più alto sia la visione di Gordon che quella di Haldeman sarebbero diventate pietra di paragone. Ma la realtà, ancora una volta, si è prodigata come un Tristo mietitore per rovinare i nostri sogni di bambini, almeno fino a quando Michael Bay ha deciso altrimenti. E si sa, contro Bay neppure la vile Realtà può nulla. Ma questa è un’altra storia.

Stuart Gordon ha segnato pagine cult e indimenticabili del Cinema horror, vincendo anche come miglior regista al nostro Fantafestival, nel 1998, con Il meraviglioso abito color gelato alla panna, scritto da quell’innovatore di Ray Bradbury. Se n’è andato pochi giorni fa, il 24 Marzo a 72 anni, in questi tempi assurdi di virus e quarantena, a causa di una sindrome sistemica. Con lui se ne va un grande autore horror, un uomo che non ha mai visto nel Genere del semplice escapismo, bensì la possibilità di manifestare il tuo talento autoriale. E l’ha fatto fino alla fine, con la sua carica sovversiva, il suo amore per la settima arte e per quel Cinema di Genere che, forse, adesso inizia davvero a scomparire.

Manuel “Ash” Leale

Robot Jox

Anno: 1989

Genere: fantascienza

Regia: Stuart Gordon

Interpreti: Gary Graham, Anne-Marie Johnson, Paul Koslo, Robert Sampson, Danny Kamekona, Hilary Mason, Michael Alldredge, Ian Patrick Williams, Hal Yamanouchi, Stuart Gordon (non accreditato)

Durata: 85 min

We Die Young

15 domenica Mar 2020

Posted by andreaklanza in azione, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, Van Damme, W

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rai4, van damme, we die young

Sono passati i tempi d’oro per il belga Van Damme. Vuoi per l’età, ormai un sessantenne dal fisico ancora competitivo ma dal volto segnato, vuoi per un cinema d’azione di serie B coi soldi che non esiste più, ora il nostro si aggira come uno spettrale antieroe in tante produzioni povere per il mercato europeo. E’ proprio in questi lowbuster made in Bucarest, la Hollywood delle tendopoli della settima arte, che la non più star Van Damme ha affinato le sue doti recitative come un attore fallito costretto a passare dalla grande sala al teatro Off-Broadway. Così lo vediamo interpretare personaggi sempre più sofferti come il buttafuori che si immola per la figlia nello struggente The bouncer di Julien Leclercq. La sua figura troneggia in questi prodotti hot dog da cestone del supermercato, alcuni dignitosi come il concitato Pound of Flesh dello specialista Ernie Barbarash, altri indecorosi come l’orribile Black Water, girato insieme al compagno di merende Dolph Lundgren. Più che il collega Steven Seagal, ormai un cartonato appiccicato con photoshop in tante produzioni dello stesso mercato, Van Damme è diventato un marchio, una qualità in pellicole che senza di lui, magari avendo pure buone storie, non si sarebbe cagato nessuno. Fermo restando che siamo in pochi, quasi una partigianeria, ad esaltarci per un nuovo action vandammiano in uscita. I più lo hanno dimenticato, digerito e confuso tra le stelline degli anni 80, cosa che i muscoli da Bruxelles non sarà mai, con buona pace dei vari Mark Dacascos e Michael Dudikoff.

We die young è un dramma dalle forti tinte action, nel quale Van Damme è comprimario in una storia che vede la fuga di due fratelli, un adolescente e un bambino, da una gang latina di spacciatori. Il suo Daniel è un perdente, fin dalle prime scene, un tossico in balia degli incubi di guerra, incapace di parlare per via di una ferita alla gola, che per caso diventata il deus ex machina di una vicenda spinta verso le corde del dramma.

I fan della star belga siano avvertiti: non ci saranno calci o spaccate, We die young segue la strada del verismo e dei combattimenti da strada, poco spettacolari ma molto sanguinosi. Questo lo ribadisce anche il nostro Jean Claude in un’intervista al portale comingsoon “La gente pensa che sia un film d’azione, ma c’è solo un 20% di azione, verso la fine. E’ un tipo di film diverso, gli attori sono anche migliori di me. Non che io non sia bravo, intendiamoci! Parla di comunità da cui, quando ci nasci, è difficile allontanarsi. Quando sono stato in Texas, mi hanno fatto incontrare alcune di quelle persone menomate tornate dalla guerra. Ho pensato subito di accettare, anche se non ero di certo nelle loro condizioni. Parlare con quella gente mi ha aiutato molto per il film. In We Die Young sono realistico, dico cose vere, sono quel tipo di personaggio“.

Sul fatto che il film abbia solo un 20% di azione non è propriamente vero, ma è sicuro che la macchina da presa di Lior Geller, regista di un cortometraggio molto apprezzato, Roads, abbia buon occhio per le scene d’inseguimento. Il momento nel quale i fratellini entrano nella macchina del meccanico Daniel è molto concitato, con un senso del ritmo palpabile e sparatorie improvvise che sfociano in una inaspettata morte.

Il modello forse era anche il bellissimo e inarrivabile Gran Torino di Clint Eastwood, ma We die Young, pur avendo dalla sua anche dei buoni attori sconosciuti, una certa finezza nei dialoghi e un interesse quasi da tragedia shakesperiana nel tratteggiare le varie psicologie, paga la debolezza di una sceneggiatura non all’altezza e con azioni non sempre chiare o plausibili dei suoi personaggi.

Siamo nello strano mondo, un po’ come era, in maniera migliore, il precedente The bouncer, dei B movie con intenzioni, che cozzano prepotente con le logiche del mercato di cassetta, un’opera non brutta, anzi piacevole, che grida autorialità ad un pubblico che vuole solo divertimento e due scazzottate.

Girato in parte negli States, soprattutto Washington, ma nella maggior parte in Bulgaria, con un budget di appena 4 milioni di dollari, We die young è un film che potrebbe riservare più di una sorpresa, ma che non graffia purtroppo come dovrebbe, restando quell’ibrido che per molti sarà indigesto.

Da noi è uscito su Rai4 con un doppiaggio non disprezzabile e presto debutterà in home video, saltando ovviamente il cinema, terra non più fertile per i nostri eroi marziali dell’infanzia. Noi però restiamo come i CCCP, sempre fedeli alla linea, sempre con i nostri eroi, anche nella loro nuova dimensione miserabile, povera ma sicuramente affascinante.

Andrea Lanza

We Die Young

Regista: Lior Geller

Genere: Azione, Drammatico

Anno: 2019 – Bulgaria, USA

Interpreti: Jean-Claude Van Damme, Uriel Emil Pollack, David Castaneda

Durata 92 minuti.

Quando Marta urlò dalla tomba

12 mercoledì Feb 2020

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Quando Marta urlò dalla tomba era passato un anno da quella notte del 1971 che vide Evelyn uscire, anche lei, dal regno dei morti, senza gridi o gemiti però. Il titolo italiano sicuramente voleva riallacciarsi al fortunato thriller quasi soprannaturale di Emilio P. Miraglia e, come quello, metteva in scena una storia dalla forte dimensione horror per buttarsi, gli ultimi minuti, in una cornice da giallo realista. La mansión de la niebla, il titolo originale, invece, pur se non così d’impatto, risultava più attinente ad una vicenda che non vedeva mai per assurdo la Marta del titolo urlare dal suo sepolcro. Certo ci sono ben due zombi, una dama in nero e un autista, vittima, si vocifera, di vampirismo, ma, come detto, la nostra Marta non fa parte (forse) del regno dei morti, anzi si è barricata in casa, come vedremo nella vicenda, per sfuggire a questi mostri assassini e spietati.

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A girare questa interessante thriller del terrore è Francisco Lara Polop, il produttore di due cult iberici, I diabolici amori di Nosferatu e Il mostro dell’obitorio, entrambi con la star Paul Naschy. La sua carriera registica fortunatamente non si fermò con quest’opera prima, ma continuò fino al 1990, con ben 24 pellicole, tutte confezionate con un interessante estro visivo.

Non fa difetto questo Quando Marta urlò dalla tomba con una location inquietante, fuori dal tempo e lo spazio, una villa gotica sulla strada per Milano (ma il film fu girato a Madrid), coperta da una coltre di nebbia impenetrabile ben prima della mania dei fog degli anni 80. Qui una serie di personaggi con i peccati più disparati si trova a dover passare la notte e ad affrontare i due spettri che infestano la zona. Si muore in Quando Marta urlò dalla tomba soprattutto per spavento, un infarto che colpisce gli sventurati a faccia a faccia con la morte.

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Ottimo il trucco dei due fantasmi/zombi/vampiri (o qualunque cosa siano): viso cadaverico sulla scia de I Tre volti della paura, episodio La goccia d’acqua, mentre si avvicinano lentamente verso la prossima vittima. Inquietudine ampliata anche grazie al tenebroso score di Marcello Giombini, uno dei più terrorizzanti partoriti negli anni 70. In più il loro essere onnipresenti, quasi capaci di materializzarsi in ogni luogo per saltarti alle spalle, anticipa di un decennio i morti viventi di Paura di Lucio Fulci.

Il cast è formato da facce più o meno note, capitanate dalla nostra Ida Galli con il solito pseudonimo di Evelyn Stewart, presenza d’incredibile bellezza dei nostri più celebri horror e thriller settantini da La coda dello scorpione di Sergio Martino passando per Il coltello di ghiaccio di Umberto Lenzi fino al capolavoro fulciano Sette note in nero.

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Quando Marta urlò dalla tomba non abbonda di sesso e sangue, ma su internet un utente di imdb parla di una versione, uscita in vhs per la Something Weird Video, di quasi 86 minuti contro gli 83 vulgati, presa da 35 mm, che contiene scene più calcate sul versante lesbo (forse la sequenza tra Evelyn Stewart e Analía Gadé in camera da letto). Ho cercato dappertutto questa videocassetta, inutilmente.

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Quando Marta urlò dalla tomba purtroppo non si può dire completamente riuscito a causa di  un epilogo che manda a quel paese tutto quello che di buono c’era prima, una sciocchezza narrativa che ricorda i peggiori episodi di Scooby Doo. Anche in quei momenti però di sconforto totale dove ti aspetti l’arrivo della polizia, pronta a portare via il guascone truffatore mentre, vestito da Conte Dracula, declama “Se non ci foste stati voi impiccioni ce l’avrei fatta”, il film ha comunque quei guizzi da opera bellissima e imperfetta. Saranno gli scantinati invasi dai ratti, il manichino che non sai perché un secondo prima tutti hanno confuso per un cadavere o la cattiva che muore male cadendo con la testa sul fuoco acceso, una fine terribile ma concettualmente stupenda.

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Ecco che allora a Quando Marta urlò dalla tomba non puoi voler male e ti dispiace solo che la traccia in italiano sembra sia scomparsa per sempre ma anche il capire non capire la trama fa parte del suo carisma da opera maledetta e perduta.

Andrea Lanza

Quando Marta urlò dalla tomba

Titolo originale: La Mansion De La Niebla

Anno: 1972

Regia: Francisco Lara Polop

Interpreti: Ida Galli, Analia Gadè, Lisa Leonardi, Alberto Dalbes, Eduardo Fajardo, Yelena Samarina, Franco Fantasia, George Rigaud, Andres Resino, Ingrid Garbo

Durata: 83 min. 

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Il mostro dell’obitorio

26 domenica Gen 2020

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Adolfo Thous, Alberto Dalbés, Alfonso de la Vega, Antonio Pica, Antonio Ramis, Ángel Menéndez, cadaveri veri, El jorobado de la morgue, Fernando Sotuela, film spagnoli, gobbi, I diabolici amori di Nosferatu, Il mostro dell'obitorio, jacinto molina, Javier Aguirre, Joaquín Rodríguez 'Kinito', lovecraft, Manuel de Blas, María Elena Arpón, Maria Perschy, necronomicon, paul naschy, Rosanna Yanni, Sofía Casares, topi bruciati, Víctor Alcázar

Nel 1973 Jacinto Molina gira col nome d’arte di Paul Naschy ben 8 film, due con la regia di Javier Aguirre, I diabolici amori di Nosferatu (El gran amor del conde Drácula) e questo Il mostro dell’obitorio (El jorobado de la Morgue), esempi perfetti di un cinema spagnolo horror in piena esplosione creativa. Serie B sicuramente, ma allo stesso modo di una serie B che vantava nomi come Roger Corman, Mario Bava o Antonio Margheriti, così avanti nel tempo da essere marchiata come immondizia dai critici dell’epoca.

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Javier Aguirre non aveva lo stesso estro visivo di León Klimovsky, il poeta delle vampire nude in slow motion, ma possedeva un occhio unico per raccontare melodrammi camuffati da horror alla Hammer. Basti pensare al già citato I diabolici amori di Nosferatu, un film denso di suggestioni, di seni bagnati da sangue fresco, di una Spagna fotografata come fosse davvero la Transilvania, ma soprattutto, se memoria non mi inganna, il primo che porta sullo schermo un Dracula romantico e innamorato, prima di Coppola e un anno di anticipo su Il demone nero di Dan Curtis.

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Questo Il mostro dell’obitorio, scritto dallo stesso Molina con il regista e Alberto S. Insúa (che curerà soprattutto i dialoghi), racconta soprattutto l’amore impossibile tra un gobbo disprezzato da tutti e una ragazza appena morta, una storia atroce, miserabile e melodrammatica, un feuilleton ottocentesco shakerato però con la versione harcore degli omicidi dei ladri di tombe Burke & Hare. Così il gibboso Gotho, preso a sassate dai bambini, ultimo della scala sociale, si rivela come un Candido voltairiano, spinto all’omicidio non solo per una passione inesistente, ma soprattutto perché buggerato da uno spietato mad doctor. Infatti, ed è nei sottotesti che Il mostro dell’obitorio diventa una potente critica alla dittatura franchista, il gobbo diventa strumento del potere perché, parole del dottore plagiatore, ” anche la persona più miserabile può essere d’aiuto alla scienza e all’umanità, dev’essere solo guidata da un vero capo”. Per questo Gotho uccide spietatamente giovani donne: per l’illusione di una bugia, il poter resuscitare una ragazza che non l’ha mai contraccambiato, così come fanno i soldati pedina, spinti dagli ordini dei comandanti, a commettere i più nefasti crimini in nome di un bene fallace. La mai stata sua Elsa non tornerà mai dalla morte, anzi sarà prima divorata dai topi poi sciolta nell’acido, ma il gobbo non si fermerà in quel’idea romantica di amore che conduce alla fine, ripagato dal suo stesso mandante con una serie di colpi di pistola.

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Paul Naschy è qui forse nella sua interpretazione migliore, quella che non viene penalizzata, come per l’elegante conte Dracula, da una fisicità tozza da scaricatore di porto. Difficile non provare empatia per lui e le sue disgrazie soprattutto quando chiede all’unica donna che sta per concedersi a lui di “Non prenderlo in giro come tutti“. Se non fosse un horror splatter con mani di cadavere amputate e teste grondanti sangue ci sarebbe da commuoversi, ma è proprio questo strano pastiche di generi eterogenei, il romanticismo e la violenza grafica, a rendere unica la visione dell’opera.

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La parte horror è limitata soprattutto alla seconda metà quando, citando i Grandi Antichi e il Necronomicon, il film acquista la dimensione di un adattamento spurio di Lovecraft. Anche questa è la bellezza de Il mostro dell’obitorio, l’essere un’opera che muta e cresce al pari della sua creatura di carne sanguinante, chiusa in un vaso e lì lì per aumentare a dismisura finché, come urla lo scienziato, “Ci divorerà tutti!“.

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A differenza di tanti prodotti del terrore spagnolo dell’epoca i nudi in questo caso non sono moltissimi e sono concentrati soprattutto nell’amplesso tra Gotho e la bella Rosanna Yanni. Il dvd Sinister, da poco uscito, pur con la sua sfavillante qualità video che esalta la fotografia di Raúl Pérez Cubero, si presenta tagliato, con la scena citata presente negli extra, a differenza del precedente disco della Mosaico, brutto da vedere ma in versione integrale.

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Paul Naschy vinse per la sua interpretazione il premio Georges Méliès all’International Fantastic Film Festival di Parigi nel 1973 soprattutto grazie alla magnifica scena dove scaccia, dal cadavere della sua amata, un gruppo di ratti particolarmente feroci. Il nostro dichiarò dell’esperienza:

“Abbiamo raccolto tutti questi topi delle fogne reali di Madrid perché ne avevamo bisogno di grandi, e sono stati tutti disinfettati e vaccinati con l’anti-rabbia. Poi i miei pantaloni sono stati strofinati con grasso unto e i roditori, che non erano stati nutriti per circa una settimana, mi sono saltati addosso, attaccandomi in modo davvero feroce e mordendomi dappertutto”.

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Di altro parere però era il regista Javier Aguirre, intervistato dal giornalista Diego Lopez per la rivista spagnola The cursed ship:

“A Sitges, durante un’intervista fatta da alcuni olandesi, Paul mi ha detto: “Javier, non dire come sono andati i fatti, la cosa interessante è dargli un po ‘di drammaticità.” Mi dispiace di non poter assecondare Jacinto in questo, ma se me lo chiedi, dico la verità. I topi che lo hanno attaccato erano innocenti topi da laboratorio bianchi dipinti di grigio. Questa è la verità“.

Topi da laboratorio o no, anche se sembrano davvero ratti, molti di questi finirono realmente bruciati vivi durante la sequenza.

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Altro aneddoto interessante è l’uso di un vero cadavere nelle riprese. La storia viene sempre raccontata dallo stesso Naschy nella biografia Memorias de un hombre lobo del 1997:

“Nell’obitorio in cui stavamo effettivamente girando c’era un cadavere che stava per essere sezionato, e il regista mi ha chiesto se fossi stato in grado di fargli un vero taglio sul collo. Ci ho pensato, ho preso un whisky, mi sono preparato e ho fatto quello che mi era stato chiesto. Niente di più o di meno di una ferita”.

Le uniche note di demerito di un’opera comunque notevole vanno soprattutto alla partitura non eccelsa di Carmelo A. Bernaola e al montaggio sbarazzino di Petra de Nieva. Efficaci invece, anche nella povertà del budget, sono gli effetti speciali di Miguel Sesé sia nel make up del gobbo che nella costruzione della creatura. Anche il cast, se si esclude un ottimo Naschy, è nella media discreta delle produzioni di serie B dell’epoca.

Il mostro dell’obitorio è un film che sul groppone ha quasi 50 anni ma che ci sentiamo di consigliare: moderno, avvincente e capace di sorprendere, la dimostrazione che il cinema spagnolo anni 70 era uno dei più belli del mondo.

Andrea Lanza

Il mostro dell’obitorio

Titolo originale: El jorobado de la morgue

Anno: 1973

Regia: Javier Aguirre

Interpreti: Paul Naschy, Rosanna Yanni, Víctor Alcázar, María Elena Arpón, Maria Perschy, Alberto Dalbés, Manuel de Blas, Antonio Pica, Joaquín Rodríguez ‘Kinito’, Adolfo Thous, Ángel Menéndez, Fernando Sotuela, Antonio Ramis, Alfonso de la Vega, Sofía Casares

Durata: 82 min.

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Dr. Jekyll y el hombre lobo

21 martedì Gen 2020

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, D, licantropi, Recensioni di Andrea Lanza, tette gratuite, tette vintage

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Barta Barri, Doctor Jekyll and the Werewolf, Dr. Jekyll y el hombre lobo, Elsa Zabala, jack taylor, Josè Marco, leon klimovsky, Lucy Tiller, Luis Induni, Maria Luisa Tovar, Marisol Del Gado, Mirta Miller, paul naschy, Shirley Corrigan

Ah la Spagna! I loro film del terrore, soprattutto durante gli anni 70, avevano una marcia in più rispetto a qualsiasi altra produzione. Anche nel caso dello sgarruppato ma delizioso L’orgia notturna dei vampiri, capace di sublimare gli stessi ingredienti che per la Hammer, nello stesso periodo, erano invece segnali di decadenza: l’erotico gotico. Come un giornalaccio sadoporno, così i film spagnoli ci portavano in un universo attraversato da bellissime e nudissime donne, oggetto di desiderio di deformi creature. Era un cinema senza tempo, nel quale i mostri della Universal, privati del solito bianco e nero, vivevano passioni di sangue e libido, tutto così moderno anche nell’impostazione classica delle storie.

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Jacinto Molina era un regista, uno sceneggiatore e attore, noto col nom de plume di Paul Naschy. Nella sua carriera interpretò 119 film, ne scrisse 53 e ne diresse 23, ma la sua fama la si deve soprattutto dal personaggio di Waldemar Daninsky, nobile polacco oppresso dalla maledizione del lupo mannaro, ispirato al Lon Chaney Jr. del classico The Wolf Man, 1941, di George Waggner. Per il primo film della serie, La marca del Hombre Lobo (da noi Le notti di Satana), 1968, di Enrique L. Eguiluz, si pensò proprio a Lon Chaney Jr., ma, al rifiuto di questi, Molina/Naschy ricoprì il ruolo principale dando il via ad una vera saga, disomogenea e senza molti collegamenti, durata ben 13 pellicole, e conclusasi nel 2004 con l’abominevole Tomb of the Werewolf di Fred Olen Ray.

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Questo Dr. Jekyll y el hombre lobo è il sesto capitolo delle vicissitudini del povero Waldemar Daninsky, quasi sempre ucciso alla fine della pellicola precedente e resuscitato la volta dopo senza molte spiegazioni. Qui lo troviamo in mezzo ai Carpazi (in realtà la periferia di Madrid), temuto dagli abitanti del luogo, non solo in quanto licantropo ma anche perché amico di una vecchia strega dal nome altisonante di Uswika Bathory. Tutto procede per il verso giusto sennonché il cammino del lupo mannaro si incrocia con quello della bella e bionda Justine, assaltata da un gruppo di infoiatissimi briganti assassini. Tutta questa tranche copre la prima parte del film, il momento più classico dell’opera, e si conclude quando, decapitata Uswika Bathory, i paesani, armati come nel più classico cliché di torce e forconi, decideranno di assaltare il castello del licantropo. Solo che Waldemar Daninsky è su un aereo destinazione Londra con la bella Justine, innamorata pazza di lui pur avendo vissuto, giorni prima, l’omicidio brutale del marito. Le sorprese però non finiscono: ad aspettarli c’è qualcuno che può aiutare il nobile polacco a guarire dalla licantropia, il pronipote del Dr. Jekyll. Merda, aggiungo io.

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La seconda parte, quella londinese, è la più assurda ma anche la più scatenata e divertente. Chiunque sia dotato di un po’ di sale in zucca sa che non è saggio fidarsi del Dr. Jeckyll o di un suo parente, al pari del soggiornare nel lussuoso castello del Conte Dracula, perché, amico mio, è una legge incisa dai tempi della Bibbia e Mosè, anche il mostro più buono sotto sotto è malvagio, ma non poco eh, da risata con la testa rovesciata all’indietro, muahahahah, e allora sono, scusa il francesismo, cazzi tuoi.

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Il Dr. Jeckyll (interpretato dal franchiano Jack Taylor) però stavolta non è malvagio, è solo innamorato della bella Justine, non contraccambiato ovviamente, e, per amore, decide appunto di salvare il nuovo compagno di lei dalla licantropia. Come però? Beh la cosa non ha molto senso, ma possiamo riassumerla così: durante la luna piena, il siero del dottore trasformerà Waldemar Daninsky in Mr. Hyde (“Il male allo stato puro“), ma, essendo già un lupo mannaro, i due lati malvagi si annulleranno restituendo al mondo finalmente il nostro nobile polacco in forma umana. Facile eh? Quasi. Sfiga vuole che il Dr. Jeckyll si spipetti con le foto di Justine ignorando bellamente l’assistente Sandra che, innamorata a sua volta di lui, lo pugnalerà alle spalle liberando il perfido Hyde per far torturare la rivale in amore.

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Diciamo che Sandra non è proprio il più cesso sulla faccia della terra, anzi è interpretata dalla bellissima Mirta Miller, attrice che noi malastrani conosciamo almeno per altri due Paul Naschy movie, I diabolici amori di Nosferatu e La vendetta dei morti viventi, ma anche per un giallo lenziano spagnolo, Gatti rossi in un labirinto di vetro. Solo che, in Dr. Jekyll y el hombre lobo, la ragazza non trasuda molta intelligenza: pensa che, come un genio della lampada, il perfido Mr. Hyde le ubbidirà e invece, come ogni buon cattivo che si rispetti, la impalerà su degli spuntoni ridendo gaglioffo. Altra regola: non fidarsi mai dei mostri.

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Paul Naschy, in versione malvagio, sfoggia un look incredibile: bombetta in testa, cerone in faccia e una mantellina striminzito stile Conte Dracula, ma della misura di un bambino di 8 anni. In più la fisicità penalizzante dell’attore, tozza e sgraziata, non lo rendono mai affascinante come vorrebbe il copione ma ce lo fanno apparire tipo una versione horror di John Belushi o del suo molesto sosia John DiSanti. Una cosa che fa abbastanza ridere.

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La parte del leone però in Dr. Jekyll y el hombre lobo non la fa di certo la trama, ma le invenzioni visive di uno scatenato León Klimovsky, un regista capace di passare con prorompente efficacia da un genere all’altro, sia un western cazzutissimo come Su le mani, cadavere! Sei in arresto che un horror vampirico, altrettanto affascinante, come Le messe nere della contessa Dracula. Soprattutto, durante la seconda parte della pellicola, possiamo assistere a scene ottimamente girate, e già pronte per essere cult assolute, come una trasformazione in ascensore di Waldemar Daninsky in licantropo o l’omicidio di una prostituta, con la telecamera che osa inquadrature azzardate e anomale, da parte di un Mr. Hyde sbavante.

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C’è però un momento che Dr. Jekyll y el hombre lobo si frena e non riesce a regalare una sequenza che, sulla carta, è potentissima: l’arrivo improvviso del lupo mannaro in una discoteca, un momento che si prestava ad un’orgia di sangue e che invece ci mostra miseramente il mostro che ringhia da poser mentre la gente se la da’ a gambe. Zero morti. Che cazzo, Daninsky!

Per il resto la pellicola, anche con un finale assurdamente melò e tragico, è ottima e regala anche qualche risata, soprattutto davanti alle cattiverie gratuite di Mr. Hyde, il più delle volte semplici marachelle da bambino birbone. Basti assistere, non senza sgomento, al malvagio che spinge un ubriaco in un fiume e poi scappa ribaldo nella notte.

La versione spagnola con le attrici vestite è certamente meno divertente di quella internazionale: in quest’ultima il licantropo non morde solo il collo delle sue vittime ma prima le spoglia tutto libidinoso. In questa forma di horror scollacciato dove Hyde frusta Justine tutta nuda e poi la violenta, il film ha il suo perché da vero popcorn movie di mezzanotte, scorretto e adatto ai ragazzacci come noi.

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A interpretare la bella coprotagonista è la svedese Shirley Corrigan, attrice tra Spagna e Italia in decameronici, thriller o bizzarri film di kung fu come la coproduzione con Hong Kong, San sha ben tan xiao fu xing ovvero Tre idioti maldestri incontrano Hsiao Fu-sheng, un delirio che unisce il rapimento di Paul Getty ai combattimenti di arti marziali. La carriera della giovane finì prima dell’inizio degli anni 80 quando un suo stalker la fece quasi morire in un incidente d’auto: da lì la decisione di ritirarsi dalle scene.

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Shirley Corrigan

Purtroppo da noi Dr. Jekyll y el hombre lobo è inedito e nessuno si è mai preso la briga, in Italia, di editare queste perle del passato. Ne risulta, per citare il grande Paulie, cognato di Rocky Balboa, che “La vita fa più schifo della merda” visto che in dvd possiamo trovare comodamente un Decoteau brutto come la fame a caso, ma non un Klimovsky d’annata, a parte quei due o tre titoli, stuprati comunque in orribili versioni italiane.

Andrea Lanza

Dr. Jekyll y el hombre lobo

Anno: 1972

Regia: Leon Klimovsky

Interpreti: Paul Naschy, Shirley Corrigan, Jack Taylor, Mirta Miller, Josè Marco, Luis Induni, Barta Barri, Elsa Zabala, Lucy Tiller, Marisol Del Gado, Maria Luisa Tovar

Durata: 96 min

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Wanted – Vivo o morto

27 martedì Ago 2019

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blade runner, gary sherman, monologo, rutger hauer, wanted vivo o morto, Wanted: Dead or Alive

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…”.

Lo conoscete tutti, vero?

Il monologo che, nel finale di Blade Runner, consacra un attore olandese scortandolo nella Storia del Cinema. Quante cose si sono dette e scritte sul film di Scott, quante su quel monologo che spesso è citato da chi nemmeno sa cosa sia Blade Runner. La maledizione dello spettatore medio: non so di cosa parlo, ma lo faccio molto bene. Una situazione che non si è certo fermata al 1982, ma che pure attualmente miete vittime illustri, come i supereroi Marvel indossati da gente che, fino al giorno prima, dava del nerd sfigato al lettore di comics. Croce e delizia della potenza cinematografica, suprema e dannata democrazia della settima arte. Ma non sottraiamoci al gioco, il monologo di Blade Runner è troppo iconico, facile riconoscerlo. “Trova lei e troverai il lupo che cerco, il lupo che voglio…il lupo che la ama”. Troppo facile anche questo, sono sicuro che abbiate detto Ladyhawke in poco tempo. Facciamola più difficile: “Io non sono un criminale, sono un soldato e come un soldato merito di morire” – “Tu non sei un soldato, tu sei un insetto su un mucchio di merda”. Vi lascio un minuto, ma niente Google, non vale.

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A chi di voi ha indovinato vanno i miei complimenti, mi tolgo il cappello, non è facile. A tutti gli altri, perlomeno a coloro che non sono dei piccoli e ridicoli poser, do un nome, una data e un titolo: Rutger Hauer, 1986, Wanted: Dead or Alive. Come ho scritto poco prima non era facile, questo film non è certo tra i più famosi interpretati da Hauer e forse proprio per questo risulta tanto interessante. Diretto da Gary Sherman, regista di Morti e sepolti, Poltergeist 3 e Lisa… sono qui per ucciderti!, con il dolce visetto di Staci Keanan, Wanted si colloca nei classici action anni ’80, dove il nostro eroe di turno, sicuro di sé e imbattibile, fa piazza pulita dei nemici. Con più gusto se questi sono stranieri stereotipati che vogliono colpire la santa madre America. Cliché a parte, fate pace con voi stessi a riguardo, il razzismo spiccio derivante dalla società degli eighties è sempre un curioso leitmotiv, ed è incredibile come chi sia cresciuto in quegli anni ci passi sopra, menefreghismo a palate, vogliamo i terroristi cattivi crivellati di colpi. Se prima il nemico aveva gli occhi a mandorla, ora ha la pelle olivastra. Dio benedica l’occidente!

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Il film di Sherman decide che la minaccia debba arrivare dal Medioriente e per darle il volto sceglie il bassista e cantante della hottest band in the world: Gene Simmons. È meraviglioso pensare che a interpretare un terrorista arabo si scelga un uomo nato ad Haifa, in Israele. Ma Simmons può tutto, come ogni fan dei KISS sa bene e qui, cattivissimo e senza scrupoli, si mette anche in testa di uccidere Rutger “carisma” Hauer. Riuscito, infatti, ad atterrare negli Stati Uniti, Malak Al Rahim organizza un piano per seminare il caos e, scoperto che il suo vecchio nemico, Nick Randall, è in città opta per farla pagare anche a lui. Randall, stereotipo dell’americano che vive in un magazzino strabordante armi, è un ex della CIA ora cacciatore di taglie. Lo scontro è assicurato. D’accordo, penso a questo punto sia chiaro come Wanted rispecchi tutti i dettami di quel genere di action tanto amato negli eighties. Ma questo non gli impedisce di essere straordinariamente godibile, di avere l’incredibile capacità di non perdersi in ciance e di mantenere un ritmo abbastanza sostenuto per tutta la durata.

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La regia di Sherman non è da strapparsi i capelli, ma in centosei minuti fa il suo dovere basico, riuscendo persino a piazzare un paio di inquadrature accattivanti. Non che servano, siamo sinceri, tutto quello che si chiede e si vuole vedere in un film così sono battute sagaci, cazzotti e sparatorie. Dateci questo, e potremmo anche soprassedere ai difetti che caratterizzano produzioni con un budget che solo un Craig R. Baxley potrebbe trasformare in oro. Wanted fa il suo dovere e lo fa grazie, e soprattutto, al suo attore protagonista. Rutger Hauer è conosciuto solo per poche produzioni, quelle commercialmente più appetibili, siano Blade Runner, The Hitcher o Ladyhawke e certamente negli ultimi anni il suo viso è apparso quasi solo in piccoli ruoli. Tuttavia è un crimine non riconoscere la grandezza di un attore capace infondere carisma, fascino e credibilità in ogni ruolo. E allora lasciamo perdere per un attimo ciò che l’ha reso famoso, lasciamo gli androidi e i cavalieri lupo. Detective Stone, Furia cieca, I falchi della notte, La leggenda del Santo Bevitore, I colori della passione, film diversi, budget diversi, personaggi diversi. Ma con la stessa identica passione, professionalità e impegno.

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Arrivati qui forse è chiaro che la recensione di Wanted è una scusa. Già, perché a Luglio 2019 Rutger Hauer ha lasciato questo mondo infame, in silenzio, da gran Signore qual è sempre stato. E allora noi, quelli della mia generazione e delle generazioni vicine, ci siamo ritrovati con un pezzetto d’infanzia e adolescenza rubato. Perché quando il cinema ti scorre dentro capita di crescere con film che, in qualche modo, ti segnano e gli attori che li interpretano acquistano un’aura unica. Diventano amici, compagni di vita, affettuosi punti saldi nei periodi tumultuosi dell’esistenza. Perderli significa perdere un pezzetto di noi, anche se siamo così fortunati da poterli ritrovare ogni volta che vogliamo. Magia del Cinema.

Onore a te, Rutger Oelsen Hauer, noi qui proseguiamo la lotta.

Manuel “Ash” Leale

Wanted: vivo o morto

Titolo originale Wanted: Dead or Alive

Regia: Gary Sherman

Interpreti: Rutger Hauer, Robert Guillaume, Gene Simmons, Sam Elliott

Durata 106 min. – USA 1987.

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Beast within

20 martedì Ago 2019

Posted by andreaklanza in alieni, B movie gagliardi, fantascienza, licantropi, mostriciattoli, Recensioni di Andrea Lanza, scifi horror, splatteroni

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animali, australia, cinema, horror, howling, l'ululato, licantropi, lupo, mora, oz, recensione, recensioni, stupri bestiali, un lupo mannaro americano a londra

Malastrana appoggia completamente il progetto Notte horror, un tributo settimanale dove i blog di cinema più gagliardi recensiscono i film apparsi sul mitico ciclo di Zio Tibia. Stasera per esempio si affronteranno il bellissimo Cimitero vivente e l’altrettanto figo Deliria col gufo assassino di Michele Soavi. Intanto noi di Malastrana abbiamo deciso di iniziare parallelamente una rubrica a cadenza settimanale a tema horror: Le notti mai viste di Zio Tibia, ovvero film horror inediti su ogni supporto che avrebbero potuto essere pane per i denti delle notti d’estate di Italia uno. Stasera tocca ad un film bellissimo, anni 80, sui licantropi o meglio sulle cicale mannare, girato da un  regista famoso per aver girato gli Ululati peggiori, il 2 e il 3.

Via con la sigla, in questo mondo alternativo di film mai trasmessi è la sigla del cartone più terrorizzante di sempre, Bem il mostro umano.

Strano film questo Beast within, forse l’opera più interessante dell’australiano Philippe Mora, che si macchierà in seguito di abominevoli horror (The Howling 2 e 3) e altrettanto orribili film di fantascienza (2049, L’ULTIMA FRONTIERA con Joanne Chen e Rutger Hauer). Strano perché inclassificabile come genere: ad occhio distratto trattasi di un film licantropesco, d’altronde gli elementi sono quelli, la luna piena, la metamorfosi da uomo in bestia, gli omicidi ferini, ma più vicino come concetto, soprattutto nel make up del mostro, ad una fantascienza anni 50, pur essendo troppo fuori tempo massimo per appartenervi.

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La sceneggiatura del bravo Tom Holland, uno che in seguito girerà due cult movie come Ammazzavampiri e La bambola assassina, non è rozza, ma ricca di sottotesti, soprattutto sessuali, arrivando a dipingere le vittime del mostro come altrettanti mostri, il becchino in odore di necrofilia, il padre che ama troppo morbosamente la figlia adolescente (in una scena che culmina con un abbraccio passionale tra i due), un giornalista con tendenze pedofile (la frase “Come ti piace la carne?” detta al ragazzo protagonista), tutti elementi lasciati in ombra, ma che conferiscono a Beast within un’aria malata al di fuori delle scene di stupro mostruose che lo contraddistinguono. A questo aggiungiamo che la regia di Philippe Mora è nel complesso buona, quando i suoi standard sono tra il mediocre e il disastroso, e si può pure perdonare qualche faciloneria evitabile di sciattezza nella messa in scena (la fasciatura grondante sangue che il dottore non cambia mai tutto nell’ultima parte).

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Il make up del mostro è anticipatore de La mosca di Cronenberg, ma anche debitore di Curse of the Fly di Don Sharp, con un’idea, a livello effettistico, di fare ibrido tra look classico e moderno, tra scifi vecchio stile e la trasformazione della carne tipica degli anni 80. Il lavoro di morphing di Thomas R. Burman è fantastico, impressionante e quasi inaspettato in un film che tutto sommato dal cast senza sorprese e dagli autori poco più che esordienti lasciava credere ad un’innocua serie B. Cosa che sicuramente è Beast within, ma di certo non innocua, perché si ritaglia un posto magico negli horror 80 per i temi maturi trattati (lo stupro come abbiamo detto, ma anche la paura nascente per l’AIDS e il contagio sessuale), ma anche per l’idea di un mostro cicala antropomorfo, unico a quanto ricordi in tutta la storia del cinema del terrore. L’inedito tema naturalistico a muovere le azioni della belva, il suo contatto con gli insetti (“Stava ore a parlare con il bosco e tutto quello che conteneva”) rendono sicuramente il film di Mora un’opera poco conosciuta (in Italia non è mai stata editata), ma meritevole di una riscoperta.

Andrea Lanza

The beast within

Anno: 1982

Regia: Philippe Mora

Cast: Ronny Cox, Bibi Besch, Paul Clemens, Don Gordon, R.G. Armstrong, Katherine Moffat, L.Q. Jones, Logan Ramsey, John Dennis Johnston, Ron Soble, Luke Askew, Meshach Taylor, Boyce Holleman, Natalie Nolan Howard, Malcolm McMillin

Durata: 90 min.

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