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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Rabbia furiosa – Er canaro

26 domenica Mag 2019

Posted by andreaklanza in drammatici, R, Recensioni di Andrea Lanza, splatteroni, thriller

≈ 6 commenti

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“Volevo far rassomigliare la sua faccia a quella di un cane e così gli ho anche tagliato le orecchie come facevo ai dobermann. Sembrava uno zombie. Non moriva mai. Alla fine, esasperato, gli ho aperto la bocca con una chiave inglese, rompendogli i denti, e l’ho soffocato mettendogli dentro tutto quello che gli avevo amputato. Poi l’ho portato tra i rifiuti, dove si meritava, e gli ho dato fuoco“

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Leggiamo da wikipedia:

“Pietro De Negri, detto il Canaro della Magliana (in romanesco: er Canaro; Calasetta, 28 settembre 1956), è un criminale italiano. Deve il soprannome all’attività di toelettatore di cani in via della Magliana 253, nella zona popolare della Magliana Nuova a Roma, nel quartiere Portuense. Salì alla ribalta per il brutale omicidio dell’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci nel 1988. Il fatto, il delitto del Canaro, colpì per la sua particolare efferatezza, poiché la vittima, a quanto dichiarò l’assassino, sarebbe stata torturata a lungo e mutilata a più riprese prima di essere finita, anche se in seguito l’autopsia smentì questa versione“.

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De Negri, basso, magro e descritto come un tipo pacato, dichiarò di aver ucciso Ricci per vendetta, dopo che, per anni. ne aveva subito le angherie. Tra le molte torture, durate sembra ben sette ore, confessò anche di aver aperto il cranio del suo nemico e di avergli fatto “lo shampoo al cervello”, usando un prodotto che usava per lavare i cani. Non tutto quello che De Negri raccontò però era successo come e quando aveva detto lui.

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Da questo fatto di cronaca nera nascono due film quasi contemporanei: Dogman di Matteo Garrone e Rabbia Furiosa di Sergio Stivaletti. Entrambi si prendono grandissime libertà dalla realtà dei fatti, cambiando nomi e persino luoghi alle vicende del sanguinario canaro, Garrone dichiarerà d’altronde che “il fatto di cronaca era semplicemente uno spunto” e “non c’è mai stato nessun tentativo di ricostruire i fatti come sono andati” tanto che i personaggi non “corrispondono a quelli del fatto di cronaca”.

Due film, due approcci diversi, due pellicole che più agli antipodi non possono essere, uno sguardo realista, minimalista, crudo per Garrone, uno più urlato, sensazionalista e horror per Stivaletti.

Rabbia furiosa non ha il bottage pubblicitario di Dogman: fa una sortita al Fantafestival del 2018, qualche proiezione in cinema selezionati, e scompare, povero, sfigato e con quell’aria di prodotto indecifrabile, sulla carta fratello sciacallo di un successo d’essai.

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Esce, proprio in questi giorni, però in dvd e blu ray grazie all’interessamento della Home movies di Giacomo Ioannis in edizioni piene di extra, limitate e che rendono giustizia ad un film finora solo miticizzato attraverso il passaparola dei pochi fortunati spettatori e della rivista Nocturno. A Ionnis, ai suoi collaboratori e alla sua casa di distribuzione non dimentichiamo dobbiamo in questi ultimi anni una riscoperta di perle dell’infimo del cinema exploitation in collane come Freak video, un’amore incondizionato per il cinema che ha reso possibile l’impossibile: l’arrivo dei B movie più weird del pianeta con la stessa cura nel proporli di pellicole blockbuster. Chapeau.

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Sergio Stivaletti, lo ricordiamo, è un’istituzione, non solo un uomo, per quanto riguarda gli effetti speciali nel nostro Paese. A metà anni 80, tra le molte cose, curò i trucchi per Demoni di Lamberto Bava, un film che ad impatto visivo, pur se derivato da Zombi di George A. Romero, ebbe un clamore incredibile generando figli illegittimi oltreoceano come il Vamp di Richard Wenk, e fu citato, omaggiato, saccheggiato dalla coppia Tarantino/Rodriguez per il bellissimo Dal tramonto all’alba. Tutto merito di Stivaletti e delle sue creature: prima di Demoni in Italia non si era visto un prodotto così accurato negli effetti speciali, così estremo nell’effettistica a base di lattice, sangue e animatroni come negli horror oltreoceano, senza quell’aria un po’ pauperistica dei nostri prodotti anche eccellenti.

Il passaggio di Stivaletti dietro la macchina da presa accadde nel 1997 quando si trovò a sostituire l’insostituibile Lucio Fulci, deceduto l’anno precedente, per il film MDC – Maschera di cera, un progetto che sulla carta doveva unire Dario Argento come produttore e, appunto, Fulci come regista, due eterni rivali riuniti da un progetto comune. La morte non rese purtroppo possibile questo, ma la tragica circostanza fu anche l’occasione per Stivaletti di esordire nella direzione di un horror, un peso grandissimo visto anche le attese generate da un’opera che doveva sancire il ritorno in pompa magna dell’autore di Paura nella città dei morti viventi.

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Quando uscì MDC – Maschera di cera il pubblico non fu generoso verso un film che traspirava Fulci da tutti i pori, crudele, sadico e girato in stato di grazia, più di quanto il maestro Argento avesse fatto in contemporanea con l’orribile Fantasma dell’opera. Certo il film era penalizzato da una trama non sempre brillante, che banalizzava il modello letterario di Gaston Leroux, ma era comunque un horror tosto con nudi, sangue e creature, un cinema che nel 1997 era reperto passato, mortificato dalla televisione e rialzava la testa con orgoglio in una terra di morti viventi lì lì per diventare una landa di prodotti miseri e (casal)indi.

La sua seconda regia, I tre volti del terrore, del 2004, fu meno riuscita, un horror a episodi che non stupiva, non graffiava e risultava stanco anche in una messa in scena non molto convinta.

Rabbia furiosa arriva dopo una serie di cortometraggi, invisibili per di più, un episodio di un film mai distribuito, The Profane Exhibit, sotto la supervisione di Uwe Boll, e una serie tv, Fear, della quale non esiste traccia di notizia sul web.

Stivaletti oltretutto, sulla carta, non sembrava neppure avere la sensibilità per affrontare un fatto di cronaca così delicato e brutale come quello degli omicidi del Canaro. Invece il film è una piccola sorpresa: è un prodotto sicuramente povero, ma potente, sensazionalista senza dubbio, ma che usa questa cifra stilistica, da horror realista, come qualcosa di talmente originale da essere unico nel panorama italiano, Garrone o meno.

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Si vede che Stivaletti ci crede: la regia è attenta, da prodotto neo neorealista anni 90, un po’ sulla scia di Claudio Risi con Pugni di rabbia, di Giulio Base con Crack e di Claudio Fragasso con Teste rasate. Un cinema quindi, nato dallo stupro di Pasolini, che non esiste più, uno sguardo cinematografico alle periferie più povere di Roma senza essere ancora documentario alla Ciprì e Maresco, pellicole incattivite, anzi incazzate, urlate, superficiali ma con una rabbia paragonabile a L’odio di Kassovitz.

Stivaletti si infila, fuori tempo massimo, in questo filone morto, dimenticato dai più e che ultimamente ha visto solo un tardo epigono, La grande rabbia di Claudio Fragasso, imparagonabile, per messa in scena e recitazioni, a quegli anni di giovani autori fumantini.

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Stivaletti che di anni ne ha 62, non è più sicuramente un regista giovane ma la sua opera è qualcosa di incredibile, di innovativo, una continua sorpresa a livello di invenzioni narrative inaspettate, di idee anche visive che cozzano con prepotenza in una produzione che lo si sente non è ricca, che svirgola nei suoi attori molte volte, ma che ha quel bisogno di essere davvero cinema, riuscendoci straordinariamente, in un panorama di robaccia carbonara fatta per e solo gli amici.

Rabbia furiosa non è un horror, ma ha gli elementi da horror, lo splatter, l’introduzione di una siringa verde come quella di Re-animator, le soluzioni da thriller argentiano nella parte finale, una cosa soltanto accarezzata da Sergio Sollima in un altro horror camuffato, ACAB, ma che qui, e solo qui, ha il suo apogeo, la sua resa meravigliosa, più mostruosa e affascinante.

Non tutto funziona nel film di Stivaletti, alcuni attori, come detto, sono fuori parte, troppo caricati altri, ma abbiamo comunque una buona prova del suo attore principale, Riccardo De Filippis, in un ruolo che, è vero, riprende il suo analogo in Romanzo criminale la serie tv ma che risulta comunque efficace. Anche se la vera sorpresa è Romina Mondello, avanti con gli anni ma bellissima, che ci regala un ritratto di donna tragicamente umano, nobilitato da una recitazione mai troppo esasperata e migliorata notevolmente dai suoi esordi.

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Dispiace che il film sembri fare un passo indietro in momenti che invece andrebbero caricati: esempio eclatante la scena dello stupro della moglie del Canaro, troppo castigata, troppo morigerata in una pellicola che pochi minuti dopo non si farà problemi a mostrare una castrazione nel dettaglio.

Roba di poco conto è vero, ma che soltanto una ventina di anni fa non sarebbe stato motivo di (auto) censura in un cinema, come quello popolare, che non aveva paura a versare non solo il sangue ma anche a mostrare il pelo delle sue attrici, in quello stupendo connubio di sex and violence che ha reso miticizzata la nostra exploitation anche nelle derive veriste di un I ragazzi della Roma violenta.

Sul piano effettistico il film è eccezionale soprattutto quando si scatena, negli ultimi minuti, in torture, compreso il già citato shampoo al cervello, dettagliate, pornograficamente violente, un pugno allo stomaco inaspettato e potente. Qui Stivaletti da’ il suo meglio e si ha finalmente la trasformazione effettiva dal reale all’irreale trasmutando l’opera in una tavolozza alla Herschell Gordon Lewis, talmente crudele e sadica da essere iperrealista, affidandosi non alla cronaca ma alle affascinanti bugie del Canaro in quel mondo, tanto caro al regista, di cinema fantastico.

Non funziona la parte che vorrebbe essere poetica, la redenzione post mortem del Canaro in un’atroce, questa sì, allegoria del paradiso, in una chiusa ridicola che stride un po’ con tutta l’opera, ottima comunque.

Un plauso va alla capacità anche dei due sceneggiatori oltre a Stivaletti, Antonio Lusci e Antonio Tentori, di cercare strade innovative in un film che era presentato, nel passaparola della stampa, come “la risposta povera a Dogman” e che invece urla, vibra ed esiste con una propria anima, magari una melma mutaforma capace però di appassionare e, perché no, far sperare ad un sussulto di un cinema morente. Qui però senza dubbio siamo davanti ad un film e non ad uno scherzone girato tra amici. Cosa non sottovalutabile e maledettamente apprezzabile.

Andrea Lanza

Rabbia furiosa – Er canaro

Anno: 2018

Regia: Sergio Stivaletti

Interpreti: Riccardo De Filippis, Virgilio Olivari, Marco Felli, Gianni Franco, Eleonora Gentileschi, Romuald, Andrzej Klos, Giovanni Lombardo Radice, Emanuele Marchetti, Luis Molteni, Romina Mondello, Eugen Neagu, Rosario Petix, Michelangelo Stivaletti, Ottaviano Dell’Acqua

Durata: 120 min.

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Il corvo 2

08 mercoledì Mag 2019

Posted by andreaklanza in C, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza, Senza categoria

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brandon lee, David S. Goyer, Iggy Pop, il corvo 2, James O’ Barr, Mia Kirshner, Richard Brooks, The crow - City of Angels, Thuy Trang, Tim Pope, Tomas Jane, Vincent Perez

Il giovane meccanico di motociclette Ashe Corven (Vincent Perez) viene ucciso insieme al suo figlioletto Danny (Eric Acosta) dal capo dei criminali Judah (Richard Brooks), signore del crimine, e dai suoi scagnozzi per aver assistito ad un omicidio. I due vengono uccisi a colpi di pistola e gettati in mare .Un’antica credenza dice che quando qualcuno muore, un corvo porta la sua anima nella terra dei morti. Ma quando la morte è particolarmente triste o dolorosa, il corvo fa resuscitare l’anima per poter regolare i conti. Così accade ad Ashe.

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L’eredità de Il corvo, film cult diretto da Alex Proyas, era un macigno molto pesante, soprattutto perché nel cuore dei fan, molti, della pellicola nessuno poteva prendere il posto del giovane Brandon Lee morto durante le riprese. Eppure lo sfortunato attore aveva, sembra, già firmato il contratto per interpretare altri due The crow, e la fama del film, piccolo fenomeno a basso budget, cresceva giorno dopo giorno.

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Un Corvo 2 quindi doveva essere fatto per forza, le tasche dei produttori lo richiedevano, ma bisognava trovare un modo per girarlo senza inimicarsi nessun appassionato. Come diceva Tommasi Di Lampedusa ne Il Gattopardo “Bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla”, quindi si attuò la politica, semplice e coerente con la filosofia da sequel, di fare un film fotocopia del primo capitolo cercando solo di cambiare la posizione degli addendi; per assurdo questo fece sì che The crow: city of angels fosse proprio quel seguito odiato dai fan tanto sfuggito. Peccato perché la pellicola di Tim Pope, pur nei binari risaputi di un’opera derivativa, non era male e per certi versi riusciva persino ad essere originale, risultando alla fine un film ancora adesso ingiustamente sottostimato. Il corvo 2 era l’unico modo per girare un seguito del film di Proyas, almeno il più intelligente: non si resuscitò Eric Draven, il personaggio di Lee, non si usò una storia d’amore come sfondo, e la città degli angeli ora non era più battuta da una pioggia eterna. Eppure, come detto, il film aveva lo stesso plot: una morte violenta e una vendetta ultraterrena in un contesto di dark decadente. Proprio l’assenza di una storia d’amore fu uno dei motivi maggiori dell’insuccesso della pellicola: si era mancato il target del pubblico adolescenziale pecorone che vedeva l’amore unicamente nella coppia, e che non comprendeva l’importanza del legame tra un padre e un figlio. Non contò nulla che il nuovo personaggio, Ashe, iniziasse un rapporto d’affetto con la tatuatrice Sarah, ex bambina narratrice de Il corvo, si era infranta inesorabilmente l’empatia tra gli spettatori e il climax del film. A lavorare alla sceneggiatura fu chiamato il giovane David S. Goyer (i tre Batman di Nolan e i tre Blade), all’epoca un signor nessuno con nel curriculum poche cose di scarso conto come un seguito del Kickboxer con Van Damme. Il suo lavoro a livello di sceneggiatura, come già detto, fu molto buono: studiò i cliché del primo film per riproporne alternative.

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Per esempio si notò che Los Angeles era piena di cocci di vetro frantumati per le strade che riflettevano in  maniera innaturale le luci artificiali, si ampliò questo concetto, d’accordo con il regista, per creare un film irradiato in maniera innaturale, anche grazie a delle tonalità violentissime e surreali, come in un videoclip anni 80. D’altronde era proprio nell’ambito misicale che Tim Pope si era fatto le ossa, girando per i The Cure lavori sublimi come Charlotte Something, e aspettando il momento buono per fare il salto con un lungometraggio. Le sue idee per Il corvo 2 erano prettamente visive con la straordinaria intuizione del parallelismo tra la morte dell’eroe per affogamento e il guizzo di girare un’opera che ricordasse per colori una specie di mondo sommerso. La sceneggiatura fu scritta almeno due volte prima di diventare quella definitiva: all’inizio il film era concepito come un vero seguito con tanto di riesumazione del primo storico cattivo, Michael Wincott, in un’idea azzardata di corvo buono contro corvo cattivo. Il personaggio di Judas era presente in entrambe le versioni e sembra si trattasse proprio del Giuda Escariota del Vangelo, colui che tradì Gesù Cristo, in una reincarnazione moderna, anche se nello script definitivo di questa intuizione resta poco più di un dialogo (“Va all’inferno” “Ci sono già stato e mi è piaciuto”). Più difficile fu la scelta del personaggio che avrebbe dovuto rivestire il ruolo del nuovo The crow: si vagliarono i nomi di John Bon Jovi, di Keanu Reeves, di Brad Pitt, per poi rivolgersi ad un viso poco noto e quindi cercare di replicare il miracolo di successo dello sconosciuto Brandon Lee.

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L’attore scelto fu Vincent Perez, francese e dal forte carisma, che sembrò perfetto per la parte di Ashe Corven. Il comparto attori d’altronde in The crow 2 è eccellente e pieno di nomi pronti ad esplodere da lì a poco, dalla bellissima Mia Kirshen nel ruolo triste di Sarah, la ragazza dalla ali tatuate come retaggio di ali un tempo reali, al Thomas Jane di The Mist e The punisher nel ruolo di Nemo, tossico alle dipendenze di Judas. Il personaggio che si ricorda di più è senza dubbio quello di Iggy Pop, cantante estremo votato di tanto al cinema (The dead man), con il suo corpo emaciato e la recitazione sopra le righe, ma nel reparto cattivi anche i meno noti Richard Brooks e Thuy Trang (morta nel 2001) regalano performance crudeli ad alto livello. Il difetto de Il corvo 2, che regala almeno due scene strepitose (il finale tra le maschere e la chiusura ciclica grazie al dipinto realizzato da Sarah), è di arrivare per secondo, di essere alla fin fine l’ombra del primo film, non per la mancanza di qualità dell’opera si badi bene, ma perché Il corvo non aveva bisogno di seguiti come dimostreranno gli orribili capitoli 3 e 4 e l’ancor più brutta serie tv. Il trucco di Vincent Perez, attore nettamente più valido del compianto Brandon Lee, si differenzia da quello del primo film per essere molto più vicino a quello di una maschera carnevalesca da Pierrot e soprattutto avere un abito che ricorda quella sacrale dei cenobiti barkeriani. Il corvo 2 è un ottimo seguito, che rispecchia l’idea di sequel cara a James O’ Barr, l’autore del fumetto ispiratore, ovvero una serie di storie con personaggi sempre nuovi resuscitati da un corvo. Sicuramente un film da riscoprire.

Andrea Lanza

Il corvo 2

Titolo originale: The crow – City of Angels

Anno: 1996

Regia: Tim Pope

Sceneggiatura: David S. Goyer

Interpreti: Vincent Perez, Mia Kirshner, Iggy Pop, Richard Brooks, Tomas Jane, Thuy Trang

Durata: 90 min.

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Cruising (recensione due)

25 lunedì Feb 2019

Posted by andreaklanza in C, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza

≈ 4 commenti

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al pacino, Allan Miller, Arnaldo Santana, Barton Heyman, cruising, Don Scardino, Ed O'Neill, gay, Gene Davis, Jay Acovone, joe spinell, Karen Allen, Larry Atlas, Paul Sorvino, Randy Jurgensen, Richard Cox, Sonny Grosso, william friedkin

Ad agosto del 2013 mi stavo scervellando su quale film recensire su Malastrana vhs, e la scelta cadde su Cruising di William Friedkin, uno dei grandi assenti nel mercato dei blu ray e DVD. Solo che non mi sentii all’altezza di scrivere personalmente la critica, ma la affidai all’amico e collega Francesco Ceccamea che scrisse un’analisi interessante e sicuramente diversa da quella che avrei imbastito io. Mi capita poche volte nella mia vita di avere questi abbassamenti di ego, ma esistono film che superano lo status di bello e assumono lo splendore dell’opera d’arte, talmente assoluti da essere materia divina e perciò sacra. Posso dire che Cruising (ma per restare in “campo Al Pacino” anche Carlito’s way e Scarface) è uno dei cento film che mi porterei su un’isolotto deserto insieme a due o tre modelle discinte e impudiche. A distanza di anni riprendo proprio Cruising, senza avere l’ambizione di fare né una critica assoluta sul film né di buttare giù pensieri eloquenti: siamo su questa pagina virtuale solo per fare due chiacchiere tra amici, nulla di più. Ma bando alle ciance, entriamo nel vivo del film.

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E’ il 1980 quando il regista William Friedkin decide di girare questo film con uno dei divi più importanti dell’epoca, Al Pacino, reduce dal successo di Il padrino (1972) e Serpico (1973) tra gli altri. Sembra che l’attore non piacesse al regista: lui aveva visto nel più atletico Richard Gere il candidato ideale per un ruolo da protagonista. Come scrisse  Ceccamea: “Reduce dal successo di “Serpico” (Pacino) vorrebbe tentare il colpaccio con quest’altro agente tormentato ma non ha il coraggio di abbandonare del tutto il suo status di sex symbol etero e così buona parte dei tormenti e le ambiguità che costituirebbero la parte più interessante di tutto il progetto vanno a farsi benedire. Per carità, se vogliamo usare Pacino come capro espiatorio (cosa che non merita) allora bisogna insistere anche sui suoi limiti fisici. Lui si allena, cerca di tirar su dei muscoli, ma in fondo ha un fisico troppo scarso per recitare certi machismi che il ruolo pretenderebbe. Però si tratta di uno degli attori più carismatici che ci siano e può starci che nel giro di qualche settimane inizi a farsi notare in una riserva di caccia fatta di pettorali scolpiti, catene, borchie e linguaggi in codice per abbordaggi”. A quell’epoca Friedkin non se la passava poi benissimo: i suoi lavori precedenti, Il salario della paura (1977) e Pollice da scasso (1978), non erano stati poi grandi successi e l’ultimo (eclatante) trionfo al botteghino si poteva rintracciare nel lontano 1973 con L’esorcista. Oltretutto a Friedkin sembra che questo Cruising non interessasse poi molto: già qualche anno prima gli era stato inutilmente proposto il progetto. La produzione chiama persino il giovane Steven Spielberg per occuparsi della regia, ma alla fine non se ne fa niente, passano gli anni e Friedkin si trova a leggere degli articoli scritti da Anthony Campana su una serie di delitti ancora irrisolti nel sottoborgo sadomaso gay, scopre con interesse la storia di questo poliziotto, Randy Jurgenson, che si era introdotto sotto copertura in quell’ambiente e si ricorda di una comparsa che, sul set de L’esorcista, gli aveva parlato di questi crimini.

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Ecco allora che riprende in mano il romanzo Cruising di Gerald Walker e si appassiona al progetto. Diciamolo a scanso di equivoci: Cruising è un capolavoro, non senza difetti è vero, a volte eccessivamente urlato o semplicistico, criptico in alcune sequenze, ma appassionante, girato in uno stato di grazia mai toccato prima dal regista e così scorretto e crudele che non ti aspetti da un prodotto mainstream. A Friedkin non serve il sangue per colpire il pubblico, non farà lo stesso ragionamento di, per esempio, un Lucio Fulci che, trovandosi per le mani materia scottante e sessuale, ne Lo squartatore di New York, spingerà il piede sull’acceleratore dello splatter e del nudo. C’è in Cruising la violenza, l’emoglobina che schizza contro lo schermo del peep show a gettoni, i cazzi che sublimemente accompagnano la fantasia del killer prima dell’omicidio di apertura, ma non solo, perché Cruising è soprattutto un’opera hardcore d’atmosfera, con i parchi pubblici di New York che si scuriscono di notte come nelle fiabe dei Grimm e la paura, palpabile, che accompagna il desiderio umano di piacere. Si potrebbe persino azzardare che il killer di questa pellicola sia una raffigurazione dell’AIDS e possiamo avvalerci, in questa lettura, pure di un finale ambiguo e non spiegato. Chi è che uccide il vicino di casa di Al Pacino? Lo stesso protagonista che, scoprendo il suo lato oscuro, prende i panni dello stesso “lupo cattivo” che ha arrestato o un altro killer che prosegue l’opera di punizione verso i gay? Sempre che, naturalmente, l’assassino sia quello che giace in un letto d’ospedale… Ecco allora che l’AIDS assume il ruolo della morte, un po’ come una sorta di versione dark e realistica di Final destination: è il compagno che ti porti a casa, l’occasionale amante che ti infetta e quindi ti condanna a morte, una creatura da uno e mille volti che potrebbe essere chiunque. D’altronde Friedkin è abile a non farci vedere il killer nella sua interezza e, man mano, che la vicenda prosegue ci si confonde sempre di più.

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Cruising è anche un horror, con una scritta che, un decennio dopo, avrebbe figurato bene in Essi vivono: “Noi siamo ovunque”. In questa lettura, quasi alla Burroughs, Al Pacino si trova non solo ad infiltrarsi in un mondo a lui, etero e con compagna, assolutamente sconosciuto ma ad esserne pure coinvolto mentalmente. E’ la stessa regola che, da che mondo e mondo, muove i polizieschi più classici, del quale Cruising mantiene comunque lo scheletro narrativo: quando entri in una realtà non tua, che sia il mondo dei mafiosi o una banda di motociclisti, rischi sempre di metterci le radici e scoprire qualcosa di te che non sai. Ecco che Al Pacino si trova a cambiare la propria pelle, in una recitazione tra l’altro magistrale dell’attore, e a scoparsi la compagna con una rabbia inusuale, a soffrire nel momento che lei glielo succhia e a ripetere “Mi sto perdendo”, neanche fosse nel romanzo di Richard Matheson, “Io sono Hellen Driscoll”. Non solo: comincia a fare scenate di gelosia al ragazzo del vicino di casa (James Remar) e a ritrovare la sua giusta dimensione, la stessa che lo terrorizza, in una scena di ballo scatenato in un pub gay. Quando, poi, la polizia irrompe per salvargli la vita da un probabile assassino, lo trova nudo e legato, lì lì sul compiere il salto sessuale estremo.

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La New York di Cruising è sporca e lurida, fotografata soprattutto di notte, e attraversata da figure che, anche nelle vesti di eroi, possiedono la stessa ambiguità dei cattivi.  Ottimo, in tal senso, l’esempio dei due poliziotti (uno di loro il grandissimo Joe Spinell di Maniac) che, all’inizio della pellicola, discutono di quanto il mondo faccia schifo, di come la città si sia riempita di derelitti, e poi si fanno “baciare il bastone” da un paio di travestiti pescati a battere. Neanche poi il capo della polizia, interpretato con nerbo da Paul Sorvino, risponde ai canoni classici del buono, costringendo Al Pacino a continuare la sua discesa nell’inferno e a non fermare un pestaggio ai danni di un innocente che si troverà costretto persino a menarselo davanti ad un gruppo di agenti omofobi. Non c’è spazio per le donne in questa pellicola e l’unico ruolo femminile è quello di Karen Allen che però non esita ad abbandonare il suo compagno nel momento che ha più bisogno di lei. Spetta comunque alla donna il momento più bello e toccante quando, sulle note di una dolcissima partitura di Jack Nitzsche, la si vede indossare gli stessi abiti sadomaso del fidanzato, annullando quindi nella sua carne da femmina le paure del maschio e assumendo un ruolo assoluto di compagna, amante e fantasia erotica. Non piacque all’epoca Cruising e il regista fu costretto a tagliarlo di quasi mezz’ora dei momenti palesemente pornografici, con sequenze di vero sesso non simulato davanti agli occhi di un Al Pacino spettatore. La comunità omosessuale fece fuoco e fiamme per boicottare il film trovandolo omofobo e non capendo che si trattava solo del ritratto di un sottobosco, vero e documentato, e non di tutta la comunità gay. Come a dire che a tutti gli eterosessuali piace leccare la fica. Falsità e luoghi comuni.

Andrea Lanza

Cruising

Anno: 1980

Regia: William Friedkin

Interpreti: Al Pacino, Paul Sorvino, Karen Allen, Richard Cox, Don Scardino, Joe Spinell, Jay Acovone, Randy Jurgensen, Barton Heyman, Gene Davis, Arnaldo Santana, Larry Atlas, Allan Miller, Sonny Grosso, Ed O’Neill

Durata: 104 min.

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Jack, Jekyll e Frankenstein: c’era una volta la paura in tv

19 martedì Feb 2019

Posted by andreaklanza in drammatici, Recensioni di Andrea Lanza, serie tv, thriller

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Alan Moore, Albert e Allen Hughes, armand assante, canale 5, davi wickes, Emma Beament, fiction, frankenstein, Frederick Abberline, jack the ripper, Jane Seymour, jekyll e hyde, la vera storia di jack lo squartatore, latte dal seno, Michael Caine, patrick bergin, richard chamberlain, susan george, Whitechapel

David Wickes è uno dei tanti nomi che probabilmente non vi diranno niente, ma, a suo modo, è stato un pioniere del cinema, stavolta però trasposto in tv.

L’11 e il 18 ottobre 1988 fu trasmesso sulla rete inglese ITV il suo Jack the Ripper (da noi La vera storia di Jack lo squartatore), un tv movie di 182 minuti, realizzato a cento anni precisi dagli omicidi di Whitechapel. In Italia sbarcò invece un anno dopo, in onda in prima serata, su Canale 5, il 22 e 23 ottobre 1989, non senza un certo clamore per l’epoca.

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Jack the Ripper versione 1988 nasceva dallo studio di documenti ufficiali dell’epoca quindi sulla carta era un lavoro d’indagine che poco spazio dava alla fantasia. Alla fine delle tre ore abbondanti una scritta infatti recitava:

“Nello strano caso di Jack lo Squartatore, non c’era nessun processo e nessuna confessione firmata.

Nel 1888, non erano in uso né le impronte digitali né gli esami del sangue, né tantomeno erano disponibili testimonianze forensi o testimoni oculari. Pertanto, la prova certa sull’identità dello Squartatore non è disponibile.

Siamo giunti alle nostre conclusioni dopo uno studio attento e una deduzione scrupolosa. Altri ricercatori, criminologi e scrittori potrebbero avere un’opinione diversa.

Crediamo tuttavia che le nostre conclusioni siano vere”.

2019-02-18 15_15_33-VHS - LA VERA STORIA DI JACK LO SQUARTATORE di David Wickes [RCA] _ eBay

Già queste affermazioni tradiscono però le premesse di un’opera che voleva dire l’ultima parola sugli omicidi di Whitechapel svelando per la prima volta l’identità del killer,  uno scoop eccezionale, senza dubbio, se fosse stato vero.

Non stiamo qui a svelare il colpo di scena, a livello spettacolare comunque ben assestato, ma le licenze che il regista prende sono molte, a cominciare dalla figura dell’ispettore che seguì il caso di Jack lo squartatore, Frederick Abberline, qui ritratto fantasiosamente come un alcolizzato. E’ però curioso come, nel successivo From Hell di Albert e Allen Hughes, tratto da Alan Moore, il poliziotto fosse descritto, con uguale licenza poetica, come un oppiomane, cosa che non fu mai. L’Ispettore Capo Walter Dew, un detective assegnato alla Divisione H di Whitechapel nel 1888, che conosceva molto bene Abberline, lo descrive invece come un uomo abbastanza pacioso, simile ad un direttore di banca. Certo è che non era celibe, come quasi tutte le sue reincarnazioni cinematografiche vogliono, ma sposato con la trentaduenne Emma Beament in seconde nozze dopo la morte prematura, per tubercolosi, della prima giovane moglie. Presente anche in La vera storia di Jack lo squartatore Emma Beament, interpretata dalla bellissima Jane Seymour, è invece qui una vecchia amante di Abberline che, ad un certo punto, lo tradirà con un attore, nell’incarnazione di un gigionesco Armand Assante.

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Di altri film sull’omicida ce ne sono stati e altri ce ne saranno dopo questo, ma la maggior parte, come nel caso dell’eccellente Omicidio su commissione di Bob Clark o, del già citato, From Hell, punteranno sulla teoria più accreditata, quella di un complotto massonico che coinvolgeva la famiglia reale. La vera storia invece sceglie una strada meno tortuosa, ma non per questo meno spettacolare, con un finale davvero pieno zeppo di colpevoli probabili e un assassino tra i più insospettabili.

In passato Wickes aveva curato la regia, nel 1973, di Jack the Ripper, una miniserie documentaristica di 6 episodi (due suoi) che cercava di scoprire, attraverso interviste e documenti originali, la vera identità dello squartatore.

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La vera storia di Jack lo squartatore (scritto dal regista con Derek Marlowe) è uno dei migliori prodotti sul tema: un’opera piena di ritmo anche nei tempi televisivi, impreziosita da ottime interpretazioni e con un gusto certosino nel ricostruire sia i delitti del killer che la Londra  ottocentesca. Non vi aspettiate però sangue a profusione: la sua natura da fiction tv non gli permette di calcare la mano laddove, per esempio, i precedenti lavori di Jesus Franco (Erotico profondo, 1973, con Klaus Kinski) e Robert S. Baker con Monty Berman (Jack lo squartatore, 1959) erano più scatenati nella violenza grafica pur trattando la stessa storia. E’ indubbio però che raramente si era visto prima in  televisione un prodotto di genere thriller così ben riuscito e capace di rivaleggiare con film girati e scritti per il cinema.

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A fare la parte del leone è senza dubbio Michael Caine che stringerà col regista Wickes un sodalizio fortunato tornando anche per il successivo Jekyll e Hyde del 1990, girato sempre per il piccolo schermo. Per La vera storia di Jack lo squartatore l’attore prese 1 milione di dollari su 11 di budget e rimpiazzò il protagonista scelto originariamente, il Barry Foster di Frenzy. Questa scelta non fu dovuta all’incapacità di quest’ultimo, ma semplicemente perché erano entrati nel progetto dei produttori americani e l’opera per essere venduta meglio chiedeva una star nel ruolo principale.

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Armand Assante, un ottimo interprete mai diventato davvero famoso, interpreta con convinzione il ruolo dell’egocentrico Richard Mansfield, attore che porta in scena un orrorifico Dottor Jeckyll e Mister Hyde con tanto di mutazioni raccapriccianti (la faccia che si gonfia, la risata bambinesca) davanti ad una platea terrorizzata. La cosa curiosa è che il make up del mostro verrà ripreso in Jekyll e Hyde, sempre, come già detto, di Wickes con Caine. Assante carica molto la sua recitazione, ma riesce a non risultare mai eccessivamente fastidioso pure nell’eccesso.

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Jane Seymour non ebbe una carriera così sfolgorante e la si ricorda principalmente per essere stata una splendida Bond girl in Vivi e lascia morire con Roger Moore, anche se vinse il Golden Globe per le fiction La valle dell’Eden e La signora del west. Nel 1983 era lì lì per interpretare la protagonista del fortunato Uccelli di rovo ma, durante una scena d’amore, perse del latte materno (aveva partorito da poco) sulla star Richard Chamberlain che chiese il licenziamento repentino dell’attrice minacciando di andarsene. Noi di Malastrana non saremmo mai stati di certo così schizzinosi anche perché siamo della vecchia scuola: a noi di una donna non fa schifo nulla, poi, cazzarola, la Seymour.

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Padre Ralph era intollerante al latte e alle donne

Da citare anche l’ottima interpretazione del divo tv Lewis Collins, l’aiutante di Abberlin, e la presenza nel cast di una ormai sfiorita Susan George (Straw Dogs, Die Screaming, Marianne, Fright e Dirty Mary, Crazy Larry, tra i suoi cult).

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Leggenda racconta che in pochissimi della troupe sapessero l’identità dello squartatore e per questo Wickes chiese ai suoi attori di recitare come se tutti fossero colpevoli. Il regista arrivò persino a girare 4 finali che mostravano 4 assassini diversi.

All’epoca uscirono due versioni del film: una lunga per la televisione e una più breve di neanche due ore, un po’ come accadde per Le notti di Salem di Tobe Hooper. Inutile dire che il montaggio cinematografico è lacunoso ed eccessivamente col fiato corto.

Il successivo Jekyll & Hyde è di certo meno ambizioso come progetto, ma non per questo meno interessante. La durata stavolta è di appena 96 minuti, ma alcuni siti, senza nessuna fonte, lo danno diviso, come Jack lo squartatore, in due parti di un’ora e mezza. Certo è che l’unica versione conosciuta è questa più breve e non ci risulta che da nessuna parte sia mai stato trasmesso come miniserie. Oltretutto in Italia arrivò per la prima volta in tv nel ciclo I bellissimi di Rete 4 senza il clamore della precedente opera di Wickes.

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Certo è che girare l’ennesimo adattamento de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Stevenson non  dev’essere sembrata poi un’idea così brillante, ma il film non è senza sorprese narrative. La migliore trasposizione dell’opera la si deve a Terence Fisher che con Il mostro di Londra (The Two Faces of Dr. Jekyll, 1960) presenta un ribaltamento dei classici ruoli del romanzo: il protagonista è un vecchio misantropo e la sua controparte malvagia invece giovane e affascinante. Qui invece Wickes resta ancorato al concetto della malvagità intesa come mostruosità ma, attenzione, calca la mano come nessuno prima su questo: il suo Hyde, più dello Spencer Tracy bestiale del capolavoro di Victor Fleming (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1941), è un essere raccapricciante, orribile a vedersi e più simile ad una bestia rabbiosa che ad un uomo dotato di intelligenza. Le intenzioni di Michael Caine/Jekyll vengono tradite dai fatti: “Volevo creare il bello dal brutto, l’intelligente dallo stupido“. Non c’è che dire: esperimento fallito.

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Wickes, qui unico sceneggiatore, non punta, come già nella precedente opera, negli effetti grandguignoleschi, ma osa alcune scene, sul versante sessuale, non così caste come tradizione televisiva imporrebbe, a cominciare dallo stupro di Sara Crawford, la fidanzata di Jekyll, da parte di Hyde. Certo non vediamo l’atto mentre è attuato ma quando la ragazza si mostra, seminuda e con la schiena lacerata di tagli, possiamo presagire che i due non hanno giocato tutta la notte a settebello.

Il make up di Caine in versione mostruosa è efficace e, come detto in precedenza, ricorda il trucco di Assante in La vera storia di Jack lo squartatore: un Hyde simile ad un grasso bambino malvagio.

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La vicenda è raccontata in flashback e assesta uno dei suoi colpi più duri proprio nell’epilogo, crudele e inaspettato, pieno di un delizioso humor nero. Di più non possiamo dire per non rovinare la sorpresa.

Jekyll & Hyde è un film ottimo sul piano narrativo, perfetto su quello scenografico, ma paga stavolta un’interpretazione non così brillante di Michael Caine quando non gigioneggia col mascherone. Il suo Jekyll è insipido, la sua recitazione monocorde e sottotono, in più con i suoi 57 anni nel 1990 risulta anche eccessivamente fuori parte in un ruolo che lo vuole pure come affascinante seduttore.

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Ad affiancarlo l’ex Charlie’s Angels Cheryl Ladd, ancora splendida alla soglia dei 40 anni, e purtroppo però anche lei un esempio di casting bizzarro che la costringe ad interpretare un personaggio di almeno 10 anni in meno, non risultando però mai credibile.

Il migliore del lotto horror firmato Wickes è però anche il più sconosciuto, quello che sulla carta era un fallimento e che invece si rivela essere una tra le opere più innovative e brillanti tratte da Mary Shelley, Frankenstein.

Girato nel 1992 ma da noi distribuito direttamente in vhs per la VIVIVIDEO/RCS a ridosso del Frankenstein di Kenneth Branagh, nel 1994, è un film molto interessante e, come ci ha abituati il regista, dall’impianto altamente spettacolare.

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La versione visionata in videocassetta oltretutto è molto buona, gratificata anche da un ottimo doppiaggio che non presenta la solita negligenza pedestre degli adattamenti diretti in home video.

Quello che differenzia questo Frankenstein da ogni altro mai girato è l’umanizzazione del mostro, ritratto non come una bestia incattivita ma come un candido voltairiano, un puro che si trova a scontrarsi con un mondo violento e feroce. Tanto pathos nella caratterizzazione della creatura si deve alla delicata (e inaspettata) recitazione di Randy Quaid, conosciuto al grande pubblico soprattutto per ruoli comici. L’attore, premio Oscar comunque per il bellissimo L’ultima corvé (The Last Detail) di Hal Ashby, rende perfettamente il dramma di un uomo che sembra affetto da un ritardo mentale, ingiustamente perseguitato solo per il suo aspetto non per le sue azioni.

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Anche Patrick Bergin, fresco fresco dagli eccellenti Le montagne della luna e A letto col nemico, è ottimo nei panni di Viktor Frankenstein con una recitazione ricca di sfumature. Il suo personaggio, a differenza dei nichilisti mad doctor alla Peter Cushing, viene rappresentato soprattutto come un uomo di scienza mosso da pietas. Per questo il suo mostro non è formato con pezzi di cadavere, ma nasce da un liquido sperimentale, simile a quello amniotico.

Facciamo la conoscenza del dottore in un lazzaretto di tubercolotici, dove l’uomo presta servizio a discapito della sua di salute. Questa caratterizzazione del personaggio così privo di egocentrismo e hubris è agli antipodi rispetto alla maggior parte dei Frankenstein trasposti su pellicola.

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Certo siamo in un horror e, tra i vari esperimenti condotti dall’uomo, possiamo ammirare, in effetti speciali non così speciali, un ibrido tra un gatto e un serpente e tra un coniglio e un porcospino. Esperimenti che verranno presto dimenticati da una sceneggiatura che in altri frangenti è meno superficiale.

I due, il mostro e la creatura, sono legati da una simbiosi mentale e fisica: se uno si ferisce anche l’altro sente dolore.

Naturalmente la trama è la stessa vista mille volte in altri film tratti da Mary Shelley, dai classici Universal e Hammer fino al kolossal di Coppola e Branagh, ma questo Frankenstein tv è comunque una delle trasposizioni migliori, non fedele al modello letterario certo, ma comunque dotato di una propria originalità.

Ottima la fotografia di Jack Conroy (Excalibur) che, soprattutto nella scena della creazione della sposa del mostro, satura i colori come in un fumetto alla Creepshow con i blu sparati sopra le altre tonalità.

A suo modo questo è un film maledetto: Patrick Bergin si ruppe un braccio mentre recitava, John Mills che interpretava un cieco perse quasi del tutto la vista e Michael Gothard morì a fine anno di quel 1992.

Doveva essere oltretutto il terzo film diretto da Wickes con Michael Caine, ma l’attore rifiutò la parte del mostro dopo aver letto il copione.

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Patrick Bergin, l’uomo dei tarocchi home video

Stavolta la produzione doveva essere più povera e le riprese non furono effettuate nella solita Inghilterra, ma nella più economica Polonia. Il budget non altissimo lo si denota soprattutto in effetti speciali non riuscitissimi e nel make up minimale del mostro.

Frankenstein versione Wickes però merita una riscoperta anche perché, soprattutto da noi, è stato venduto come un tarocco di un  film di successo. Dev’essere la maledizione di Patrick Bergin che, sempre nel 1992, recitò nel Robin Hood non baciato dalla fortuna, quello senza Kevin Costner e da noi venduto in videoteca come imitazione a buon mercato di quello. Inutile dire che entrambi erano ottimi Robin Hood.

Frankenstein, La vera storia di Jack lo squartatore e Jekyll e Hyde mostrano una tv anni 80/90 già avanti col tempo, meno ancorata alle logiche strette e censorie dei prodotti televisivi dell’epoca e lanciata verso un possibile cinema sul piccolo schermo.

Mai baciati da un’uscita in dvd, ormai spariti da anni dai palinsesti, le tre opere di Wickes meritano una nuova vita in questo nuovo millennio soprattutto perché non sono invecchiati di un solo giorno.

Andrea Lanza

La mano

09 sabato Feb 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, drammatici, H, Recensioni di Andrea Lanza

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Nel 1981 Oliver Stone non era ancora nessuno ad Hollywood: alle spalle aveva solo la sceneggiatura per Fuga di mezzanotte di Alan Parker, che gli valse comunque l’Oscar, e  un misconosciuto horror dal titolo Seizure, prodotto dai canadesi. Però Oliver Stone, da lì a qualche anno, sarebbe diventato un nome importante per Hollywood macinando successi e cult, sia come sceneggiatore che come regista, con titoli come il Conan di Milius, lo Scarface di De Palma e poi i suoi Salvador, Platoon e Wall Stret.

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Nel 1981 però era un creativo, alla soglia dei quaranta, con, soprattutto, un sogno irrisolto nel cassetto: portare al cinema il libro Nato il quattro luglio di Ron Kovic, una biografia su un soldato che aveva perso l’uso delle gambe in Vietnam, un progetto che sembra nessuno volesse realizzare. il regista racconta la sua frustrazione al New York Times del 15 Maggio di quell’anno:

“Ho scritto ben otto bozze. Al Pacino stava per recitare, ma alla fine si è tirato indietro. E’ una maledizione: il cofinanziatore tedesco, dopo che sembrava tutto lì lì per partire, ha dichiarato fallimento e abbiamo dovuto cancellare il film. Nessuno vuole aiutarmi: lo scropt è stato rifiutato due volte da ogni studio in città, ma mi piacerebbe ancora farlo. Non penso che la storia del Vietnam sia stata ancora raccontata con lucidità. Il Vietnam ha incasinato molti ragazzi. Io stesso mi sento ancora un mostro. Quando sono tornato alla NYU, che all’epoca era un focolaio di radicalismo, gli altri studenti mi consideravano un assassino. Non è mai stato oggetto di discussione, nessuno ne  ha mai parlato, ma penso che tutti i veterani si sentissero messi da parte. Il tasso di suicidio tra di loro è enormemente alto“.

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Nato il quattro Luglio resterà un sogno fino al 1989 cambiando attore protagonista, non più Al Pacino ma la stella emergente Tom Cruise, e diventando uno dei più grandi successi della carriera di Stone.

Ma torniamo ai primi anni 80 dove, sempre leggendo il New York Times del 15 Maggio, scopriamo che La mano fu un successo, perlomeno critico.

“Il film horror The Hand che ha debuttato a New York e Los Angeles, e ha avuto molte recensioni entusiastiche, sta arrivando in tutte le sale degli States” scrive la giornalista/scrittrice/modella Chris Chase, la stessa che interpretò il cult di Kubrick Il bacio dell’assassino sotto lo pseudonimo di Irene Kane. Il suo è un articolo particolare che si focalizza, più che sulla recensione del film, sul ritratto di Oliver Stone come artista emergente.


MV5BZjg5MGFhZjgtYTdkNy00OGZjLWI3NmMtMGExYWU3MmZiMDcxXkEyXkFqcGdeQXVyMjUyNDk2ODc@._V1_.jpgLa mano da noi invece non arrivò mai al cinema ma sbarcò prima su vhs Warner e poi in tv. Stando al sito Davinotti la prima ci fu lunedì 13 aprile 1987, su Rete 4, nel ciclo “Ultimo spettacolo. Inediti illustri“. Esiste pure un dvd, sempre Warner, ma ormai introvabile.

Stone giocava in casa scegliendo come seconda opera, un altro horror dopo il suo debutto con Seizure del 1974, un film bizzarro, a tratti incomprensibile e dal culto di solo pochi ammiratori. Stavolta però la Orion Pictures e la Warner Bros. garantivano una maggiore visibilità presso il grande pubblico.

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Il prezioso sito Davinotti

Se le recensioni all’epoca furono buone, non si può dire lo stesso di quelle recenti che lo definiscono il più delle volte “banale” o “una delle peggiori regie di Oliver Stone”. Che The Hand non sia un capolavoro è sicuro, ma è un buon B movie girato dignitosamente, dal buon ritmo e da una buona recitazione generale.

Lo spunto iniziale per la pellicola è il romanzo, quasi contemporaneo, di Marc Brandel, The lizard’s tail, titolo che deriva da una scena presente anche nel film: la coda di una lucertola staccata reagisce come viva quando la figlia del protagonista sta per toccarla.

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Stone arriva già svantaggiato in un genere, quello delle mani assassine, che di nuovo ha ben poco da dire ma riesce, grazie ad una sceneggiatura ben strutturata, a ribaltare il prevedibile in una sequela di colpi di scena ben assestati.  Sul tema c’erano già stato Il mistero delle 5 dita (The Beast with Five Fingers) del 1946 di Robert Florey, un episodio de Le cinque chiavi del terrore, 1965, di Freddie Francis e, tornando agli albori del cinema, il classico Le mani dell’altro (Orlac’s Hände), 1924, di Robert Wiene (più i suoi due remake). Quello che stupisce ne La mano  è la sua struttura inaspettatamente ambigua: la sceneggiatura è ben attenta ad insinuare il dubbio nello spettatore che alla fine, forse, non esiste nessuna mano assassina se non nella testa del protagonista.

The hand è uno dei rari horror che ha come personaggio principale un fumettista. Oltre a questo possiamo ricordare L”Ork di Carl Buechler, il delirante Occhi dentro di Bruno Mattei e lo sfortunato Notte profonda di Fabio Salerno. I disegni visti nel film di Stone sono opera di Barry Windsor-Smith, vero illustratore per Conan il barbaro della Marvel.

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Una tra le cose migliori nel film è la recitazione di Michael Caine: schizofrenica, con sbalzi di umore repentino. Il suo Jonathan Lansdale è un anomalo antieroe, un protagonista antipatico, egoista e egocentrico, qualcuno con il quale empatizzare è davvero difficile.

A suo modo The hand è un apripista per gli horror che verranno: basti vedere il combattimento finale tra Caine e la sua mano quanto anticipi scene analoghe di La casa 2. Non solo: dal film di Stone, più che dai citati modelli precedenti o dalle influenze letterarie, prenderà a piene mani il successivo, e ottimo, No Control – Fuori controllo di Eric Red.

Gli effetti speciali sono a cura di Carlo Rambaldi che definì il suo lavoro più “difficile” di quello analogo per King Kong, soprattutto perché stavolta si trattava di rendere credibile il movimento della mano di un uomo e non quella di uno scimmione gigante. Il reparto make up invece è coordinato da un altro nome illustre nel genere, Stan Winston, da lì a poco artefice dei bellissimi effetti di Terminator di Cameron. Si contano più di trenta mani cattive in scena e lo stesso regista definì l’esperienza “elettrizzante”.

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Per quanto riguarda Michael Caine fu un film alimentare: dopo l’esperienza positiva nel genere con L’isola e Vestito per uccidere, cercava solo un altro ruolo di paura per continuare la catena del successo. The hand gli servì poi soprattutto per restaurare un garage che aveva appena comprato quindi per lui alla fine un film sarebbe valso un altro. I detrattori considerano questa una delle peggiori interpretazioni dell’attore al pari del successivo Lo squalo 4, altro film girato per evidenti ragioni finanziarie. A torto perché, se nel quarto capitolo del pescione assassino, l’interprete è palesemente svogliato, qui invece è persino gigionesco, sempre ad un passo dall’overacting senza fortunatamente esserlo mai.

Durante le riprese Caine e Stone (che nel film interpreta un barbone molesto) instaurarono una bellissima amicizia, ma, casualità del destino, i due non lavorarono mai più insieme.

La mano  non calca mai nel sangue o nelle nudità, anche quando la trama lo permette, e cerca una messa in scena più elegante della media e sottilmente psicologica. Il punto forte però della pellicola è il finale shock che, per efficacia, può essere accostato alla chiusura spaventosa di Carrie di Brian De Palma.

In più questa è una pellicola che straordinariamente mette in scena ritratti di donne forti, non le solite vittime, ma persone plausibili anche nel reale, a partire dalla Anne Lansdale, interpreta da Andrea Marcovicci, la moglie che lascia il protagonista per inseguire un desiderio personale di libertà ed emancipazione, alla Stella Roche di Annie McEnroe, una ragazza dagli appetiti sessuali non diversi da quelli degli uomini, sincera senza false inibizioni da vergine sacrificale o da mignotta stereotipata.

Alla fine questa di Oliver Stone è una delle sue pellicole meno note, ingiustamente, e che va vista per quello che è: un discreto horror di serie B che sa regalare brividi genuini. Cercare un capolavoro equivale a rimanere delusi.

Da riscoprire.

Andrea Lanza

La mano

Titolo originale: The hand

Anno: 1981

Regia: Oliver Stone

Interpreti: Michael Caine, Andrea Marcovicci, Annie McEnroe, Bruce McGill, Viveca Lindfors, Rosemary Murphy

Durata: 104 min.

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Hold the dark

19 sabato Gen 2019

Posted by viga1976 in drammatici, Le recensioni di Davide Viganò, Senza categoria, thriller

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Alexander Skarsgård, Anabel Kutay, Conor Boru, hold the dark, James Badge Dale, Jeffrey Wright, Jeremy Saulnier, Julian Black Antelope, Michael Tayles, Riley Keough, Tantoo Cardinal

Dove si annida il Male? In che zone oscure della nostra mente o profonde della nostra anima? Ha a che fare con l’individuo o egli è solo plasmato dall’ambiente in cui vive? Queste sono alcune domande che potremmo farci mentre guardiamo questo film decisamente riuscito, disponibile su Netflix.

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Hold the dark segue le tematiche care al regista. Se in Blue Ruin si poneva una riflessione sul desiderio di vendetta e in Green Room c’è di scena la violenza dei gruppi di estrema destra, qui abbiamo a che fare con lo stretto legame tra la bestialità degli animali e l’istinto ad uccidere degli esseri umani.

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Russel è un naturalista in pensione che ha ottenuto un vasto successo economico grazie a un libro in cui parla dei libri.  In quelle pagine affronta anche il tema della caccia a questi magnifici animali. Questo spinge una giovane donna a contattarlo in quanto è convinta che un branco di lupi abbia rapito e presumibilmente sbranato il suo piccolo bimbo. Le cose però non sono come sembrano e il ritorno a casa del marito della donna ( un reduce della guerra psicopatico) non farà che aumentare il clima di violenza, sofferenze e pericolo che circonda Russel.

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Il film è tutto qui.  Vi assicuro non è affatto poco. Perché l’opera spiazza lo spettatore convinto di veder un prodotto che punta tutto sul branco di lupi cattivi e feroci e invece loro sono forse la minaccia meno pericolosa dell’intero film. Chi fa davvero paura sono gli esseri umani. Uomini e donne cresciuti in un ambiente ostile, freddo, duro.  Un posto dove c’è sempre la neve, la tormenta, pochissimo sole. Tutto quel buio e freddo non possono che spinger le persone ad alienarsi, a impazzire.  Sì, il Male è legato ai luoghi, all’ambiente sociale e questo influenza l’essere umano. Nel piccolo paese la comunità cerca di esorcizzare questa follia latente e pronta ad esplodere che alberga in molti di loro dando la colpa ai lupi.  La bestia,  l’animale, quello che non è umano come noi. Un confortevole alibi per non affrontare il dolore, la sofferenza, il senso profondo di solitudine, abbandono. Ognuno ha storie di sangue e crudeli alle spalle e nulla serve dar a costoro una parvenza di civiltà. La polizia è nemica come lo sono le altre bestie. Uccidere sbirri o lupi è la stessa cosa.

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Un delirio lucidissimo  di follia mascherata da rapporti coniugali o di amicizia. Il reduce è una macchina per uccidere che talora mostra una sua morale (in guerra uccide un altro soldato americano sorpreso mentre stupra una donna irachena e più volte risparmia la vita a Russel perché ha saputo che costui voleva trovare il lupo responsabile della scomparsa del figliolo) ma spesso è come se fosse un automa programmato per ammazzare, la giovane moglie una donna distrutta dalla solitudine, dall’isolamento. In questo mondo totalmente dipendente dalla violenza e da leggi tribali non scritte, solo Russel e un funzionario di polizia sembrano aver un minimo di umanità. Questi due sono persone che provano sentimenti, empatia, sono spiazzati e spaventati per tutta la violenza gratuita a cui assistono. Rappresentano il tentativo vano della civiltà di resistere,

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Il film tuttavia non è un’opera monocorde, per fortuna non si basa su un pessimismo d’accatto e un nichilismo per quarantenni incapaci di vivere. No. A modo suo riesce anche a regalare una piccola speranza sul finale.

Detto questo quello che impressiona è la regia di Saulnier: mdp dai movimenti lenti e fluidi, grande senso dell’inquadratura e la descrizione minuziosa della violenza. Sopratutto è abile a costruire tutta una serie di eventi e dettagli che porteranno poi a un’esplosione di crudeltà molto potente.

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Il vero pericolo non sono tanto le bestie e la natura ma gli esseri umani.  Tranne quelli che, pur avendo toccato con mano l’inferno, cercano di non perdersi del tutto e cercano un tentativo di avvicinamento delle persone che per vari motivi hanno lasciato a distanza dalla loro vita e dal loro cuore.

Una sorta di risveglio dopo un lunghissimo incubo. Perché questo sembra essere codesta pellicola, un incubo. Il film procede con un ritmo lento, rarefatto, quasi immobile, come se fossimo persi in un’altra dimensione in cui il tempo si dilata, espande e in cui le azioni subiscono un’improvvisa deriva verso la violenza più assurda, pleonastica, folle . Per cui non lasciatevi ingannare dal ritmo non proprio sostenuto e godetevi questo viaggio infernale in uno dei posti più ostili del mondo: L’Alaska.

Davide Viganò

Hold the Dark

Anno: 2018

Regia: Jeremy Saulnier

Interpreti: Riley Keough, Jeffrey Wright, Alexander Skarsgård, James Badge Dale, Julian Black Antelope, Michael Tayles, Tantoo Cardinal, Conor Boru, Anabel Kutay, Tantoo Cardinal

Durata: 125 min.

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Assassination Nation

12 sabato Gen 2019

Posted by andreaklanza in A, action, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza

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Assassination Nation, Bill Skarsgård, Danny Ramirez, David S. Goyer, Hari Nef, malastrana vhs, Odessa Young, Sam Levinson, Suki Waterhouse

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Mi chiamo Lily Colson. Ho 18 anni. E non so se io e le mie amiche supereremo la nottata.

Con queste parole si apre Assassination nation, seconda prova registica di Sam Levinson che i ragazzacci della serie B conoscono più che altro per essere stato uno dei carcerati dell’intenso Stoic di Uwe Boll. Già da queste poche frasi, si percepisce la direzione che il film andrà a prendere: una nuova Notte del giudizio in versione teen movie. Si e no a dire il vero perché la parte alla DeMonaco c’è ma è relegata al secondo atto, quello che porta una moderna caccia alle streghe in una città, Salem, nel 22esimo secolo, pronta a impiccare, immolare come nel 1692 donne innocenti senza ancora nessun vero processo.

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Assassination nation è potentissimo, stiloso, un figlio bastardo nato dai bagordi dello Spring breaker di Harmony Korine con una narrazione che un tempo si sarebbe chiamata da MTV e che ora appare schizzata, schizofrenica, da MDMA tenuta sotto controllo con il Lexotan.

Nel giroscopio di luci intermittenti, colori violenti e immagini veloci che bombardano lo spettatore, il film cerca di essere dalla parte dei diversi, degli emarginati, degli outsider, gli stessi che armati di fucili, nella finzione, facevano esplodere tritolo e rivoluzione alla Westerburg High, e, nella realtà, alle Columbine, dritto dritto nel cuore, american beauty, di villette e incesti tra i denti, dei meravigliosi Stati Uniti d’America.

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Ci riesce in parte fallendo solo per la mole esagerata di input che il suo autore, regista e sceneggiatore, vomita in  faccia, come dopo una colossale sbronza, al suo pubblico, ma è indubbio che il suo quartetto di eroine, bellissime e sfigate, vestite come in un sogno erotico da nerd con katane, due pistole alle John Woo e potenza deflagrante da Hiroshima uterino, sono non solo personaggi, ma icone di genere, quello dei ragazzi problematici che, da John Hughes a Gregg Araki, ha raramente dato un posto in prima fila alle donne. Almeno non in maniera così stracazzutissima e prorompente.

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Assassination nation è un film che sa affrontare il difficile e delicato tema dell’adolescenza e dei pericoli del web senza scadere nel banale o nel moralista, cosa non da poco. La protagonista Lily, ragazza  tutta casa e chiesa, amiche del cuore, voti alti, si rivela così tremendamente umana, un amore segreto, delle voglie non soddisfatte dal fidanzato, un padre e una madre assenti, diventando agli occhi della sua piccola comunità una strega ributtante. Ecco che la famiglia non l’ascolta e la butta fuori casa, ecco che il suo mondo crolla, per strada la chiamano “puttana”, vogliono sgozzarla, ucciderla, bruciarla, Lily da Barbie bionda e perfetta è diventata una Monster High per ragazzine che si incidono la carne.

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Non è diversa la Salem del 2018 da quella del diciasettesimo secolo, un micro mondo impazzito dove la legge è quella del fuoco, della lapidazione, della donna che scopa solo alla missionario, sotto l’uomo, perché l’uomo, e solo lui, deve essere il baricentro dell’universo. La femmina, la moglie,  la figlia, la poetessa rinchiusa tra le mure di un manicomio è da compatire, curare, infibulare se è necessario. O, peggio, da uccidere, murare, rendere sposa di Cristo. Brucia, strega brucia. Sottomessa sempre agli occhi di nostro Signore.

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Così la nostra Lily scopre che un mondo dove i messaggi sul cellulare sono pubblici è un mondo utopicamente impossibile, un inferno dove i nostri peccati sono sotto gli occhi di tutti, da un sindaco che incita furiosamente a ghettizzare i gay e la sera si veste da donna, così via, di peccato e peccatore. Ed è qui che le maschere metaforiche cadono per indossare altre maschere, questa volta da slasher, Jason che soppianta i cappucci del KKK, perché la colpa non può essere nostra, un agnello che monda i peccati del mondo deve esistere, così è sempre stato, dai tempi del Golgota o di Rodney King. E Lily diventa la madre di tutte le colpe. Eli, Eli, lama sabac thani?

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Female Prisoner 701: Scorpion di Shunya Ito

Come in una versione hardcore di Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, i messaggi segreti di un cellulare sono l’inizio dell’apocalisse: donne tradite picchiano altre donne ferocemente, nei parcheggi, come in una guerra tra cani per l’osso, si massacrano i figli in bagni tinteggiati dal sangue della propria progenie, Medea e il conte Ugolino in un  amplesso musicato da 100 Bad di Charlie Heat, ipnotico e romantico come un Mcdrive. In un paesino, che, a leggere su wikipedia, contava nel 2017 più o meno 44 mila anime, a farne le spese sono soprattutto loro, i diversi, come nel caso della transessuale Bex,  rapita e lì lì per essere impiccata come simbolo dell’America bianca, eterosessuale e cristiana. O del preside Turrell, pedofilo solo per aver scattato foto alla figlia, ma la sua colpa è probabilmente radicata nel DNA, in quella pelle nera da stupratore che i buoni padri fondatori arrostivano nei campi di cotone. Buana, fratello, buana.

Take this hammer, (huh!) carry it to the captain (huh!)
Tell him I’m gone, tell him I’m gone (huh!).
If he ask you (huh!) was I runnin’, (huh!)
Tell him I’s flyn’, tell himI’s flyn’ (huh!)

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Assassination nation è un’opera solo all’apparenza semplice e superficiale, soprattutto per il linguaggio videoclipparo che sceglie di adottare, ma che in realtà possiede una grande forza visiva, visionaria e anarchica. La regia di Sam Levinson è in stato di grazia, è capace di regalarci momenti di incredibile goduria figurativa come la sequenza che preannuncia il massacro della cheerleader Bella Thorne, prezzemolina della produzioni teen, con la sua assassina in posa, mazza alla Harley Quinn, mentre sullo sfondo una gigantesca bandiera americana troneggia. O ancora il finale con le quattro ragazze, redivive e agguerrite, in una marcia contro i loro aguzzini, non più sole ma supportate da una una folla di altre donne. Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo in versione #MeToo perché d’altronde  quello è il pensiero della nuova Lily, uscita indenne dalla sua personale notte del giudizio.

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“Da quando sono nata, non ho ricevuto che ordini. Sorridete. Divaricate le gambe. Elargite la vostra figa. Parlate più piano. Urlate più forte. State in silenzio. Siate sicure di voi. Siate interessanti. Non fate cosi’ le difficili. Siate forti. Non reagite. Siate un angelo. Siate una puttana. Siate una principessa. Siate tutto ciò che volete. Persino il presidente degli Stati Uniti d’America. Scherzavo. Fanculo. Volete ancora uccidermi? Violentarmi? Pugnalarmi? Spararmi? Andiamo. Radunate i vostri sgherri. Afferrate le armi e nascondetevi dietro le maschere. Ora volete farlo nella vita vera? Fate del vostro meglio. Perché per tutta la vita mi avete preparata per questo. Potreste uccidermi. Ma non ci potete uccidere tutte“.

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A completare la riuscita dell’opera un cast, soprattutto di attrici, convincente, con le sue ragazze caricate nella recitazione come fossero testimonial di un moderno “We Can Do It!” dell’epoca Kill Bill.

Non male.

Andrea Lanza

Assassination Nation

Regia (e sceneggiatura): Sam Levinson

Produttori: David S. Goyer, Matthew J. Malek, Anita Gou, Kevin Turen, Aaron L. Gilbert, Manu Gargi

Interpreti: Suki Waterhouse, Hari Nef, Odessa Young, Danny Ramirez, Bill Skarsgård

USA, 2018, durata 110 minuti

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Bird Box

04 venerdì Gen 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, demoni, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza

≈ 1 Commento

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Amy Gumenick, BD Wong, bird box, Danielle Macdonald, film, Jacki Weaver, John Malkovich, Julian Edwards, Lil Rel Howery, Machine Gun Kelly, netflix, Parminder Nagra, Pruitt Taylor Vince, Rebecca Pidgeon, revante Rhodes, Rosa Salazar, sandra bullock, Sarah Paulson, Susanne Bier, Tom Hollander, Vivien Lyra Blair

Quando una forza misteriosa decima la popolazione mondiale, una cosa è certa: se la vedi, ti togli la vita. Affrontando l’ignoto, Malorie trova amore, speranza e un nuovo inizio, solo per vederseli sfuggire. Ora deve scappare con i due figli lungo un insidioso fiume, verso l’unico possibile rifugio. Ma per sopravvivere dovranno affrontare il pericoloso viaggio di due giorni con gli occhi bendati.

45 milioni, tante sono le visualizzazioni che Bird Box, horror catastrofico, sta macinando in questi giorni sulla piattaforma di streaming Netflix. Ormai il cinema è anche questo, non solo una sala, ma proprio il salotto di casa nostra con pellicole che nulla hanno da invidiare a quelle che sbarcano nei multiplex. Gli haters si inalberino pure a suon di forconi, ma è indubbio che titoli come Tau di Federico D’Alessandro, Mute di Duncan Jones o La fine di David M. Rosenthal sono di pregevole fattura con gli stessi difetti di un Transcendence su maxi schermo. Certo la magia del popcorn, dei ragazzini che urlano davanti alle scene che non hanno fatto mai paura neanche al fantasma formaggino sono impagabili, ma Netflix non dev’essere il demonio ma un passo necessario dell’evoluzione tecnologica: se si vuole lo si fruisce sennò amen, i multisala resteranno sempre in piedi con o senza di esso.

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Bird Box non è un bel film, scansiamo ogni dubbio, ma è un film comunque interessante, che paga lo scotto di un primo tempo disastroso, povero e raffazzonato per poi ingranare, coinvolgere e impantanarsi ancora in un finale di pochezza inenarrabile.

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Non ho idea di quanto del libro omonimo di Josh Malerman (da noi uscito per PIEMME come La morte avrà i tuoi occhi) sia rimasto in questa pellicola, ma sono evidenti, almeno a livello cinemagrafico, i dazi da pagare ad uno sci-fi più o meno recente, E venne il giorno (The Happening) di M. Night Shyamalan, nel quale, lì come qui, una forza sconosciuta spinge le persone al suicidio. Bird Box perde la sfida proprio con quel film a livello spettacolare perché il budget di appena 20 milioni non permette di mettere in scena un’apocalisse degna di nota con gente che si getta contro camion in movimento, che si lascia bruciare come bonzi buddhisti, un mondo che sulla carta dovrebbe essere vibrante ma che ricorda solo una brutta intro per un gioco della playstation, 1 si intende non 4.  Siamo ai livelli miserabili, per intenderci, di una produzione alla Renzo Martinelli che cerca di scimmiottare Hollywood, il Barbarossa contro Braveheart, Vajont contro Deep impact, in questo caso il mondo caotico di The Dawn of the dead di Zack Snyder di fuoco e olocausti virato in una poveracciata, come direbbe la nostra Silvia Kinney Riccò, senza paragoni.

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Dopo non è meglio, soprattutto quando il film diventa una specie di remake lovecraftiano di La notte dei morti viventi con personaggi antipatici che dicono cose sensate e altri empatici che risultano dei coglioni. Bird box migliora quando si lascia alle spalle le pretese da blockbuster hollywoodiano e si trasforma in un home invasion claustrofobico per poi accelerare con il ritmo quando sterza nel survival con una fuga incredibile  ad occhi bendati.

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E’ quando smorza il suo cast concentrandosi solo sulla Bullock, una magnifica milf graziata dal tempo, che il film risulta interessante, che riesce a far sentire anche allo spettatore l’angoscia prima di un luogo chiuso per poi ributtarlo in pasto ad un intero mondo allo sbando, senza il ricorso degli effetti speciali stavolta ma con la magnifica idea della privazione della visione.

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Così abbiamo un film spezzato, da una parte le ambizioni spettacolari inattese dall’altro un prodotto più intimista nelle corde della sua regista, non molto a suo agio in un’opera dalle forti sterzate di action orrorifico.

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Sarah Paulson e il cammeo tra un American Horror Story e un altro

Il cast è buono anche se sembra di assistere ai saldi di un discount con attori un tempo sulla cresta dell’onda come John Malkovich, ora ridotti a fare da spalla incolore alla protagonista, anch’essa lontana dal successo di neanche vent’anni fa.

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Attori bravi in saldo a fare parti inutili

Sembra che l’azzeccata scelta di non far vedere i mostri sia stata motivata soprattutto dalla cattiva resa degli effetti speciali. Lo sceneggiatore Eric Heisserer racconta “C’è stato un periodo in cui uno dei produttori ha detto – No, a un certo punto devi mostrare qualcosa- e mi ha obbligato a scrivere in pratica una sequenza in stile incubo in cui Malorie deve affrontarne uno in quella casa. Era tipo un serpente e ho pensato -Non voglio vederlo quando accade. Portatelo nella stanza e basta. Gireremo la scena-. Mi sono girato e il “mostro” era lì che mi ringhiava contro. Mi ha fatto ridere. Sembrava semplicemente un lungo bambino ciccione. Era un uomo verde con una terrificante faccia da bambino“.

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La donna serpente di Jennifer Lynch

Non palesando l’immostrabile, il film comunque ci guadagna tantissimo. Lo stesso problema se l’era posto Jacques Tourneur che, nel girare il bellissimo La notte del demonio, nel 1957, ben 14 anni dopo i suoi exploit horror/fantastici degli anni 40, lottò con tutte le forze per non mettere in scena il suo mostro, il diavolo, perché ridicolo. A differenza di Susanne Bier e del suo Bird Box gli riuscì peggio: il produttore impose la creatura, tanto da sbandierarla nelle locandina.

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Il demonio di Jacques  Tourneur 

Certo che il demone di Tourneur  tanto odiato dal suo stesso autore aveva comunque fascino, malgrado il pensiero del regista. Il “lungo bambino ciccione” mi accende invece i peggiori effetti speciali visti negli horror serpenteschi da La tana del serpente bianco di Ken Russel all’invisibile Hisss di Jennifer Chambers Lynch.

Le somiglianze con il recente A Quiet Place – Un posto tranquillo (A Quiet Place) di John Krasinski esistono, inutile negarlo, ma sembra che il mistero non sia una scopiazzatura da parte di Netflix ma deve essere ricercato nelle influenze che il romanzo di Josh Malerman, anno 2015, ha avuto sul film (semi)muto con Emily Blunt.

E’ all’ordine del giorno, notizia freschissima, che negli States il tasso di cretinismo sia aumentato grazie anche a Bird Box generando degli inaspettati idioti dell’ultima ora che, usando l’hashtag #birdboxchallenge, hanno iniziato a guidare e filmarsi bendati come i protagonisti del film.

Come diceva Cicerone “O tempora, o mores“, tradotto liberamente “la madre dei coglioni è sempre incinta”.

Andrea Lanza

Bird Box

Anno: 2018

Regia: Susanne Bier

Interpreti: Sandra Bullock, Trevante Rhodes, John Malkovich, Sarah Paulson, Jacki Weaver, Rosa Salazar, Danielle Macdonald, Lil Rel Howery, Tom Hollander, Machine Gun Kelly, BD Wong, Pruitt Taylor Vince, Vivien Lyra Blair, Julian Edwards, Parminder Nagra, Rebecca Pidgeon, Amy Gumenick

Durata: 124 min.

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Trauma

28 venerdì Dic 2018

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni, T

≈ 1 Commento

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cile, lucio a. rojas, pinochet, torture porn, trauma

Di Trauma avevo letto solo critiche poco lusinghiere: tanti giri di parole per definirlo alla fine una cagata di quelle peggiori, i film pretestuosi. Quanta acredine e ingiustizia: la pellicola di Lucio A. Rojas è girata bene, dal ritmo indiavolato, un horror anche divertente, fermo restante che devi avere uno stomaco di ferro per le varie truculenze presenti. Siamo in puro territorio  da exploitation anni 70/80, gli stessi luoghi che abbiamo percorso da cinefili con le famiglie disfunzionali di Tobe Hooper, con i serial killer scalpatori di William Lusting, e con gli stupri selvaggi, senza vasellina, di I spit on your grave, L’ultima casa a sinistra ma anche nel sempre poco citato Death Wish.

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supercazzola

Certo Trauma è anche un film che fa incazzare, che non ti permette però, se lo odi, di dichiarare subito che è merda, perché, a suo modo, è un film subdolo e furbo: è come un miserabile mendicante che un giorno tira fuori dal suo sacchetto cencioso un vestito buono, d’alta sartoria, si rade, si fa’ una doccia e si beve un caffè al tuo bar. Cioè tu sai che è Jean Paul il barbone che vive con 44 cani in una catapecchia, che una volta l’hai persino visto mangiare un ratto in un vicolo con un sorriso beato da baubau kinghiano, ma il tuo cervello ora è in corto circuito, i vestiti, il profumo, persino il mignolo alzato mentre dice “C’est magnifique“.

vlcsnap-2018-12-28-16h20m36s685 Ecco Trauma è così: un rozzo exploitation dalla confezione ottima che usa una supercazzola qualunque per darsi un tono, in questo caso un contesto storico per giustificare i suoi mostri, la dittatura di Pinochet in Cile. Il problema è che questa cornice impegnata è intercambiabile con altre più futili senza che il risultato cambi di una virgola: che i pazzi cannibali incestuosi di Rojas siano figli della guerra o di una cometa importa poco, tanto ambiziosamente artificiale è l’impegno di denuncia del regista/sceneggiatore.

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distogliere l’attenzione

Diverso era il caso di Srdjan Spasojevic: se toglievi al suo A Serbian film tutto il sottotesto politico allora sì che diventava solo un film sadico e non la bomba emozionale che effettivamente è stato. In Trauma con o senza Pinochet invece hai lo stesso identico, buon film sadico. Con la variante che A Serbian film è un capolavoro e Trauma un buon intrattenimento per ragazzacci. Cosa non male comunque. D’altronde questa pellicola, girata con soli 180 mila euro (stando a quello che scrive IMDB) è inaspettatamente stilosa con una fotografia patinata che stride davanti  agli ambienti sporchi e malsani, con una regia forse non troppo inventiva ma tremendamente efficace, un piccolo miracolo di tecnica che non è esente da sbavature, ma sono le stesse che potresti trovare in un horror miliardario di Nispel.

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Vedendo Trauma mai che ci sia una sola volta che pensi alla miserabilità del budget, anche perché nei momenti evidentemente più pauperistici il buon Rojas è lesto a diventare un mago alla The Prestige. E’ la famosa tecnica delle tette: ad un film noioso o in un deragliamento narrativo bisogna infilarci delle sane bombe mammarie. Così lo spettatore nella sua semplicità si perde, lo inganni, non ha visto l’asso nascosto nella manica, mon ami. Lo stesso qui: : è vero che almeno in un’occasione c’è una sparatoria da Jean Claude Van Damme dei sobborghi di Sofia, ma la dimentichi, non le dai importanza perché il buon Lucio è veloce ad intervallarla con uno squartamento feroce, così distogli lo sguardo e voilà ti ricordi solo dell’effettaccio, questo davvero figo.

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Trauma è un film che non punta al corteggiamento da primo appuntamento, ti infila una mano nella patta dei pantaloni e ti sussurra sicuro “Divertiamoci“. Già la prima scena porta gli spettatori in prima fila nell’orrore: una donna dal viso pesto subisce la violenza più infame, uno stupro da parte del figlio adolescente sotto viagra, un atto voluto dal suo stesso padre, un comandante dell’esercito cileno. Rojas si spinge oltre, in una scena già ideologicamente disgustosa, con la testa della donna che viene fatta saltare in aria mentre il ragazzo continua a spingere, spingere con gli occhi assenti e la follia che avanza. Da qui è un luna park di orrori: altri stupri, sperma confuso col sangue, acido che corrode i visi, mascelle strappate, bambini torturati e tanto altro.

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Prendere o lasciare sicuramente, ma, nell’ottica di stare vedendo solo un film, Trauma diverte come uno slasher cattivo, è uno spettacolo sadico ma non pedestre, uno splatter che cerca consolazione nel reale per poi rivelarsi tremendamente irreale, un horror di mostri immortali, di situazioni cretine trattate con la stessa serietà né più né meno di un Friday 13th col divieto ai minori di 30 anni.

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Meglio di Sendero, l’opera precedente del regista, rozza e a tratti imbarazzanti, che però aveva nel suo andamento zoppicante già i semi inespressi di questo Trauma. Certo è che se prendi la pellicola di Rojas con troppa serietà arrivi a notare il suo tallone di Achille, una sceneggiatura scema, superficiale e irritante come poche che ad un certo punto tenta pure un discorso femminista eleggendo, come in un James Cameron anni 80, una donna a protagonista stracazzuta, ma è come quando si faceva gli intellettuali di sinistra per scopare di più, nessuno davvero ci credeva.

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Ora come ora Trauma è un film semi invisibile, almeno in rete, ma su amazon.com si trova senza problemi il blu ray con i sottototitoli inglesi. Non preoccupatevi se masticate poco le altre lingue, i dialoghi alla fine sono pochi e di certo non scritti da David Mamet. Io comunque ve lo consiglio.

Andrea Lanza

Trauma

Regia Lucio A. Rojas

Anno: 2017 (Cile)

Interpreti: Catalina Martin, Macarena Carrere, Ximena del Solar, Dominga Bofill

Durata: 106 min.

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Between Worlds

13 giovedì Dic 2018

Posted by andreaklanza in B, demoni, drammatici, fantasmi, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, thriller

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between worlds, fantasmi arrapati, film orribili, franka potente, nicolas cage

Chi mi conosce sa quanto io adori Nicolas Cage. Sì mi piace davvero, dai tempi di Stregata dalla luna, di Cuore selvaggio e poi grande festa per il suo meritato Oscar in Via da Las Vegas. Nick nostro, come una terribile canzone di Sabrina Salerno e Joe Squillo sulle donne e le loro gambe, meriterebbe “di più”, di più della sua immeritata fama da cagnaccio, di più dei meme che non fanno ridere sui suoi parrucchini, di più della solita scena delle api ne Il predestinato di Neil LaBute che, qui lo dico e non lo negherò, è un ottimo film. Cage, non dimentichiamolo, ha poi lavorato con registi di una certa importanza, da Brian De Palma ad uno tra gli Scorsese più gagliardi, Al di là della vita (Bringing Out the Dead), che chissà perché nessuno cita mai ma che, se non hai un cuore di pietra come quello di Luis in Cimitero Vivente, non può non commuoverti. Nicolas, sia che sia stato diretto da John Woo che dal signor nessuno Rob W. King, è sempre stato un ottimo attore, gigionesco è vero, in pieno overacting molte volte, ma, cazzo, lo stesso succedeva a Pacino senza che nessuno si sognasse di dire “Ehi Al sei una sega“.

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Nicolas e Brian De Palma

Ultimamente, lo sanno anche i sassi, il nostro ha problemi col fisco, problemi grandissimi, visto che gli hanno pignorato ogni bene, e perciò è costretto per ripagare lo zio Sam a fare qualsiasi cosa gli offrano e molti suoi film, questo è vero, non valgono nulla. Dire però che tutta la sua produzione sia merda è ingiusto perché se c’è un orribile Looking Glass – Oltre lo specchio di Tim Hunter ci sono almeno due Paul Schrader ottimi, il sofferto Il nemico invisibile e il folle Cane mangia cane. In più è in questo decennio di crisi che Cage ci ha regalato una delle sue performance migliori, forse la migliore, quella del boscaiolo Joe nell’omonimo film di David Gordon Green. Purtroppo capita, come detto, che alcuni suoi film, soprattutto i suoi sporadici horror, siano davvero indifendibili.

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Nicolas in versione “Non mi lavo da un anno”

Se si esclude il gagliardo Mom and dad di Brian Taylor (lo stesso di Crank e della serie Netflix Happy!), è impossibile salvare l’atroce Pay the ghost o, sul versante thriller, il confuso Inconceivable. C’è da dire che Nicolas ne esce vincitore anche davanti alla ciofeca più eclatante perché ultimamente ha imparato, nei brutti film, a contenersi, a recitare più pacatamente per poi tornare, diavolaccio di un Cage, a strabuzzare gli occhi, a muoversi come una pantera infoiata in pellicole più dignitose se non buone.

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Nicolas in versione “A Serbian film”

Peccato però che questa tesi venga mandata a ramengo dopo la visione, insopportabile e molesta, di Between Worlds, uno dei film più brutti, pretenziosi e stupidi che mente umana potrebbe concepire. Alla cabina di regia abbiamo alla sua opera seconda la poco convincente Maria Pulera, una che non è che giri male, ma in maniera anonima, senza nerbo e televisiva sì, cosa che è sempre imperdonabile in un horror. Siamo in una produzione spagnola, d’imitazione americana che ha la stessa sontuosità della messa in scena di un film bulgaro con Van Damme. In un cast spaurito e spaesato si aggira una Franka Potente lontana dai fasti di un gagliardo Anatomy o dello schizofrenico Lola corre, qui in versione comparsa piagnucolona da direct to video.

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Nicolas in versione “Er mutanda”

La storia, piena di “Ma che cazzo sto vedendo” o “Ma sei serio?” uscite dalla bocca dello sprovveduto spettatore, parla di reincarnazioni, di fantasmi porcelli e camionisti che probabilmente non si lavano da anni. Uno di questi, il protagonista Joe è interpretato da un Nicolas Cage indecente che sembra aver dimenticato come si faccia a recitare, con frasi serie declamate in modo canzonatorio o una mimica facciale alla Jim Carrey dei tempi d’oro di The mask. Fa male vedere Nick nostro che fa l’alcolizzato e probabilmente è sbronzo sul set, con la sceneggiatura che lo vorrebbe affascinante mentre ha una panza da tricheco e una regia che calca con masochismo i momenti di comicità a La pallottola spuntata che la pellicola genera spontaneamente. Per esempio, ad un certo momento, Cage si  fa spruzzare addosso dell’acqua da un’eccitata figliastra a cavallo di una moto: la sequenza non è dissimile, come sensualità ed erotismo, dal ballo dell’otaria orsina prima di morire. L’attore in completa euforia alcolica da’ il suo peggio in un’opera che punta al surrealismo fantastico alla David Lynch e non è neppure ai livelli, non dico della mia adora Jennifer Chambers, ma, che so, del mio meccanico che vorrebbe rifare Strade perdute e filma il culo di una cliente.

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Nicolas in versione “Otaria”

Between Worlds è scandaloso, è un pugno al buon gusto, e arriva proprio quando Nick si era riabilitato con lo splendido Mandy, anche lì in un’interpretazione sotto stupefacenti ma con la differenza di avere dietro un vero regista.

Peccato davvero perché Cage non si merita altra merda, perché noi a Nicolas vogliamo bene e siamo sicuri il prossimo film sarà migliore. Anche perché fare peggio di questo è umanamente impossibile.

NOTA:

Per far comprendere quanto questo mondo di terrapiattisti sia fuori di testa, riporto tradotta la scheda del film da wikipedia;

“Between Worlds ha ricevuto reazioni positive. Il film ha ricevuto una standing ovation durante la sua anteprima in Texas.  Su Rotten Tomatoes , il film ha un indice di gradimento del 74%.  Leigh Monson di Birth.Movies.Death. Ha scritto che: “Between Worlds è un film bizzarro” e definisce il ruolo di Cage: “[…] un personaggio affascinante”. Heather Wixson di Daily Dead ha dato al film un punteggio di 3/5, definendolo: “[…] un’esperienza meravigliosamente bizzarra”. La critica ha anche elogiato il cast, scrivendo che “Cage, Potente e Mitchell offrono un trio di performance sorprendenti”. Il film ha ottenuto buone recensioni da siti come Vanyaland, Ghastly Grinning e Nightmarish Conjurings. Il primo sito l’ha paragonato a Twin Peaks . Altri articoli hanno espresso approvazione per la performance di Nicolas Cage, soprattutto per aver reso convincente le parti hot con l’attrice Franka Potente e hanno definita la sua performance una delle migliori della sua carriera. Anche la critica europea ha reagito bene, lodando la regia di Pulera e la recitazione di Cage“.

Probabilmente tutti questi critici stavano guardando un altro film.

Andrea Lanza

Between worlds

Anno: 2018

Regia: Maria Pulera

Interpreti: Nicolas Cage, Penelope Mitchell, Franka Potente, Lydia Hearst, Garrett Clayton, Brit Shaw, Hopper Penn

Durata: 90 min.

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