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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Transformations …e la belva sorgerà dagli abissi

15 sabato Giu 2019

Posted by andreaklanza in demoni, Empire, erotici, fantascienza, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, satana, T, tette gratuite, tette vintage

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Alien transformation, Ann Margaret Hughes, Benito Stefanelli, Cec Verrell, charles band, Christopher Neame, Donald Hodson, empire, Jay Kamen, Lisa Langlois, Loredana Romito, mark caltagirone, Michael Hennessy, Pamela Prati, Patrick Macnee, Rex Smith, Transformations, Transformations... e la bestia sorgerà dagli abissi

In viaggio nello spazio, Wolfgang Shadduck scopre di avere a bordo un passeggero clandestino: una donna bellissima e sensuale, al fascino della quale l’uomo non riesce a resistere. Ma al termine dell’amplesso, davanti agli occhi di un inorridito Shadduck, la creatura si trasforma in un mostro repellente e poi scompare. Convinto di aver avuto un incubo – della donna non rimane alcuna traccia – Wolfgang prosegue il suo viaggio fino a quando un’avaria lo costringe ad un atterraggio forzato su un pianeta che ospita una colonia penale. Qui il pilota conosce Miranda e se innamora, ma viene sequestrato assieme a lei da un gruppo di detenuti evasi che vuole usare la sua nave per fuggire, ed è costretto a decollare dall’asteroide. Durante il volo, il mostro si materializza nuovamente e dà inizio alla strage. 

Ah l‘Empire di Charles Band! Solo a nominarla mi ritornano alla memoria, come madeleine proustiane, vecchie vhs, film improponibili trasmessi nella notte più fonda da tv private, riflesso anarchico di un cinema potentissimo e miserabile che tutto poteva anche senza nulla avere!

Per tutti l’Empire è stata Re- Animator, Ghoulies, From Beyond, Dolls, low budget di un certo culto, ma in pochi si dimenticano, o non sanno, dell’esistenza dei figli minori dell’impero di Charles Band.

Scriveva De Andrè alla fine della meravigliosa La città vecchia:

“Se ti inoltrerai lungo le calate

dei vecchi moli

in quell’aria spessa

carica di sale gonfia di odori

lì ci troverai i ladri gli assassini

e il tipo strano

quello che ha venduto per tremila lire

sua madre a un nano“.

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Mai strofe calzano più a pennello per un sottomondo, un po’ alla Underworld di Clive Barker/ George Pavlou, nauseabondo e poco invitante, nel quale, più che imbatterci in belle pellicole, ci troviamo davanti a veri mostri, sgraziati, arrabbiati e incattiviti. E, sempre come per De Andrè, la soluzione è, più o meno, la stessa: o liquidi questi film per quello che sono, merda, schifo, a morte il regista, o, amico mio, apri la tua bella birra, liberi la pancia dai pantaloni, via le scarpe, sciallato sulla tua poltrona, ti fai avvolgere da quei liquami, da quella trama improponibile, rischiando pure di divertirti.

L’Empire sfornò, nella sua folle corsa di appena 6 anni, un sacco di brutte pellicole fighissime come Breeders di Tim Kinkaid con alieni arrapati e ballerine nude, Creepozoids di David Decoteau con la Linnea Quigley del nostro cuore e dei topastri mossi a mano dagli attori, momenti teneri e irripetibili, Terror vision di Ted Nicolau con la recitazione dell’intero cast oltre l’overacting, e naturalmente questo Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi, con un titolo così brutto, poco accattivante che non poteva essere altro che un capolavoro dell’infimo.

Quindi l’Empire non era solo buone pellicole strane e folli, tipo Troll o Ork di John Carl Buechler, ma anche, e soprattutto, filmacci da cestone del supermercato, film dalle copertine orribili che sembravano urlare l’eutanasia piuttosto che una visione.

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Questi film, americani nel cuore ma girati in italia nei capannoni di proprietà dello stesso Charles Band, erano successi sicuri, venduti in tutto il mondo e dal budget così misero che anche la vendita di una vhs poteva garantire un’entrata, anche perché la maggior parte di loro non avrebbe mai visto la luce della sala cinematografica.

Con Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi siamo in territorio scifi horror, in un’ambientazione quasi tutta in interni per sfruttare al massimo gli scenari riciclati da una produzione più ricca, Arena, uno dei costosi fallimenti, con Robojox di Stuart Gordon, del periodo finale Empire.

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Loredana Romito in tette e ossa

Inutile dire che la trama scritta da Mitch Brian, più a suo agio come sceneggiatore per il magnifico Batman: The Animated Series, sia un guazzabuglio inenarrabile composto da dialoghi deliranti, scene che sembrano improvvisate, e tante tette e sesso a cazzum per intontire lo spettatore beota. Per esempio ad un certo punto una dottoressa, interpretata dalla Lisa Langlois di Classe 1984 e Occhi della notte, dice al nostro eroe, il pilota spaziale Wolf, “Devo fare una cosa importantissima. Aspettami qui” e poi la vediamo fermarsi per lunghi minuti con fare pensieroso in una stanza vuota, non facendo nulla, giuro nulla, per poi tornare indietro. Cioè cosa diavolo doveva fare di importante????

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Alieni e sesso prima di Species

Non aiuta neppure la regia di Jay Kamen, tecnico del suono per produzioni di un certo livello come Robocop 3 o Caccia ad ottobre rosso, impacciatissimo al suo debutto (unico) dietro la macchina da presa. Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi stilisticamente è vicino al linguaggio del telefilm (sciatto) degli anni 80, un valore, per assurdo, aggiunto ad una visione ignorante da filmaccio uscito dalle vhs.

C’è da dire che la pellicola ha almeno due buoni attori, la già citata Langlois e il Patrick Macnee di Battlestar galactica, che però vengono mal sfruttati in una storia che li vede spauriti e visibilmente impacciati. Il resto del cast è miserabile, a partire da un protagonista legnosissimo, il cantante Rex Smith, lontano dai fasti del suo serial tv Il falco della notte. Per non contare poi le presenze inenarrabili delle nostre starlettes Pamela Prati e Loredana Romito, nudissime ovviamente. La prima, la Pamelona del tormentone trash tv Mark Caltagirone, interpreta l’aliena che contamina il protagonista all’inizio del film, la seconda è invece una prostituta rimorchiata da nostro Wolf in piena mutazione genetica che, prima di Species, spinge, gli extraterresti a ciulare il più possibile.

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Pamela Prati prima della D’Urso e di Caltagirone

Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi tenta un discorso anche interessante sull’AIDS e sul contagio sessuale, ma ogni buona intenzione, si sa, se la deve vedere con le vie distorte del diavolo delle brutte sceneggiature. Quindi inutile vederci significati reconditi: la pellicola di Jay Kamen è exploitation al più basso livello che prosegue a forza di sgnacchera e sangue.

Sia dato atto però che la trama anticipa pericolosamente quella di Alien 3: un’astronave con  l’infezione, il mostro, che precipita in una colonia penale. C’è pure un prete, Patrick Macnee, a sancire l’elemento fortemente religioso dell’opera. Ovviamente le due pellicole stanno agli antipodi, inconciliabili e con un’idea diversa di cinema: il film di Kamen divertimento rozzo senza pretese, quello di Fincher un’ambiziosa opera sci-fi molto stilosa. Però è bello sognare che, una notte insonne, facendo zapping sulla tv, uno degli artefici della travagliatissima stesura di Alien 3, magari il non accreditato  David Twohy di Pitch Black, sia stato folgorato dalla visione di Transformations. Sua fu d’altronde l’idea di trasformare il pianeta, sul quale l’astronave di Ripley/Sigourney Weaver atterra, in una colonia penale.

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Smorzacandela spaziale

Per il resto abbiamo davvero davanti un filmaccio di bassa lega, pregno di momenti involontariamente comici, a partire dai primi minuti di film quando il nostro Wolf non si chiede che diavolo ci fa su un’astronave, fino ad un secondo prima deserta, la nostra Pamelona arrapatissima. Il suo pensiero probabilmente è che sia stata nascosta, senza mangiare né bere per giorni, in attesa di fargli una sorpresona per il suo compleanno. “Quei mattacchioni dei miei amici” esordisce il non proprio intelligentissimo protagonista prendendosi una sifilide aliena che gli procurerà bolle su tutto il corpo abbastanza schifose che esploderanno in pus.

Transformations ci insegna che nel futuro le lauree non serviranno più: l’unica dottoressa della prigione, interpretata dalla bellissima e assente Langlois, non ha nessun titolo accademico come ci conferma lei stessa in uno dei tanti dialoghi surreali. Fa il medico e agisce da medico semplicemente perché la chiamano “Dottore” e indossa un camice. D’altronde tutto il suo apporto scientifico per debellare la mutazione del protagonista è limitato in intensi occhi da cerbiatto e frasi come “Ti amo dal primo momento che ti ho visto“. Va bene che l’amore può vincere tutto, ma insomma…

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Cast di disperati

Aggiungiamo al pasticciaccio una sottotrama senza interesse, e subito liquidata, con tre detenuti che evadono dal carcere, girata così sciattamente nelle scene d’azione da suscitare tenerezza.

Gli effetti speciali sono abbastanza efficaci nella semplicità di uno spettacolo che richiede solo tre elementi: nudi, schifezze varie e un ritmo abbastanza concitato. Chi si accontenta si divertirà e il film si lascia guardare senza danno ferire, di certo meno ributtante di come le recensioni l’hanno sempre accolto.

Dispiace solo che un ottimo direttore della fotografia come Sergio Salvati sia stato coinvolto in uno dei suoi lavori meno efficaci, lontano non solo dai fasti fulciani ma anche dalle buone, precedenti prove Empire come Ghoulies 2, Puppet Master o Striscia ragazza striscia.

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L’Empire, per motivi finanziari, fallirà da lì a poco, trasformandosi in quella che ad oggi è la Full Moon, ma film così belli nella forma miserabile come Transformations non si sono fatti più.

E in fondo ci dispiace.

Andrea Lanza

Transformations… e la bestia sorgerà dagli abissi

Titolo alternativo: Alien transformation

Titolo originale: Transformations

Anno: 1988

Regia: Jay Kamen

Interpreti: Rex Smith, Lisa Langlois, Patrick Macnee, Christopher Neame, Michael Hennessy, Donald Hodson, Ann Margaret Hughes, Pamela Prati, Loredana Romito, Benito Stefanelli, Cec Verrell

Durata: 84 min.

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Demoni 3

07 venerdì Giu 2019

Posted by andreaklanza in D, demoni, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, Senza categoria, slasher, zombi

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argento, bava, black demons, brasile, cruzeiros, demoni 3, Fulci, kkk, ku klux klan, Lenzi, macumba, schiavi, voodoo, zombi

Umberto Lenzi era molto entusiasta di questo suo Demoni 3. Almeno a parole.

Sulle pagine del fondamentale Spaghetti nightmares di Luca M. Palmerini e Gaetano Mistretta dichiarava:

“Ho lavorato intensamente per tre mesi su Black Demons, un horror che ritengo senza dubbio il mio capolavoro (…) girato in presa diretta americana. Parla di alcuni schiavi negri uccisi un secolo fa in una fazenda i quali, riportati in vita per mezzo di una macumba girata “dal vero”, si vendicano di chi ne causò la morte“.

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Quindi un horror con un rito voodoo autentico, una pellicola maledetta, stando sempre a sentire i racconti del suo autore.

“Le riprese sono state abbastanza pericolose (sul set successero anche delle stranezze…) e l’effetto che la macumba provoca sulle nostre coscienze e sulle nostre credenze religiose, pur senza mostrare dettagli “gore”,  è molto impressionante“.

Tutte belle parole, senza dubbio, in un periodo, quello d’inizio anni 90, privo di internet, dove molti nostri horror stentavano ad uscire e tutto era lasciato nella leggenda, nelle tv private e nei deliri, un po’ supercazzoloni, dei nostri autori caduti in disgrazia.

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Stento a credere, a film visionato, che Lenzi, da giusto rompipalle old school come era, credesse davvero che Demoni 3, o Black demons come recitava il titolo originale, fosse non tanto “il suo capolavoro“, ma anche solo un’opera decente. Erano però quelli gli anni, miserabili e accattoni, che vedevano il cinema del nostro Umberto migrare nel Terzo mondo per una serie di orribili pellicole, soprattutto action avventurose. Alcune di queste, come nel caso del nostro Demoni 3 o di Caccia allo scorpione d’oro, entrambe del 1991, Lenzi le aveva prodotte, a zero budget, con una sua società, quindi parlarne male sarebbe stato sicuramente controproducente.

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Inutile poi dirlo, lo sanno anche i sassi ormai, ma ribadiamo l’ovvio: Demoni 3 non è il secondo seguito del meraviglioso Demoni di Bava e Argento, ma un’opera che solo in Italia, nella sua uscita quasi subliminale in vhs per la Center video, si appropriava, alla cazzum, di un titolo che non sarebbe mai stato girato per davvero. Mentre Demoni 3, il vero, aveva preso la forma, diversissima e autorialmente soaviana, de La chiesa, il furbesco mercato home video cercava, grazie ai Black Demons di Lenzi, di accaparrare qualche gonzo per un noleggio. Erano gli stessi che affittavano tutti esaltati il Terminator 2 di Mattei per poi tornare incazzati in videoteca con la rabbia del truffato che non sapeva di esserlo stato.

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Ormai era da tempo che il cinema di Lenzi aveva perso non solo la dignità, ma anche la capacità di essere un grandioso, rozzo e spettacolare divertimento popolare come ai tempi, non lontanissimi, di Incubo sulla città contaminata, di Cannibal Ferox o de La casa 3 (Ghosthouse). Il canto del cigno per il regista era stato il meraviglioso (e sfortunato) Hitcher in the dark (Hitcher 2- Paura nel buio) del 1989, ma, prima e dopo, c’erano state solo pellicole misere, miserabili e di rara brutta fattura come il Cop target con Robert Ginty e Charles Napier, o Le porte dell’inferno, sorta di brutto epigono dei resuscitati ciechi spagnoli. Lenzi e il suo cinema erano diventati all’improvviso sciatti e senza nerbo, uno spettacolo umiliante sia per il regista che, soprattutto, per gli incauti spettatori.

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Demoni 3 è scritto male, girato peggio e interpretato da cagnacci che si agitano tutto il tempo, un vero incubo su pellicola.

Difficile davvero salvare qualcosa, non i dialoghi che fanno pronunciare ai protagonisti almeno 100 volte la parola “negro”, non la tensione che non esiste e neppure gli effetti speciali, ai limiti dell’amatoriale.

Anche la tanto declamata “macumba ripresa dal vero”, se davvero originale, ma dubitiamo, manca di pathos e di palpabile orrore esotico come invece si percepiva, per assurdo, nei porno horror caraibici di Joe D’Amato.

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Lenzi sembra sperduto in un film che non sa come andare avanti e che plagia fin troppo Zombi 2 anche nella riproposta di un finale risolto a colpi di molotov. Il modello Fulci poi è palese negli omicidi con gli occhi che schizzano dalle orbite come succedeva, in meglio ovviamente, con la meravigliosa Olga Karlatos nella pellicola del 1979.

Per il resto Demoni 3 è anche noiosissimo, con un body count di appena 3 persone e l’idea, sciagurata, di una tensione che ricorda tanto i cartoni animati Hanna e Barbera di Scooby Doo con gli zombi che stanno per accoltellare qualcuno alle spalle, silenziosi come ninja, poi al minimo rumore si nascondono, dove ovviamente non si sa. Una sequenza questa, ripetuta più volte, e che, più che accendere la paura, fa nascere un sorrisino spontaneo, la morte per ogni horror.

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In più, come tutti i film scemi, i protagonisti, in pieno assedio dei morti viventi incazzati, perdono il tempo a battibeccare tranquilli con dialoghi dementi, a dividersi in una casa che da tre stanze ora sembra un castello, e ad urlare senza motivo al nulla mentre, probabilissimo, gli zombi saranno andati a giocare a briscola.

Lenzi, in complicità con la moglie Olga Pehar, però ci insegna che il Brasile è un posto orribile, nel quale i camerieri vengono pagati per un mese di lavoro 500 cruzeiros, sulle 300000 lire vecchie, tanto quanto una bottiglia di vino pregiato, e, oltre ad essere chiamati “negri”, vengono sfottuti, presi a calci in culo e umiliati anche da quelli che dovrebbero essere, sulla carta, i protagonisti, i buoni. Il livello di razzismo in un film non toccava probabilmente punte così alte dai tempi del Ku Klux Klan.

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Si salva il make up degli zombi, minimale ma efficace, e alcune sequenze che, prese a parte, sono potenti come l’evocazione dei morti viventi in un cimitero che prende fuoco. Anche la fotografia di Maurizio Dell’Orco con i colori saturi di un Brasile caldo e umidiccio non è male, mentre le musiche di Franco Micalizzi sono un plagio vergognoso di quelle composte per le case apocrife da Carlo Maria Cordio. In quest’aria di cialtroneria dilagante ci si mette anche la copertina, bellissima comunque,  che presenta 7 zombi quando in scena ce ne sono solo sei.

Gli attori, come già detto, sono uno peggio dell’altro, antipatici per di più. Peccato perché altrove, almeno Joe Balogh, in Paura nel buio sempre di Lenzi e nel bellissimo (s)cult Monstruosity di Andy Milligan, si era rivelato un attore tutto sommato capace ed efficace, ma qui, come tutti, sembra sotto l’effetto devastante del valium in una recitazione sempre sottotono e apatica.

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Scooby Doo

Non ci sono neanche le tette di rito che avrebbero alzato l’asticella almeno della serie B più cafona. C’è da dire che i 6 “negri” viventi, per dirla alla Lenzi, fanno una certa impressione quando entrano in scena, con le catene ancora ai piedi, armati con oggetti comuni che diventano nelle loro mani strumenti di morte violenta. Peccato che poi, alla fine, anche quest’idea di zombi, un po’ diversificata dai mostri cannibali alla Romero e Fulci, non viene mai sviluppata con convinzione.

Demoni 3 è uno di quei film che nascono e, per fortuna, muoiono in vhs senza possibilità di lasciare un ricordo alle future generazioni. Il (bel) cinema italiano del terrore non è di certo qui di casa.

Andrea Lanza

Demoni 3 (Black Demons)

Anno: 1991

Regia: Umberto Lenzi

Interpreti: Keith Van Hoven, Joe Balogh, Sonia Curtis, Philip Murray, Juliana Teixeira, Maria Alves, Cléa Simões, Justo Silva, Rita Monteiro

Durata: 88 min.

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Killer Party

24 mercoledì Apr 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, commedia, commedia horror, demoni, K, Recensioni di Andrea Lanza, slasher

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Alicia Fleer, confraternite, Deborah Hancock, Elaine Wilkes, esorcista, halloween, hell night, Howard Busgang, Jason Warren, Jeff Pustil, Joanna Johnson, killer, killer party, la notte dei demoni, Laura Sherman, linda blair, Martin Hewitt, palombaro, Pam Hyatt, Paul Bartel, Ralph Seymour, scream, Sherry Willis-Burch, sorellanze, Terri Hawkes, tridente, venerdì 13, wes craven, william fruet, Woody Brown

Da vent’anni una casa è abbandonata (ha una fama spaventosa: vari delitti sono stati consumati fra le sue pareti). Ed è proprio lì che un gruppo di ragazze decide di dare la festa annuale degli studenti. Data la nomea della casa, hanno promesso un vero “party della morte”. Ma se ne pentiranno.

Sono da sempre un grande fan degli slasher, soprattutto di quelli anni 80, tutti ragazze seminude e sangue versato da improbabili emuli di Michael Myers. Tra i miei preferiti ci sono senza dubbio, senza scomodare l’inflazionata  saga di Jason, il feroce Rosemary’s Killer di Joseph Zito e il cultissimo Hell Night con la meravigliosa Linda Blair.

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Lo slasher è un sottogenere semplice ed economico: prendi un gruppo di ragazzotti, li filmi mentre bevono, fumano e a scopano come ricci, poi ti inventi una maschera stramba, la fai indossare ad un killer, e via con la mattanza. Più facile di così? In più la sceneggiatura può essere anche improvvisata, ma quello che non deve mancare, e che rende divertente il tutto, è soprattutto la varietà di omicidi e l’alto tasso di emoglobina.

Questa cosa non dev’essere stata molto chiara alla MGM che, al momento distribuire Killer party, decise di tagliare tutte le scene più sanguinose, inficiando il senso narrativo dell’opera. In parole povere: ora, nel cut vulgato al popolo, non si capisce nulla!

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Scena tagliata

Quindi una merda, penserete voi, giustamente. Invece per strane alchimie che solo la serie B possiede, il film è uno spasso, una cosa che la guardi e ti sorprende, ti cade la mascella e, tra un “Ma che cazzo!” di rito, capisci di essere in un luna park del terrore, con quei ribaltoni incredibili di plot che non ci credi ma accadono.

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Scena tagliata

Per tre quarti il film è un blando slasher con  due morti in croce (una donna presa a martellate e un professore fulminato con la corrente elettrica), oltretutto, per le maglie della censura, tutto fuori campo come in un mondo alla Black Mirror dominato dal MOIGE. Quando però si arriva all’ultima mezz’ora succede l’inaspettato: regista, sceneggiatore e attori  giureresti che si sono fatti  di droghe pesanti!

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Lo slasher, se non ha derive soprannaturali, alla fine è un giallo più hardcore dove sotto la maschera c’è un picchiatello che uccide per le ragioni più varie. In Killer Party questo non succede: ad un certo punto, a tipo trenta minuti dalla fine del film, arriva un omicida vestito da palombaro e comincia in pochi minuti ad uccidere tutto il cast in maniera fantasiosa (chi con un tridente, chi soffocato in una vasca, chi impalato mentre è seduto su una griglia, che poi cazzo ci fa tra l’altro una griglia in una casa?). “Wow!” direte voi, solo che ad un certo punto il palombaro sparisce, nessuno ne parla più e, colpo di scena, la protagonista si trasforma in una sorta di Regan dell’Esorcista con voce gutturale, bava alla bocca, che cammina sul soffitto mentre, meschina e maledetta, ride da sola con la lingua serpentesca.

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Killer party è quello slasher anarchico che fa come cazzo vuole, ride delle regole rigide del genere e si permette persino di atteggiarsi alla Alfred Hitchcock trasfigurando la figura della virginea eroina, prima facendola accoppiare con un ragazzo poi tramutandola lei, la figura cardine di ogni slasher, nel mostro, nella bestia sanguinaria, in una maledetta puttana sputata dall’inferno.

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Certo la MGM con i suoi tagli ha incasinato il tutto ed è probabile che proprio questi abbiano reso impossibile da comprendere l’intreccio della vicenda. In più nel film regna una confusione incredibile a cominciare dagli abiti dei protagonisti: durante la prima parte siamo, cappotti che lo testimoniano, in autunno, anche quando tutti si stanno preparando per lo scherzo del Pesce d’Aprile.

Su questo horror poi c’è la leggenda, confermata da imdb, che Killer Party fu iniziato nel 1978, si interruppe per motivi di budget, per poi essere ripreso nel 1986. Su un sito internet dedicato interamente alla pellicola questo viene smentito da un’intervista ad una delle attrici protagoniste, Elaine Wilkes, che afferma che il film fu girato senza pause, a  metà degli anni 80, con l’unico problema dei cambi incredibili della sceneggiatura. Sembra infatti che una delle ragazze che arriva ai titoli di coda, Sherry Willis-Burch, si sorprese perché la sua Vivia sarebbe dovuta morire all’inizio!

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A girare l’opera, con mano sicura, è il William Fruet di alcuni B movie efficaci: suo infatti l’incredibile Spasms con Oliver Reed contro Peter Fonda e un serpentone assassino, ma anche il divertente Il mio scopo è la vendetta con un reduce dal Vietnam che si bomba la Tisa Farrow di Zombi 2 e combatte un cinese killer esperto di kung fu. Robe da cestone da supermercato, senza dubbio, ma girate bene, dannatamente bene.

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Colpevole invece del delirio narrativo è Barney Cohen che due anni prima però diede alla luce uno dei copioni su Jason Vorhees più belli di sempre, il capitolo finale, diretto dal sempre mai troppo apprezzato Joseph Zito.

Il cast fa la sua porca figura e abbiamo tutti interpreti efficaci e mai stranamente impacciati anche nell’interpretare un horror da cassetta. Nel cast poi spicca il grandissimo Paul Bartel, regista di cult come Cannonball, Anno 2000 – La corsa della morte e soprattutto Bambole e sangue, nella sua lunga carriera di attore/comparsa divertita (ben 91 ruoli su 14 regie).

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La già citata Elaine Wilkes, già conosciuta per ruoli in commedie romantiche come Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare di John Hughes e Who’s That Girl di James Foley accanto a Madonna, abbandonò la carriera di attrice nel 1989. Si riciclò come esperta naturologa con libri di grande successo tra le masse come I messaggi segreti della natura, un tomone di 340 pagine arrivato anche da noi.  Ma non ha mai rinnegato il suo passato di attrice, cosa che le rende sicuramente onore.

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La palma d’oro però di miglior interprete però spetta ad Alice Fleer che riesce ad incutere un certo disagio nel suo passaggio da vittima sacrificale a demonio incazzato, una roba che è seconda solo a Linda Blair in L’esorcista.

Per il resto Killer Party è un’opera sicuramente stramba ma tremendamente divertente che vive lo stato di grazia anche di una magnifica colonna sonora orecchiabilissima anni 80. D’altronde come non volere bene ad un film che presenta ben due intro finti, prima di Wes Craven e Scream 4, dei quali uno è un vivace videoclip dei White Sister, You’re No Fool, con degli zombi assassini che ballano con una ragazza sulla falsariga di Thriller di Landis. Giuro succede anche questo e non solo questo perché ci saranno, durante la visione del film, tante cose che metteranno a dura prova la vostra incredulità come una sequenza dove dei simpatici buontemponi liberano delle api per vedere scappare nude delle ragazze. Gli stessi poi si vestiranno da aponi giganti per essere giustamente uccisi dal palombaro killer che forse passava solo di lì solo per caso.

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Girato in Canada con il titolo di lavorazione di April Fool’s Day, come il precedente Jolly Killer di George Dugdale, dovette cedere il titolo all’omonima pellicola di Fred Walton, Pesce d’aprile. Del trietto dei film nati con lo stesso nome però questo è sicuramente quello che preferisco.

Da noi è uscito prima in vhs MGM poi in un dvd Quadrifoglio dall’audio italiano ridondante ma dal video perfetto in widescreen. Purtroppo Killer party non ha mai avuto la fama che si meritava: un po’ un cane rognoso che a prima vista non accarezzeresti mai, ma che se impari a conoscerlo ti conquista. Noi gli vogliamo bene.

Andrea Lanza

Killer Party

Anno: 1986

Regia: William Fruet

Interpreti: Martin Hewitt, Ralph Seymour, Elaine Wilkes, Paul Bartel, Sherry Willis-Burch, Alicia Fleer, Woody Brown, Joanna Johnson, Terri Hawkes, Deborah Hancock, Laura Sherman, Jeff Pustil, Pam Hyatt, Howard Busgang, Jason Warren

Durata: 91 min.

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The Unnamable II: The Statement of Randolph Carter

10 domenica Mar 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, C, demoni, Recensioni di Andrea Lanza, satana, starlette, tette gratuite, tette vintage, U

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H. P. Lovecraft a metà anni 80 era tornato alla ribalta soprattutto grazie all’Empire di Charles Band che aveva confezionato due capolavori splatter, Re-animator e From Beyond, tratti da due racconti brevi del solitario di Providence. Da lì una sorta di lovecraftspoitation era dilagata nei cinematografi e nelle vhs, una mania che aveva creato negli anni più mostri che perle preziose, filmacci come Lurkin Fear (1994) di C. Courtney Joyner, da un progetto abortito di Stuart Gordon sempre per l’Empire, o il delirante La casa di Cthulhu (1992), abominio spagnolo diretto dal sempre poco talentuoso Juan Piquer Simón, autore del(lo) (s)cult Pieces.

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Già negli anni 60/70, grazie ad un pugno di pellicole, si era cercato di imporre al grosso pubblico il nome di Lovecraft, ma, malgrado opere eccellenti come La città dei mostri (The Haunted Palace, 1967, Roger Corman da Il caso di Charles Dexter Ward), La morte nell’occhio di cristallo (Die, Monster, Die!, 1965, Daniel Haller da Il colore dello spazio) e Le vergini di Dunwich (The Dunwich Horror, 1970, Daniel Haller da L’orrore di Dunwich), il tentativo era fallito. Era evidente che l’universo mostruoso ed onirico di H. P. non faceva presa sugli spettatori come invece quello di Edgar Allan Poe che aveva fatto la storia dell’horror cormaniano.

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Ah le vhs!

La creatura arriva in piena lovecraftmania ed è uno dei primi tentativi, con La fattoria maledetta (The curse) di David Keith, di bissare il successo dei film di Stuart Gordon. Girato con l’esiguo budget di 350000 dollari, in sole tre settimane, tratto dalla novella L’innominabile, calcava la mano dello splatter sulla falsariga di Re- animator. Non dovette comunque essere un grandissimo successo al box office, visto che per il seguito passarono ben 5 anni, ma ricordo perfettamente che in vhs, nell’edizione stracazzutissima della VIVIVIDEO, faceva la sua porca figura con questo mostro urlante tipo banshee che ti faceva cagare sotto solo a guardarlo.

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Il film fu diretto da Jean-Paul Ouellette in un’epoca dove la Francia non era ancora stata sdoganata dal cinema euroamericano di Luc Besson. Oltretutto il regista fece appena in tempo a girare negli States un action marziale pregevole, Chinatown Connection con lo sconosciuto Bruce Ly ovvero Lung Tsu Chiao ovvero Yung Henry Yu al fianco del Lee Majors de L’uomo da sei milioni di dollari, e naturalmente The Unnamable II: The Statement of Randolph Carter, La creatura 2 se fosse uscito mai in Italia. Dal 1993 Jean-Paul Ouellette, che nella sua carriera può vantare la seconda unità di Terminator di Cameron, ha abbandonato quasi del tutto la regia, dirigendo in 26 anni solo due cortometraggi, l’ultimo This Thing About My Wife è del 2019, un dramma su un ménage à trois tra un corridore brasiliano, la moglie e la sua amante.

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Tette

Ultimante ho letto cose molto negative su La creatura, critiche oltretutto ingiuste con aggettivi come trash (ecco una parola da abolire in campo cinematografico), noioso o stupido. Ho rivisto da poco il film di Ouellette e l’ho trovato di certo non un capolavoro, nessuno comunque lo pensava neppure nel 1988, ma comunque un prodotto ben fatto, divertente e con una creatura mostruosa dal make up fantastico. Fa sorridere è vero che questo gruppetto di persone si aggirino all’interno di una casa senza mai sentire le loro grida o incrociarsi (quanto diavolo era grande?), ma alla fine The unnamable è girato molto bene, con un sapiente uso delle luci per mascherare la povertà del budget, delle gustose scene splatter e le tette, fantastiche, della stuntgirl promossa ad attrice Laura Albert. In più il gruppetto di attori non sembra mai un saldo da brutto B movie e Mark Kinsey Stephenson è un perfetto Randolph Carter in versione teen.

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Splatter

Su questo punto poi ci sarebbe da aggiungere che La creatura, più che un sotto Re-animator, sembra invece una risposta horror low budget a Piramide di paura (1985, Young Sherlock Holmes) di Barry Levinson, con la declinazione adolescenziale del mondo lovecraftiano e dei suoi personaggi. Una sorta di What if Marvel o Elsewords DC, per intenderci, con linee narrative alternative e ipotetiche. E se Randolph Carter avesse vissuto le sue avventure al college? E se Lovecraft fosse stato il suo compagno di stanza? Queste le domande che si pone il film.

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9 ore di make up

Il racconto di Lovecraft era sì riadattato alle esigenze del copione ma manteneva inalterate alcuni suggestioni importanti come i vetri che possono catturare il volto delle persone o la presenza di un essere inquietante in una soffitta.

La creatura, Alyda, era interpreta da Katrin Alexandre al suo unico film. Trovare foto dell’attrice senza make up è quasi impossibile, ma il lavoro degli effettisti è stato eccezionale, un trucco che richiedeva 9 ore per rendere credibile il mostro, ogni pezzo era creato su misura per  la sua interprete per agevolarle i movimenti. Un vero miracolo considerato il budget modesto. Si racconta oltretutto che per le scene di sbudellamenti vennero utilizzate vere interiora animali, tra cui un cuore di agnello.

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Nel 2 forse non c’era tempo per il make up

La novella L’innominabile di Lovecraft non aveva un seguito perciò Jean-Paul Ouellette per girare La creatura 2 si ispirò ad un’altra avventura del ciclo di Randolph Carter, The Statement of Randolph Carter, che in linea temporale era però la prima. Non avendo nessun aggancio con la storia del precedente film, la sceneggiatura è appena ispirata al racconto. Quindi, per i primi dieci minuti, si affronta, come nella parte letteraria, il viaggio del nostro giovane studioso e di un professore, il Dottor Warren, nelle profondità della terra. Lì i due scopriranno che la creatura è imprigionata da una serie di radici magiche, ma anche, sorpresona, che nascosta in lei c’è una parte buona, l’Alyda umana.

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Amico, non mi frega del film.

Stavolta il bugdet è più alto, ben un milione di dollari, e la lavorazione si allunga a cinque settimane con l’ausilio stavolta di stunt dove nel primo film non c’era possibilità di controfigure nelle scene più pericolose.

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Amico, neanche a me frega del film.

Katrin Alexandre stavolta si rende disponibile solo per una giornata e perciò viene messa a contratto la modella di Penthouse Julie Strain, bellissima ma purtroppo nascosta dal pesante make up. La sua creatura stavolta è un gigante infatti la ragazza  misura ben un metro e 85.

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Julie Strain senza make up da mostra

Il personaggio di Tanya Heller, fidanzata di Howard, l’amico di Carter, viene liquidato in fretta senza neppure chiamare l’attrice Alexandra Durrell. Al suo posto riveste il ruolo di protagonista, nei panni di Alyda, la stupenda Maria Ford, una sosia di Alyssa Milano, così bella al naturale che la chirurgia plastica negli anni la devasterà peggio che la sua controparte mostruosa.

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La bellissima Maria Ford ora distrutta dalla chirurgia estetica

Visto che il film è più ricco si riesce a chiamare per qualche posa il grande David Warner e, qualche giorno di più, il futuro Gimli de Il signore degli anelli, John Rhys-Davies, all’epoca Sallah de I predatori dell’arca perduta.

Il problema è che, budget a parte, The unnamable 2: The Statement of Randolph Carter è nettamente peggiore al primo film.

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Partiamo subito dal fatto che il mix tette e sangue viene tradito da una versione PG13 de La creatura: gli squartamenti ci sono ma vengono mostrati solo ad atto compiuto con l’aggravante di alcune morti proprio fuori campo mentre i nudi non sono neanche pervenuti. Cioè Jean-Paul Ouellette ha tra le mani una modella di Penthouse e non la spoglia neppure in flashback, e scrive il personaggio di Alyda come una ragazza sempre svestita ma appiccica sul corpo di Maria Ford dei capelli copri seni? Qui rasentiamo la follia! Certo ogni tanto si vedono le chiappette strafantastiche della protagonista ma sembra la fiera della froceria nel mondo degli etero allupati!

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Capelli copri pudende

Anche la regia in 5 anni è peggiorata e non l’aiuta la decisione della sceneggiatura di mostrare in azione il mostro all’aperto: così senza le suggestive luci, senza accorti tagli di montaggio, il più delle volte sembra di assistere ad una puntata più gore di Buffy l’ammazzampiri, con lo stesso gusto non gusto per i pupazzoni di lattice. Per di più la creatura ad un certo punto cerca di spiccare un volo  col risultato di apparire come un mostro dei Power ranger trascinato dai cavi volanti.

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Chiappe che presagiscono peccati mai portati in scena

In The unnamable 2: The Statement of Randolph Carter entriamo nel vivo dell’azione dopo quasi 45 minuti di chiacchiere e scene alla Maial college: in queste, Randolph e il suo amico Howard portano Alyda tutta nuda nel loro dormitorio mentre alcuni compagni battono il 5 malpensando in un’orgia. Inutile dire che sono i momenti più idioti di una pellicola che non spicca per una grande intelligenza dei suoi comprimari e li manda al massacro senza scervellarsi molto sul perché.

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Zio, si ciula, vero?

Un peccato perché questo poteva essere un buon seguito, contando anche le buone interpretazioni degli storici  protagonisti della serie, Kinsey Stephenson e Charles Klausmeyer. Invece il film perde il divertimento, l’atmosfera lovecratiana e la sfrontata exploitation che tanto ci avevano fatto amare l’originale. Non stupisca che questo numero 2 sia rimasto inedito in Italia e che abbia meno fama del suo primo capitolo.

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Due fighe spaziali a confronto

Dimostrazione che il budget ricco non fa il buon film. Da recuperare solo a fini di completezza o con la scusa, giustissima, di rivedersi La creatura, un cult adolescenziale per tutti noi amanti del cinema horror ottantino.

NB Il dvd del primo film ad opera della Red Spot è scandalosamente un riversamento della vecchia vhs. In più i tizi non si sono neanche sbattuti a cercare informazioni sul film visto che sbagliano 1) a raccontare la trama 2) a dire che il film è inedito al cinema quando ha un visto censura del 26/08/1988. Per fare certi lavori a cazzo di cane sarebbe meglio non farli!

Andrea Lanza

NB Il flano cinematografico de La creatura è stato fornita gentilmente dall’amico Lucius Etruscus che ci ricorda l’uscita esatta del film in Italia: l’8 settembre 1988. Vi consiglio di guardare il suo blog dedicato alle locandine d’epoca, IPMP – ITALIAN PULP MOVIE POSTER, imperdibile e imprescindibile.

 

The unnamable II: The statement of Randolph Carter 

Anno: 1992

Regia: Jean-Paul Ouellette

Interpreti: Mark Kinsey Stephenson, Maria Ford, John Rhys-Davies, Charles Klausmeyer, Peter Breck, David Warner, Julie Strain

Durata: 104 min.

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Bird Box

04 venerdì Gen 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, demoni, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza

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Amy Gumenick, BD Wong, bird box, Danielle Macdonald, film, Jacki Weaver, John Malkovich, Julian Edwards, Lil Rel Howery, Machine Gun Kelly, netflix, Parminder Nagra, Pruitt Taylor Vince, Rebecca Pidgeon, revante Rhodes, Rosa Salazar, sandra bullock, Sarah Paulson, Susanne Bier, Tom Hollander, Vivien Lyra Blair

Quando una forza misteriosa decima la popolazione mondiale, una cosa è certa: se la vedi, ti togli la vita. Affrontando l’ignoto, Malorie trova amore, speranza e un nuovo inizio, solo per vederseli sfuggire. Ora deve scappare con i due figli lungo un insidioso fiume, verso l’unico possibile rifugio. Ma per sopravvivere dovranno affrontare il pericoloso viaggio di due giorni con gli occhi bendati.

45 milioni, tante sono le visualizzazioni che Bird Box, horror catastrofico, sta macinando in questi giorni sulla piattaforma di streaming Netflix. Ormai il cinema è anche questo, non solo una sala, ma proprio il salotto di casa nostra con pellicole che nulla hanno da invidiare a quelle che sbarcano nei multiplex. Gli haters si inalberino pure a suon di forconi, ma è indubbio che titoli come Tau di Federico D’Alessandro, Mute di Duncan Jones o La fine di David M. Rosenthal sono di pregevole fattura con gli stessi difetti di un Transcendence su maxi schermo. Certo la magia del popcorn, dei ragazzini che urlano davanti alle scene che non hanno fatto mai paura neanche al fantasma formaggino sono impagabili, ma Netflix non dev’essere il demonio ma un passo necessario dell’evoluzione tecnologica: se si vuole lo si fruisce sennò amen, i multisala resteranno sempre in piedi con o senza di esso.

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Bird Box non è un bel film, scansiamo ogni dubbio, ma è un film comunque interessante, che paga lo scotto di un primo tempo disastroso, povero e raffazzonato per poi ingranare, coinvolgere e impantanarsi ancora in un finale di pochezza inenarrabile.

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Non ho idea di quanto del libro omonimo di Josh Malerman (da noi uscito per PIEMME come La morte avrà i tuoi occhi) sia rimasto in questa pellicola, ma sono evidenti, almeno a livello cinemagrafico, i dazi da pagare ad uno sci-fi più o meno recente, E venne il giorno (The Happening) di M. Night Shyamalan, nel quale, lì come qui, una forza sconosciuta spinge le persone al suicidio. Bird Box perde la sfida proprio con quel film a livello spettacolare perché il budget di appena 20 milioni non permette di mettere in scena un’apocalisse degna di nota con gente che si getta contro camion in movimento, che si lascia bruciare come bonzi buddhisti, un mondo che sulla carta dovrebbe essere vibrante ma che ricorda solo una brutta intro per un gioco della playstation, 1 si intende non 4.  Siamo ai livelli miserabili, per intenderci, di una produzione alla Renzo Martinelli che cerca di scimmiottare Hollywood, il Barbarossa contro Braveheart, Vajont contro Deep impact, in questo caso il mondo caotico di The Dawn of the dead di Zack Snyder di fuoco e olocausti virato in una poveracciata, come direbbe la nostra Silvia Kinney Riccò, senza paragoni.

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Dopo non è meglio, soprattutto quando il film diventa una specie di remake lovecraftiano di La notte dei morti viventi con personaggi antipatici che dicono cose sensate e altri empatici che risultano dei coglioni. Bird box migliora quando si lascia alle spalle le pretese da blockbuster hollywoodiano e si trasforma in un home invasion claustrofobico per poi accelerare con il ritmo quando sterza nel survival con una fuga incredibile  ad occhi bendati.

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E’ quando smorza il suo cast concentrandosi solo sulla Bullock, una magnifica milf graziata dal tempo, che il film risulta interessante, che riesce a far sentire anche allo spettatore l’angoscia prima di un luogo chiuso per poi ributtarlo in pasto ad un intero mondo allo sbando, senza il ricorso degli effetti speciali stavolta ma con la magnifica idea della privazione della visione.

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Così abbiamo un film spezzato, da una parte le ambizioni spettacolari inattese dall’altro un prodotto più intimista nelle corde della sua regista, non molto a suo agio in un’opera dalle forti sterzate di action orrorifico.

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Sarah Paulson e il cammeo tra un American Horror Story e un altro

Il cast è buono anche se sembra di assistere ai saldi di un discount con attori un tempo sulla cresta dell’onda come John Malkovich, ora ridotti a fare da spalla incolore alla protagonista, anch’essa lontana dal successo di neanche vent’anni fa.

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Attori bravi in saldo a fare parti inutili

Sembra che l’azzeccata scelta di non far vedere i mostri sia stata motivata soprattutto dalla cattiva resa degli effetti speciali. Lo sceneggiatore Eric Heisserer racconta “C’è stato un periodo in cui uno dei produttori ha detto – No, a un certo punto devi mostrare qualcosa- e mi ha obbligato a scrivere in pratica una sequenza in stile incubo in cui Malorie deve affrontarne uno in quella casa. Era tipo un serpente e ho pensato -Non voglio vederlo quando accade. Portatelo nella stanza e basta. Gireremo la scena-. Mi sono girato e il “mostro” era lì che mi ringhiava contro. Mi ha fatto ridere. Sembrava semplicemente un lungo bambino ciccione. Era un uomo verde con una terrificante faccia da bambino“.

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La donna serpente di Jennifer Lynch

Non palesando l’immostrabile, il film comunque ci guadagna tantissimo. Lo stesso problema se l’era posto Jacques Tourneur che, nel girare il bellissimo La notte del demonio, nel 1957, ben 14 anni dopo i suoi exploit horror/fantastici degli anni 40, lottò con tutte le forze per non mettere in scena il suo mostro, il diavolo, perché ridicolo. A differenza di Susanne Bier e del suo Bird Box gli riuscì peggio: il produttore impose la creatura, tanto da sbandierarla nelle locandina.

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Il demonio di Jacques  Tourneur 

Certo che il demone di Tourneur  tanto odiato dal suo stesso autore aveva comunque fascino, malgrado il pensiero del regista. Il “lungo bambino ciccione” mi accende invece i peggiori effetti speciali visti negli horror serpenteschi da La tana del serpente bianco di Ken Russel all’invisibile Hisss di Jennifer Chambers Lynch.

Le somiglianze con il recente A Quiet Place – Un posto tranquillo (A Quiet Place) di John Krasinski esistono, inutile negarlo, ma sembra che il mistero non sia una scopiazzatura da parte di Netflix ma deve essere ricercato nelle influenze che il romanzo di Josh Malerman, anno 2015, ha avuto sul film (semi)muto con Emily Blunt.

E’ all’ordine del giorno, notizia freschissima, che negli States il tasso di cretinismo sia aumentato grazie anche a Bird Box generando degli inaspettati idioti dell’ultima ora che, usando l’hashtag #birdboxchallenge, hanno iniziato a guidare e filmarsi bendati come i protagonisti del film.

Come diceva Cicerone “O tempora, o mores“, tradotto liberamente “la madre dei coglioni è sempre incinta”.

Andrea Lanza

Bird Box

Anno: 2018

Regia: Susanne Bier

Interpreti: Sandra Bullock, Trevante Rhodes, John Malkovich, Sarah Paulson, Jacki Weaver, Rosa Salazar, Danielle Macdonald, Lil Rel Howery, Tom Hollander, Machine Gun Kelly, BD Wong, Pruitt Taylor Vince, Vivien Lyra Blair, Julian Edwards, Parminder Nagra, Rebecca Pidgeon, Amy Gumenick

Durata: 124 min.

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Between Worlds

13 giovedì Dic 2018

Posted by andreaklanza in B, demoni, drammatici, fantasmi, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, thriller

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between worlds, fantasmi arrapati, film orribili, franka potente, nicolas cage

Chi mi conosce sa quanto io adori Nicolas Cage. Sì mi piace davvero, dai tempi di Stregata dalla luna, di Cuore selvaggio e poi grande festa per il suo meritato Oscar in Via da Las Vegas. Nick nostro, come una terribile canzone di Sabrina Salerno e Joe Squillo sulle donne e le loro gambe, meriterebbe “di più”, di più della sua immeritata fama da cagnaccio, di più dei meme che non fanno ridere sui suoi parrucchini, di più della solita scena delle api ne Il predestinato di Neil LaBute che, qui lo dico e non lo negherò, è un ottimo film. Cage, non dimentichiamolo, ha poi lavorato con registi di una certa importanza, da Brian De Palma ad uno tra gli Scorsese più gagliardi, Al di là della vita (Bringing Out the Dead), che chissà perché nessuno cita mai ma che, se non hai un cuore di pietra come quello di Luis in Cimitero Vivente, non può non commuoverti. Nicolas, sia che sia stato diretto da John Woo che dal signor nessuno Rob W. King, è sempre stato un ottimo attore, gigionesco è vero, in pieno overacting molte volte, ma, cazzo, lo stesso succedeva a Pacino senza che nessuno si sognasse di dire “Ehi Al sei una sega“.

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Nicolas e Brian De Palma

Ultimamente, lo sanno anche i sassi, il nostro ha problemi col fisco, problemi grandissimi, visto che gli hanno pignorato ogni bene, e perciò è costretto per ripagare lo zio Sam a fare qualsiasi cosa gli offrano e molti suoi film, questo è vero, non valgono nulla. Dire però che tutta la sua produzione sia merda è ingiusto perché se c’è un orribile Looking Glass – Oltre lo specchio di Tim Hunter ci sono almeno due Paul Schrader ottimi, il sofferto Il nemico invisibile e il folle Cane mangia cane. In più è in questo decennio di crisi che Cage ci ha regalato una delle sue performance migliori, forse la migliore, quella del boscaiolo Joe nell’omonimo film di David Gordon Green. Purtroppo capita, come detto, che alcuni suoi film, soprattutto i suoi sporadici horror, siano davvero indifendibili.

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Nicolas in versione “Non mi lavo da un anno”

Se si esclude il gagliardo Mom and dad di Brian Taylor (lo stesso di Crank e della serie Netflix Happy!), è impossibile salvare l’atroce Pay the ghost o, sul versante thriller, il confuso Inconceivable. C’è da dire che Nicolas ne esce vincitore anche davanti alla ciofeca più eclatante perché ultimamente ha imparato, nei brutti film, a contenersi, a recitare più pacatamente per poi tornare, diavolaccio di un Cage, a strabuzzare gli occhi, a muoversi come una pantera infoiata in pellicole più dignitose se non buone.

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Nicolas in versione “A Serbian film”

Peccato però che questa tesi venga mandata a ramengo dopo la visione, insopportabile e molesta, di Between Worlds, uno dei film più brutti, pretenziosi e stupidi che mente umana potrebbe concepire. Alla cabina di regia abbiamo alla sua opera seconda la poco convincente Maria Pulera, una che non è che giri male, ma in maniera anonima, senza nerbo e televisiva sì, cosa che è sempre imperdonabile in un horror. Siamo in una produzione spagnola, d’imitazione americana che ha la stessa sontuosità della messa in scena di un film bulgaro con Van Damme. In un cast spaurito e spaesato si aggira una Franka Potente lontana dai fasti di un gagliardo Anatomy o dello schizofrenico Lola corre, qui in versione comparsa piagnucolona da direct to video.

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Nicolas in versione “Er mutanda”

La storia, piena di “Ma che cazzo sto vedendo” o “Ma sei serio?” uscite dalla bocca dello sprovveduto spettatore, parla di reincarnazioni, di fantasmi porcelli e camionisti che probabilmente non si lavano da anni. Uno di questi, il protagonista Joe è interpretato da un Nicolas Cage indecente che sembra aver dimenticato come si faccia a recitare, con frasi serie declamate in modo canzonatorio o una mimica facciale alla Jim Carrey dei tempi d’oro di The mask. Fa male vedere Nick nostro che fa l’alcolizzato e probabilmente è sbronzo sul set, con la sceneggiatura che lo vorrebbe affascinante mentre ha una panza da tricheco e una regia che calca con masochismo i momenti di comicità a La pallottola spuntata che la pellicola genera spontaneamente. Per esempio, ad un certo momento, Cage si  fa spruzzare addosso dell’acqua da un’eccitata figliastra a cavallo di una moto: la sequenza non è dissimile, come sensualità ed erotismo, dal ballo dell’otaria orsina prima di morire. L’attore in completa euforia alcolica da’ il suo peggio in un’opera che punta al surrealismo fantastico alla David Lynch e non è neppure ai livelli, non dico della mia adora Jennifer Chambers, ma, che so, del mio meccanico che vorrebbe rifare Strade perdute e filma il culo di una cliente.

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Nicolas in versione “Otaria”

Between Worlds è scandaloso, è un pugno al buon gusto, e arriva proprio quando Nick si era riabilitato con lo splendido Mandy, anche lì in un’interpretazione sotto stupefacenti ma con la differenza di avere dietro un vero regista.

Peccato davvero perché Cage non si merita altra merda, perché noi a Nicolas vogliamo bene e siamo sicuri il prossimo film sarà migliore. Anche perché fare peggio di questo è umanamente impossibile.

NOTA:

Per far comprendere quanto questo mondo di terrapiattisti sia fuori di testa, riporto tradotta la scheda del film da wikipedia;

“Between Worlds ha ricevuto reazioni positive. Il film ha ricevuto una standing ovation durante la sua anteprima in Texas.  Su Rotten Tomatoes , il film ha un indice di gradimento del 74%.  Leigh Monson di Birth.Movies.Death. Ha scritto che: “Between Worlds è un film bizzarro” e definisce il ruolo di Cage: “[…] un personaggio affascinante”. Heather Wixson di Daily Dead ha dato al film un punteggio di 3/5, definendolo: “[…] un’esperienza meravigliosamente bizzarra”. La critica ha anche elogiato il cast, scrivendo che “Cage, Potente e Mitchell offrono un trio di performance sorprendenti”. Il film ha ottenuto buone recensioni da siti come Vanyaland, Ghastly Grinning e Nightmarish Conjurings. Il primo sito l’ha paragonato a Twin Peaks . Altri articoli hanno espresso approvazione per la performance di Nicolas Cage, soprattutto per aver reso convincente le parti hot con l’attrice Franka Potente e hanno definita la sua performance una delle migliori della sua carriera. Anche la critica europea ha reagito bene, lodando la regia di Pulera e la recitazione di Cage“.

Probabilmente tutti questi critici stavano guardando un altro film.

Andrea Lanza

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Anno: 2018

Regia: Maria Pulera

Interpreti: Nicolas Cage, Penelope Mitchell, Franka Potente, Lydia Hearst, Garrett Clayton, Brit Shaw, Hopper Penn

Durata: 90 min.

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Slender Man

25 martedì Set 2018

Posted by andreaklanza in demoni, Recensioni di Manuel Ash Leale

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Alex Fitzalan, Annalise Basso, cinema, creepy pasta, Danny Beaton, David Birke, Eddie Frateschi, film, Gabrielle Lorthe, Javier Botet, Jaz Sinclair, Jessica Blank, Joey King, Julia Goldani Telles, Kevin Chapman, Michael Reilly Burke, Miguel Nascimento, Oscar Wahlberg, slender man, Sylvain White, Taylor Richardson

Nell’era di internet praticamente tutto lo scibile umano è alla portata di ciascuno. Storia, scienza, filosofia, il sapere è pronto per essere gustato. Assaporato. Amato.
E snobbato.

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Come mai potranno la fisica quantistica, la nascita di una nazione, lo spazio profondo competere con gattini pucciosi, teorie del complotto e video con gente che muove le sedie e poi incolpa il fantasma di nonno Gino? Risposta: non possono. Perché se è vero che il web ha consentito l’accesso a un mondo più vasto e, conseguentemente, a un numero maggiore di teorie, metodi e prove, è altrettanto vero che ha spalancato le porte di nuovi misteri. Il problema, con questi misteri, è che diventano tali anche quando non lo sono affatto. Slenderman, fantomatica creatura rapitrice di bambini, è il prodotto della fantasia di Victor Surge, nome d’arte di Eric Knudsen, creato per un concorso fotografico su Something Awful. Un semplice lavoro di ritocco fece esplodere il mito: creepy pasta, fan art, cortometraggi, web series, film. Tutto nella norma, anche accattivante in termini evocativi, non fosse che, nel 2014, l’evocativo ha leggermente esagerato causando tre casi di tentato omicidio in diverse zone degli States. Le quasi omicide erano tutte ragazzine dai dodici ai quattordici anni e la motivazione era la stessa: è colpa di videogiochi, musica metal e film violenti. No, sto scherzando, in realtà erano ossessionate da Slenderman, ma nella guerra “videogiochi VS mia figlia potrebbe avere dei problemi”, i videogiochi vincono sempre.

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Con tutto questo alle spalle è comprensibile l’interesse che ha portato un nuovo film a esordire nelle sale, nonostante le polemiche nate da uno dei genitori delle ragazze coinvolte nei crimini sopra citati. D’accordo o meno con quello che il signor Bill Weier afferma, cioè che si “spettacolarizzi una vera e propria tragedia” e che ciò sia “qualcosa di assolutamente deprecabile”, a Hollywood se ne sono sbattuti altamente le palle, perché se c’è un’idea che può essere vincente si va dritti alla meta. E Slenderman è un’idea dannatamente vincente: una creatura soprannaturale vestita come un Men in Black, alta, senza volto, con tentacoli neri, poteri occulti e rapitore di bambini. Con una cosa del genere fra le mani quasi non ti serve una trama, la sola atmosfera ti fa vincere facile. Per sbagliare un film con questa premessa dovresti farcirlo di stereotipi, jump scare inefficaci, brutti effetti speciali e ragazzini protagonisti in un mondo senza adulti. Insomma, un teen movie. A nessuno verrebbe in mente un suicidio artistico simile.
Ok, a questo punto è palese che sto per girare la frittata, vero? Lo sapete voi e lo so io, ma non posso fare altro. Posso solo apprezzare il grosso impegno che ci hanno messo per mandare a quel paese un villain interessantissimo, con una vera e propria mitologia nata sul web. Immagino le notti insonni passate da Sylvain White, regista, e David Birke, sceneggiatore, intenti a capire come rovinare un film con buone potenzialità.

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Slenderman è un horror scialbo, privo di qualsivoglia personalità, sorretto da una sceneggiatura scontata quando non pretestuosa e giocato sullo spavento facile che provoca più noia che paura. Il plot di fondo è il solito topos di mille altri film: un gruppo di adolescenti decide di seguire un tutorial su internet ed evocare Slenderman, portando il mostro soprannaturale a irrompere nelle loro vite, sconvolgendole con orrore. Sorvolando sul fatto che possa esistere un tutorial per evocarlo, che lo schema sia reiterato fino alla nausea, che i rapporti fra le protagoniste siano abbozzati, che i personaggi non seguano una logica, che alcuni elementi vengano buttati nel mucchio senza mai essere approfonditi, sorvolando su tutto questo e molto altro, cosa resta? Pianti, urla, cotte adolescenziali, CG di scarsa qualità e un senso di inutilità che, questo sì, fa davvero paura. Birke probabilmente si dimentica come fare il proprio lavoro e costruisce un’impalcatura traballante e superficiale, mancando non solo la valorizzazione dell’antagonista, ma anche una caratterizzazione degna delle protagoniste.

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Le ragazze sono modellate in modo che il target di riferimento del film possa identificarcisi, tuttavia si sono dimenticati la benché minima identità psicologica, sono macchiette, cliché ambulanti che non vedi l’ora finiscano tra le grinfie del mostro. Mostro che non sa nemmeno lui che ci sta a fare lì in giro, che penetra nelle case avvisando le vittime con un video in diretta sullo smartphone. Avete capito bene: suona lo smartphone e arriva un video messaggio, in diretta, dove si vede la soggettiva di qualcuno che entra in casa e si avvicina alla malcapitata di turno. Non ci è dato sapere se Slenderman usa un iPhone oppure si connette al cellulare della vittima in qualche modo bizzarro, ma in qualunque caso il disagio è talmente allo stremo da richiamare a sé tutti gli improperi, gli insulti, le maledizioni creando una bomba atomica di parossismo feroce, in procinto di esplodere con furia vendicativa.

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Cos’è successo? Volevano davvero un PG13? Un bell’horror per famiglie senza violenza, sangue, angoscia, atmosfera, praticamente senza orrore. Slenderman è un quieto e innocuo miscuglio di nulla cosmico, costellato da interpretazioni dimenticabili e da scelte narrative ridicole, quando non imbarazzanti. Se vi stuzzica l’idea di fondo pensateci comunque bene: sicuri di non avere davvero qualcosa di meglio da fare?

Manuel “Ash” Leale

Slender Man

Anno: 2018

Genere: horror

Regia: Sylvain White

Interpreti: Joey King, Julia Goldani Telles, Jaz Sinclair, Annalise Basso, Alex Fitzalan, Taylor Richardson, Javier Botet, Jessica Blank, Michael Reilly Burke, Kevin Chapman, Miguel Nascimento, Eddie Frateschi, Oscar Wahlberg, Danny Beaton, Gabrielle Lorthe

Durata: 93 min.

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Starry Eyes

17 lunedì Set 2018

Posted by andreaklanza in demoni, drammatici, Recensioni Francesco Ceccamea, S, satana, splatteroni, streghe

≈ Commenti disabilitati su Starry Eyes

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Alex Essoe, Amanda Fuller, Danny Minnick, Denis Bolotski, Dennis Widmyer, Fabianne Therese, Kevin Kolsch, Louis Dezseran, Marc Senter, Marcus Bradford, Maria Olsen, Natalie Castillo, Nick Simmons, Noah Segan, Pat Healy, satana, Shane Coffey, Spencer Baik, starry eyes, streghe

Starry Eyes è un film che vorrebbe farci riflettere su quanto la smania di raggiungere il successo possa diventare una sorta di abnegazione religiosa, una specie di delirio sacrale. La protagonista dopo l’ennesimo fallimento, un provino andato male, si pugna, strappa i capelli e vomita insulti non verso il mondo che non vuole permetterle di realizzare il proprio sogno di grande attrice, ma verso se stessa per aver mancato l’occasione ancora una volta. E in tutto questo c’è una specie di martirio a puntate, rifiuto dopo rifiuto, umiliazione dopo umiliazione. Il flagello non è più dedicato a un dio e a un ideale di castità. Ora è versato ai piedi della propria ambizione “che tutti abbiamo ma solo in pochi scelgono davvero di seguire fino in fondo” come spiega uno un diavolo tentatore che vi presenteremo più avanti. Status pubblico che renda mitologica la propria persona e la elevi al di sopra della piccola moltitudine di celebrità da social, ormai alla portata di chiunque.

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Da un suggestivo e credibile ritratto di destabilizzazione mentale, Starry Eyes allarga l’obiettivo su un incubo concreto di perdizione e condanna. È l’incubo che spesso prende il posto del sogno che non vuol realizzarsi, così come è il Diavolo a rispondere alle richieste di aiuto degli uomini e non Dio. E sebbene l’uomo capisca che non è la risposta giusta, è pur sempre una risposta. Un’attenzione che è riuscito finalmente a ottenere da qualcuno che sappia di eterno. La protagonista, Sarah, è talmente bramosa di rendere materia le proprie illusioni e illusione la propria carne, che come Alice, pur di fuggire dalla strettissima dimensione di mediocrità e invidie in cui è imprigionata, si accontenta di masticare l’unico fungo in grado di aiutarla a evadere; pazienza se si tratta dell’ammannite falloide.

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Il Cinema è pronto ad accogliere la sua tossicità, le sue crisi. Registi, produttori, addetti al casting, vogliono vederla urlare in terra come una posseduta, vogliono guardarla mentre si strappa i capelli e li lascia cadere ai piedi del mostro divino che la povera ragazza ha creato al posto di un Dio morto da troppo per ricevere ancora la fustigazione fisica come tributo di fedeltà. L’impero dei sogni chiede una dedizione sacrificale monastica: il sangue, il tessuto lacerato diventa una fessura da cui liberare la crisalide via dal bozzolo, materia per altra materia, illusione per altra illusione.
È così doloroso vedere una ragazza denutrita, costretta a inventarsi acconciature sempre più fantasiose per coprire le chiazze lasciate dai capelli strappati, è tangibile il nervosismo logorante, anoressico, la stressante fatica di tenere insieme un’illusione di bellezza che non basta mai per giungere a destinazione. Loro dicono a Sarah di essere semplicemente se stessa ma è esattamente il contrario che vogliono. Desiderano che odi se stessa, così da tormentarsi e infliggersi sempre nuove pene distruttive. In un certo senso nel provino andato bene, quando cade in terra lasciando fluire per la prima volta su richiesta le sue intime crisi consumate nel buio di un cesso o nella cameretta tappezzata di volti cinematografici femminili, si pensa più a L’Esorcista che a una prova istrionica alla All That Jazz.

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Viene in mente Suspiria e il suo epigono più riuscito: Masks, grande horror del tedesco Andreas Marschall, uscito nel 2011. Anche qui la protagonista è pronta a tutto pur di farsi accettare da una piccola élite artistica, superando una selezione crudele e spietata a ogni costo. E alla fine il successo offre diritto al godimento di un sortilegio che trasforma Sarah in una specie di strega putrida e pronta a trucidare vite in cambio dell’eternità. Streghe con un coltello, come la madre che tutti sentiamo nell’angolo più remoto del nostro cuore. E anche l’ingresso dello studio di produzione, dove spesso si ritrova a sospirare la protagonista stessa, rimanda allo stile liberty della scuola di danza di Friburgo.
Il produttore, interpretato da Louis Dezseran, ha lo stesso sorriso feroce e allucinato di Alida Valli. E non si fatica a vedere nel pallido e incerto volto di Alex Essoe una versione più provata dai nostri tempi votati all’auto-consumismo industriale, di Jessica Harper. Impossibile non pensare poi ai recenti scandali dell’orco Weinstein della Miramax quando la povera attricetta frustrata rinuncia alla parte pur di non “darla via” al produttore. E alla fine ci offre la risposta più logica e coerente sui perché di chi accetta di scendere così tanto a compromessi pur di realizzare i propri sogni: “se devo lavorare in una panineria per vivere è già vendere l’anima, tanto vale darla per qualcosa che si ama davvero”. E ovviamente Sarah ha solo bisogno di un po’ di tempo per metabolizzare la decisione più grave della propria vita: offrire il proprio pezzetto di Paradiso piuttosto che sopportare le battute dell’amica invidiosa, gli sguardi compassionevoli dei compagni e l’aria viscida del suo titolare, che le offre una seconda possibilità al lavoro, anche se lei ha mostrato poca riconoscenza e rispetto per un impiego sicuro e con la paga buona, che per Los Angeles significa né più né meno che respirare.

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Peccato per l’eccesso di violenza e sangue. Lo splatter e il gore una volta erano una sfida, un assalto creativo dal sapore politico, oggi sono solo ostentazioni muscolari di facile effetto, per un pubblico ipernutrito di scene repellenti e al limite della sopportazione. Nel panorama cinematografico indipendente anche il più piatto degli horror mostra le viscere e le teste fracassate ma non c’è più nulla di coraggioso in questo. Ora sarebbe il momento di rinunciare; questo significherebbe avere le palle, ormai.
Starry Eyes non avrebbe bisogno di legittimare le suggestioni inquietanti che ci suscita con la bassa macelleria. La trasfigurazione di Sarah poi diventa fin troppo evidente sul piano fisico e ricorda Contracted. Ed è da lì che il film perde quota; anche se i bigattini in un certo senso riconducono ancora una volta a Suspiria.

Francesco Ceccamea

Starry Eyes

Anno: 2014

Genere: horror (colore)

Regia: Kevin Kolsch, Dennis Widmyer Interpreti: Alex Essoe, Amanda Fuller, Noah Segan, Fabianne Therese, Shane Coffey, Natalie Castillo, Pat Healy, Nick Simmons, Maria Olsen, Marc Senter, Louis Dezseran, Danny Minnick, Spencer Baik, Denis Bolotski, Marcus Bradford

Durata: 98 min.

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Pumpkinhead

30 sabato Giu 2018

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, demoni, mostriciattoli, P, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni

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Brian Bremer, Chance Michael Corbitt, Cynthia Bain, Dick Warlock, Florence Schauffler, George 'Buck' Flower, Jeff East, Joel Hoffman, John D'Aquino, Kimberly Ross, lance henriksen, Lee de Broux, Matthew Hurley, Peggy Walton-Walker, pumpkinhead, stan winston

Ed Harley è il proprietario di un piccolo negozio. Dovendo svolgere una commissione, Ed è costretto a lasciare il giovane figlio Billy da solo. Durante la sua assenza un gruppo di campeggiatori adolescenti (Chris, Joel, Kim, Steve, Tracy, Maggie) si diletta in motocross e involontariamente feriscono mortalmente Billy. Steve resta con il ragazzo fino al ritorno del padre mentre gli altri si allontanano. Nel loro capanno discutono se sia il caso o meno di chiamare la polizia ma Joel, il responsabile dell’incidente, è in libertà vigilata per un incidente simile e mette gli amici in condizione tale che non possano farlo. Harley, con il suo cane Gypsy, si reca da una presunta strega, la quale gli dice che non può riportare in vita suo figlio. In realtà Harley desidera solamente vendicarsi. La strega accetta di aiutarlo e lo avverte che la vendetta avrà un prezzo terribile. Su ordine della strega, Harley si reca in un vecchio cimitero di montagna, riesuma un cadavere sfigurato e lo porta in casa della donna, la quale, usando il sangue del padre e del figlio, riporta in vita il cadavere, che assume l’aspetto di un’esile creatura demoniaca. La vendetta è incominciata.

Pumpkinhead è una delizia degli anni 80, uno splatter rurale che i nostri ciechi distributori hanno deciso, al’epoca delle vhs, di non importare né al cinema né tantomeno su nastro magnetico. Così, col passare degli anni, è diventato un film di culto, ma non così tanto da essere riscoperto o recuperato, un po’ il destino del Frankenhooker di Henenlotter e di tanti sfortunati horror rimasti ingiustamente orfani nel nostro Paese. Almeno parzialmente: in Italia Pumpkinhead fu distribuito in dvd dal terzo capitolo, senza preoccuparsi bellamente dei primi due film.

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Sugli scaffali delle videoteche, nei primi anni del 2000, spuntarono Ceneri alle ceneri (Pumpkinhead 3) e Faida di sangue (Pumpkinhead 4), discreto il primo, mediocre il secondo, con frasi di lancio come “Lui è tornato per vendicarsi“.

Pensate alla faccia del signor Giulio, uno pazzo per i film di paura, ma non tanto da leggere i vari Nocturno o Fangoria ovviamente, la sua cultura si ferma a Notte horror di Italia uno, ma, credetemi a lui piace il genere, tanto che aspetta ancora che facciano La casa 6 e nessuno ha il coraggio, né quella buona donna di sua moglie, la Marta, né Osvaldo, l’amico di una vita, pazzo per i porno, scapolone impenitente dalla battuta pronta, a dirgli la verità. Eccolo però una sera d’Estate Giulio, 60 anni, birrozza vicino al tavolino mentre sua moglie è dalle amiche a giocare all’italianissimo bridge, che accende la tv, sfarfallio e il titolo Pumpkinhead 3 che appare a tutto schermo. Non solo: ci sono persino personaggi che esclamano “Ti ricordi di quando…“, “Eccolo è tornato il mostro“, “Quei ragazzi vent’anni fa se lo sono meritati“.

Giulio blocca e pensa “Ma chi? Chi è tornato? Chi se l’è cercata” e decide il giorno dopo di tornare in videoteca, l’unica forse esistente in Italia.

Si avvicina al commesso e chiede un po’ sommessamente “Mi puoi noleggiare Pumpkinhead, il primo, e magari anche il secondo“. Il ragazzo, Gimbo, uno che ha la simpatia di chi si farebbe tua madre, lo guarda e aprendo la bocca, quasi a far cadere la mascella, esclama “Ehhhhhhhhhh????” con quel fare amichevole che, se tu avessi un problema a parlare, tipo la balbuzia, prenderesti il fucile a pompa per girare, restando in tema, il terzo capitolo di Videoteca di sangue senza che nessuno sappia dei primi due. Giulio però non si scoraggia e mostra al ragazzo il titolo e lo legge pure piano, come se parlasse con una scimmia con un grave ritardo mentale, “Pumpkinhead, è il numero 3“. Gimbo si gratta le palle, con la stessa mano si scaccola il naso e poi in silenzio finisce l’opera pulendo i padiglioni auricolari, tutto mentre il ragazzo sembra imprigionato in una qualche poesia di Edgar Allan Poe sull’ineffabile romanticismo della morte, stesso sguardo perso in procinto di dire “Nevermore“. La risposta di Gimbo arriva come doccia gelata per Giulio “No, non esiste. Hanno fatto solo il tre” e dietro di lui, sornione, il faccione di Pumpkinhead 4.

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Dietro il tre si cela il quattro, caro Giulio.

Giulio non saprà mai dell’esistenza di Pumpkinhead di Stan Wiston e spesso racconterà alla moglie e all’Osvaldo di come il cinema sia strano: non hanno fatto ancora un La casa 6 ma la 7 sì, e poi comincerà a parlare di questo film, bellissimo, con un mostro dalla testa di zucca che uccide cattivoni. ” Hanno girato solo numero 3” esclama agitando le mani. Se solo avesse letto quest’articolo ora lo saprebbe come saprebbe della tresca tra la Marta e l’Osvaldo perché, non è pubblicità, ma Malastrana vhs apre la mente e blocca sul nascere le corna, a parte che non siate la donna cervo di Landis, in quel caso chiedetemi il numero. Comunque se Il Giulio sapesse tutte queste cose, ora potrebbe andare a resuscitare il suo personale Pumpkinhead e vendicarsi dell’Osvaldo e di quella troiona non più brava donna della Marta, ma è un buono il Giulio, ride giulivo, un po’ come l’Aretino Pietro, quello che scappava con una mano davanti e con l’altra dietro. D’altronde chi cazzo gioca a bridge in Italia?

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Essere cervi senza leggere Malastrana

Pumpinkhead è uno dei due film girati dietro la macchina da presa da Stan Wiston, mago degli effetti speciali in film leggendari come Aliens, Terminator, Predator, Leviathan e persino Congo con le scimmione che volevano essere, e non erano, i T rex di Jurassic Park. In questo campo, quello dei trucchi, Stan Wiston era uno dei migliori, ma in quello della regia, beh, non era così bravo. Lo dimostrerò con quella cosa incredibile che è Lo gnomo e il poliziotto, un cult scult che girava spesso sulle reti private e, se lo raccontavi al bar, la gente ti guardava strano come se avessi visto, con in testa un cappello di carta stagnola, un UFO.

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Pumpinkhead non è girato male, non fraintendetemi, è girato anzi con tutti i sacri crismi del manuale del perfetto filmaker e come tale è privo di personalità. Sul piano tecnico è un compitino ineccepibile certo ma senza coglioni: lo stile, le bizzarrie anche visive che hanno le opere prime horror, da Sam Raimi a Peter Jackson, qui non ci sono. Questo d’altronde distingue i bravi tecnici dai bravi artisti: il codin della volpeta, l’ingrediente segreto che trasforma un banalissimo piatto di pasta in WOW CHE ORGASMO!

Prendiamo, per esempio, un film per certi versi simile, il Rawhead Rex di George Pavlou, sicuramente inferiore qualitativamente all’opera di Stan Wiston eppure con quella regia unica e particolare, anche nei difetti, che non ha Pumpinkhead.

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E’ un peccato perché il mostro dalla testa di zucca è fighissimo, le sue uccisioni sono sanguinose al punto giusto, l’ambientazione sporca e provinciale, che ricorda gli Hooper o i Craven, è efficace, ma c’è sempre quest’aria, un po’ da telefilm anni 80, che inficia molte delle cose buone presenti. La cosa che manca è il senso di tragedia che l’ottima sceneggiatura invece possedeva: Pumpinkhead diventa così un divertente e un po’ gratuito gioco al massacro, un fumettone senza il controllo di una mano abile dietro la macchina da presa. Manca l’empatia del pubblico per i vari personaggi, per una volta interessanti in un teen horror che non richiede solo tette nude. Stan Wiston purtroppo non lavora sugli attori e si concentra solo sulla parte tecnica fallendo in un film che richiederebbe quel quid in più per emergere dalla media del genere, uno sforzo anche minimo per dare una scintilla d’anima alla sua opera. Si salva solo Lance Henriksen, ma anche la sua è una performance troppo stralunata per un ruolo che dovrebbe essere intenso

Siamo in un anomalo slasher dove le vittime sono colpevoli di avere commesso (o nascosto) un omicidio e vengono trucidate da un altro assassino. Un killer vs killer d’impianto fantastico. Nella mattanza, la cosa più divertente,è che il primo a morire è però un ragazzo che con la morte del figlio del protagonista, causa scatenante della vendetta della creatura, non c’entra nulla, anzi si è pure fermato a soccorrere il bambino morente.

Pumpkinhead

L’opera nasce stranamente da una poesia, una lirica scritta da Ed Ustin dallo stesso titolo ma non collegata al film:

“Keep away from Pumpkinhead,
Unless you’re tired of living,
His enemies are mostly dead,
He’s mean and unforgiving,
Laugh at him and you’re undone,
But in some dreadful fashion,
Vengeance, he considers fun,
And plans it with a passion,
Time will not erase or blot,
A plot that he has brewing,
It’s when you think that he’s forgot,
He’ll conjure your undoing,
Bolted doors and windows barred,
Guard dogs prowling in the yard,
Won’t protect you in your bed,
Nothing will, from Pumpkinhead!“

(traduzione italiana mia a cazzum:

Stai lontano da Pumpkinhead,

A meno che tu non sia stanco di vivere,

I suoi nemici sono per lo più morti,

È cattivo e implacabile,

Ridi di lui e sarai sconfitto,

In modo terribile,

La vendetta per lui è divertimento,

E la pianifica con passione,

Il tempo non cancellerà

la trama che ha preparato,

È quando pensi che si sia dimenticato,

Evocherà la tua rovina,

Porte e finestre serrate,

Cani da guardia che si aggirano nel cortile,

Non ti proteggerà stare nel tuo letto,

Niente fermerà

Pumpkinhead!)

Poesia tra l’altro molto evocativa: già da queste poche strofe si intravedono i semi di un film che comunque fa il suo sporco lavoro di serie B regalando sequenze interessanti di morte, inaspettatamente splatter ed efferate. Interessante anche l’intuizione di contaminare l’horror con la mitologia indiana, non un’idea nuova ma dall’indubbio fascino. Pumpkinhead riesce ad essere un cult anche per i suoi difetti, ma soprattutto per una vena cinica e disperata che attraversa tutto il film e che porterà il plot verso un plumbissimo finale.

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L’effetto speciale più azzeccato, e di sicura presa spettacolare, è senza dubbio la mutazione del mostro dalla testa di zucca in un simile Lance Henriksen così da assottigliare il legame tra creatore e mostro, entrambi carnefici ed entrambi legati  dallo stesso peccato, la rabbia, la vendetta, il desiderio insano di una giustizia divina quando ci si deve affidare agli uomini. Così, al pari di un fruitore di porno, un voyeur desideroso di amplessi altrui, il protagonista vivrà gli omicidi attraverso occhi non suoi, quelli della creatura, annientando l’idea che un peccato non vissuto non sia peccato, malgrado i calli sulle mani o il sangue sulla pelle.

Pumpkinhead genererà un buonissimo seguito nel 1993, Pumpkinhead: Blood wings, disprezzato dai più ma dalla regia più efficace di questo primo capitolo. Il terzo e quarto segmento si concretizzeranno, come già visto, nel nuovo millennio, grazie al mercato dei tanti film usa e getta buttati in videoteca, un destino certo infame per un personaggio dalla grande efficacia scemica come il nostro mostro zuccone.

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Fangoria però inserì Pumpkinhead come uno dei migliori horror mai fatti: sicuramente è un film divertente da guardare. Una delle sfortune di quest’opera è di essere stato un discreto fallimento al botteghino, causa probabile del non interesse dell’opera in Italia. Forse nel 1988 il pubblico affezionato di splatter cominciava a stancarsi del genere.

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Pumpkinhead momentaneamente senza vita al cinema, trovò linfa vitale nel mondo dei comics. La prima serie a fumetti che lo vede protagonista è Pumpkinhead: The Rites of Exorcism, pubblicato dalla Dark Horse Comics nel 1993. La storia ruota intorno alla giovane Mariah, innamorata del figlio di un dottore, David, ma destinata ad essere l’apprendista di una strega indiana, la stessa che, nel primo film, aiutò Henriksen a richiamare in vita il mostro. Il secondo volume è stato scritto da Mark Patrick Carducci, lo stesso sceneggiatore del film di Winston e penna brillante dietro il non proprio brillante Neon maniacs. Il suo albo è il migliore, il più inquietante, con personaggi interessanti e quel gusto di splatter beffardo e crudele che aveva reso grande la pellicola al cinema. Purtroppo la serie non ebbe il successo sperato e non vennero mai dati alla luce gli ultimi due capitoli, anche se fu anticipato l’arrivo di un Pumpkinhead alato, come ogni buon sequel numero 3 vuole dai tempi di Robocop che vola.

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Doveva essere così il Pumpkinhead volante

Proprio quest’anno lo scrittore Cullen Bunn ha scritto per la Dynamite Entertainment una miniserie di 5 numeri, molto bella tra l’altro, che vede il mostro zucca tornare, stavolta non da solo, a vendicare la morte di due bambini perpetrata da una famiglia di psicopatici. Il primo albo ha una bellissima copertina di Kelly Jones, fumettista, per noi di Malastrana, eccezionale e particolare, famoso per i suoi lavori in Batman e nella miniserie di Aliens Alveare, tra i più dark e astratti delle collane.

Cullen Bunn ha dichiarato prima dell’uscita l’amore per il primo film di Stan Wiston:

“Ho visto Pumpkinhead alla serata di apertura in un piccolo teatro a due schermi fuori dal Berkeley Mall a Goldsboro, Carolina del Nord. Dire che ha contribuito a cementare il mio amore per l’orrore (e, in particolare, per l'”horror rurale “, genere per cui scrivo molto di questi tempi) sarebbe un eufemismo. Posso recitare la poesia a memoria. Ascolto anche la colonna sonora mentre scrivo le mie storie. Il ritmo, il senso di mistero che evoca, gli strani giochi di luce e d’ombra. Questi sono tutti elementi che spero di catturare nel fumetto. Come fan dell’horror di lunga data, io tengo questo film in grande considerazione, e non potevo essere più entusiasta di contribuire al mito del Demone della vendetta“.

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Notizia recente è che Pumpkinhead avrà un nuovo reboot, ma a scriverlo sarà il ben poco rassicurante Nathan Atkins, già autore di un dimenticabilissimo sequel, S. Darko, un film capace di ipnotizzarti, tipo Sir Bis, solo con l’aiuto della patata presente, Daveigh Chase e Briana Evigan.

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Briana, mon amour

Noi intanto ci teniamo stretti sia Pumpinkhead che i suoi seguiti, riusciti o sgarruppati che siano. Se poi l’uomo zucca ritornerà in splendida forma, noi saremo i primi ad esserne felici.

Andrea Lanza

NB Non perdete gli approfondimenti sul mostro zuccone nei blog degli amici Lucius e Cassidy, Il Zinefilo e La bara volante!

Pumpkinhead

Anno: 1988

Regia: Stan Winston

Interpreti: Lance Henriksen, Jeff East, John D’Aquino, Kimberly Ross, Joel Hoffman, Cynthia Bain, Florence Schauffler, Brian Bremer, George ‘Buck’ Flower, Matthew Hurley, Lee de Broux, Peggy Walton-Walker, Chance Michael Corbitt, Dick Warlock

Durata: 86 min.

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Terrifier

25 venerdì Mag 2018

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, demoni, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni, T, thriller

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art il clown, art the clown, damien leone, halloween, mimo clown, morire male, morire malissimo, non aprite quella porta, pagliacci cattivi, ragazze segate in due, terrifier, texas chainsaw massacre

Terrifier è il filmaccio che spegni dopo cinque minuti scegliendo produzioni più importanti, gli squali in CGI brutti di Deep sea blue 2, lo spaventone bubusettete della Blumhouse, l’ennesima patacca uscita al cinema d’estate, e poi, grazie alle notti insonni, lo riprendi e capisci, come il principe di Bel Air, che tanto male non è.

Di Damien Leone, regista indie dall’infama celebrità, uscì un po’ di tempo fa un horror brutto come la morte impestata a Pisa, All Hallow’s Eve: tre episodi poveri, girati col culo, noiosi dove primeggiava soltanto lo spaventoso clown Art. Per noi, fan del cinema bello ma sgarruppato, la carriera del regista poteva soltanto concludersi con una prigionia in Siberia, sotto zero, a cercare per i nazisti la lancia di Longino, in eterno, sotto le frustate di Ilsa la belva umana.

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Damien Leone e Art il Clown

E sbagliavamo perché Terrifier è sì un film con i limiti di una produzione girata con i soldi dati dalla mamma per il Buondimotta della ricreazione, ma anche uno dei parti più spaventosi e genuini degli ultimi anni.

Damien Leone capisce che il punto forza del suo precedente lavoro è solo lui, Art il clown, e gli dedica un intero, cattivissimo, sanguinoso film.

Art non è Pennywise, non ha battute, non è simpatico, non ha nessun background triste da empatizzare, è la morte pura e semplice che un giorno di Halloween, come Michael Myers, esce per le strade e richiede il suo pagano tributo di sangue.

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Per certi versi Terrifier ricorda, con i dovuti limiti, Inferno di Dario Argento: la sua scatenata danza di morte su scenari che vengono bombardati da luci violente, gli omicidi fantasiosi e quel senso di favola per bambini ormai adulti che è perenne, dappertutto. Certo Inferno è quel capolavoro che Terrifier non sarà mai, ma questo non leva all’opera di Leone di essere altrettanto riuscito nelle atmosfere, una cosa, ricordiamolo, non da tutti con il budget ridotto che si è trovato tra le mani il regista.

Ovviamente Terrifier ha le sue lacune, grandissime, come il ritmo e soprattutto la sceneggiatura che, per forza di cosa, pena il finale dopo dieci minuti, fa fare cose cretine ai suoi personaggi che neppure in Scooby Doo. Vi faccio l’esempio più grande: se siete imprigionati in balia di serial killer che vi sta per uccidere e, per grazia di Dio, riuscite non solo a liberarvi, ma anche a dargli una mazzata bella forte, che fate? Scappate o infierite finché lo stronzo non è a terra in una poltiglia di cervello spappolato? La seconda ovviamente, beh non tanto ovvio perché le vittime di Terrifier scelgono sempre  la via più impervia, danno uno sbuffetto sul coppino del pagliaccio come monellacci e poi corrono verso la futura morte certa perché sai che Art il clown presto o tardi si rialzerà e farà loro molto male.

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Gli omicidi nel film di Leone sono davvero tantissimi e tutti fantasiosi: pizzaioli bruciati come la zucca di Jack-o’-lantern, ragazze segate a metà dal pube alla testa con le viscere che cadono, teste riempite di piombo, visi mangiati, donne spellate e indossate come in un capitolo apocrifo di Non aprite quella porta; è una sagra dello splatter più ignorante e genuino. Il bello, quello che fa la differenza però, rispetto a produzioni altrettanto povere e gore come Hazard Jack, è la confezione perché Damien nostro crede al suo film e lo cura con effettacci vecchia scuola ben fatti, quelli che un tempo avresti visto in un film di Joseph Zito con la complicità di Tom Savini.

Non siamo fortunatamente però in un gioco vintage che piange sugli anni 80 come Hatchet, no qui si fa sul serio, si usano i cellulari per chiamare e fare selfie e non c’è spazio, tra una morte e l’altra, per una frase maschia perché quando si muore, qui, si muore malissimo.

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Notevole il cast femminile soprattutto la splendida Jenna Kanell, alla quale spetta un ruolo da pseudo protagonista, omaggio questo sì alla struttura di Psycho.

Terrifier, come detto, riesce nel difficile compito di turbare, spaventare e disgustarti, una cosa che in un cinema così laccato e pulito come quello horror americano moderno sembra davvero una specie di miracolo. Per questo benediciamo Damien Leone e vi consigliamo il film, a patto, ovvio, che siate disposti a sporcarvi di sangue e budella calde perché Terrifier è imperfetto ma delizioso, povero ma ricco di idee, non un blockbuster ma forse l’esempio più genuino di bloodbuster nuovo millennio.

Andrea Lanza

Terrifier

Anno: 2017

Regia: Damien Leone

Interpreti: Jenna Kanell, Catherine Corcoran, David Howard Thornton, Margaret Reed, Katie Maguire, Samantha Scaffidi, Pooya Mohseni, Sylvia Ward, Gino Cafarelli, Kamal Ahmed, Michael Leavy, Julie Asriyan, Xiomi Frans-Cuber, Erick Zamora

Durata: 90 min.

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