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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Prison of the dead

26 martedì Giu 2018

Posted by andreaklanza in film pericolosamente brutti, Full Moon, P, Recensioni di Andrea Lanza, zombi

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decoteau, prison of the dead, the game

Prison of the dead è un film sicuramente da evitare anche se non è proprio uno dei peggiori film del suo autore. Ora nel leggere i credits il popolo insorgerà verso il povero recensore reo di una possibile gaffe: la regista è l’oriunda Victoria Sloan, una signora nessuno all’apparenza. Ma se il nome vi intriga e già favoleggiate una playmate in bikini dalla labbra calde e le tettone generose vi devo deludere: Victoria Sloan è un uomo e mica un uomo qualsiasi: il regista più gay del secolo, David Decoteau.

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La donna sexy per Decoteau

Se sapete di chi sto parlando i brividi di raccapriccio vi inonderanno la schiena: Decoteau è il regista più sciatto del panorama horror, uno che delle inquadrature se ne frega, che posiziona la macchina da presa come cazzo gli pare, l’importante per lui è filmare bei ragazzoni il più svestiti possibili. Ma Prison of the dead arriva in un periodo ancora non sospetto quando la fama (immeritata) non aveva ancora baciato il brioso David per il suo stile glamour da Top girl del cinema queer.

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L’eterosessualità per Decoteau

Quindi, sebbene si piazzi una battuta sui gusti sessuali di un personaggio, si cerca di mettere in scena persino un tête-á-tête amoroso tra un solo uomo e una sola donna senza amici maschi in giro in boxer attillati pronti a partecipare. Inutile dire come la scena sia girata in maniera davvero sciatta e assolutamente poco appetibile per qualunque voyeur in attesa di pelo femminile (lei lo fa con reggiseno e mutandine mentre è in una specie di catalessi).

Il film non spicca tra l’altro neppure per il forte spreco di emoglobina con tanto di omicidi fuoricampo o per un ritmo incalzante: dura poco più di 70 minuti, ma sembrano 700.

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Il diavolo minnoso, nemico giurato di Decoteau

Oltretutto arrivati a un’ora di girato il povero David si deve essere accorto che il film era quasi finito quindi per salvare capra e cavoli ha pensato bene di girare i restanti minuti in un lunghissimo e immotivato rallenti.

La storia certo non si distingue per essere da premio Oscar: cinque cretini, esperti di occulto (ma a parole soltanto), si trovano chiusi in un vecchio caseggiato, un tempo teatro di torture ai danni di streghe, per cercare una chiave magica mentre tre zombi (ovvero uomini con una maschera da carnevale e occhi di rosso luminoso) danno loro la caccia.

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Luci blu a cazzum

Se pensiamo poi che le vittime dei mostri cadono prima di essere uccise in uno stato di immobile trance si capisce quanto il livello di suspense dev’essere altissimo.

Da antologia però alcune scene, su tutte quella finale, assolutamente incomprensibile, dove l’azione si interrompe su una frase banalissima.

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Un agile e pericoloso zombi non inebetito

Vedere per credere: come se David si fosse stancato di girare e avesse pensato di troncare di punto in bianco il film. Esiste anche un sotto plot dove i protagonisti cretini sono seguiti da tre figuri ancora più deficienti, ma parlarne sarebbe come colpire con facilità un uomo che sta cagando. Non male davvero invece l’ambientazione teatrale che all’inizio fa sperare in un miracolo meta cinematografico che invece non ci sarà. Il film pur essendo brutto e sciatto non è, come detto nelle prime righe, il peggior lavoro del regista. Pensate quindi come potrebbero essere quelli brutti.

Nota a margine: il film è conosciuto anche come The game e Prigione di sangue. Quanti titoli per un film di così poco conto.

Andrea Lanza

Prison of the dead – Prigione di sangue

Titolo originale: Prison of the Dead

Anno: 2000

Regia: David DeCoteau

Interpreti: Patrick Flood, Jeff Peterson, Sam Page, Kim Ryan, Alicia Arden, Michael Guerin, Debra Mayer

Durata: 75 min.

Aka “The game”

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Il pozzo e il pendolo

27 lunedì Mag 2013

Posted by andreaklanza in demoni, drammatici, Full Moon, P, Recensioni di Davide Comotti, splatteroni, streghe

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cinema, edgar allan poe, film tratti da edgar allan poe, full moon, il pozzo e il pendolo, recensione, recensioni, remake, stuart gordon

Fra gli scrittori di racconti horror, Edgar Allan Poe è stato sicuramente uno dei più “saccheggiati” dal cinema di paura: basti pensare ai numerosi numerosi film americani della AIP ispirati, più o meno fedelmente, ai suoi scritti. In alcuni casi, lo stesso racconto è stato trasposto su pellicola in varie occasioni: è questo il caso de Il pozzo e il pendolo (1842), ambientato durante l’Inquisizione spagnola e focalizzato su un prigioniero sottoposto alla tortura che dà il nome al racconto (legato in cima a un baratro sotto una lama oscillante che si avvicina sempre di più). Dopo un cortometraggio francese del 1909, la prima autentica trasposizione cinematografica avviene proprio ad opera della AIP, che produce Il pozzo e il pendolo (1961) di Roger Corman, con Vincent Price e Barbara Steele. Un bel film, realizzato in uno stile gotico “all’inglese”, molto diverso dall’altra celebre e omonima versione, realizzata nel 1991 dall’americano Stuart Gordon, regista abile sia nell’horror “fantascientifico” (Re-animator, From beyond, Dagon) che in quello gotico (Dolls, Il pozzo e il pendolo, Castle Freak).

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Se Corman puntava di più sull’angoscia psicologica e sull’alternanza tra realtà e soprannaturale, Gordon mette in scena una vicenda grandguignolesca dove è la tortura fisica a farla da padrone, per poi prendere una sterzata soprannaturale nella parte conclusiva. Dunque, è forse meno fedele a Poe rispetto al film di Corman, ma più appassionante, più bello visivamente e anche più “horror” nel senso autentico della parola. In entrambi i film, comunque, si è dovuto per forza di cose creare una vicenda attorno alla tortura del “pozzo e il pendolo”, visto che il racconto di Poe era focalizzato interamente sull’episodio, ma un film ha bisogno di una trama più estesa per coinvolgere lo spettatore (a meno di fare un cortometraggio).

Il pozzo e il pendolo di Gordon (sceneggiato da Dennis Paoli) è ambientato, come ci avverte la didascalia iniziale, in Spagna nel 1492, quindi verso la fine del Medioevo. Siamo in pieno periodo di “caccia alle streghe” e l’Inquisizione compie atrocità di ogni tipo sotto la guida di Torquemada (Lance Henriksen). La giovane Maria (Rona de Ricci), moglie di un panettiere, assiste al rogo di una donna accusata di stregoneria e interviene in difesa di un bambino, venendo a sua volta imprigionata come presunta strega. Mentre il marito cerca invano di liberarla, Maria assiste e viene sottoposta alle torture più barbare. Anche l’uomo viene catturato e deve subire la tortura del “pozzo e il pendolo”. Ma una maledizione lanciata sul rogo da una vera strega ribalterà la situazione in favore degli sfortunati prigionieri.

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Uno dei punti di forza del film è proprio l’accurata e sfarzosa messa in scena, un “Grand Guignol” dal sapore un po’ kitsch a cui contribuiscono in egual misura la fotografia (Adolfo Bartoli), gli effetti speciali (Giovanni Corridori), le scenografie (Giovanni Natalucci), i costumi (Michela Gisotti) e il trucco (Greg Cannom, Adriana Sforza, Keith Edmier, Robert Clark). Buona parte delle maestranze sono dunque italiane, e questo si spiega col fatto che i produttori sono Albert e Charles Band (cioè Alfredo e Carlo Antonini, padre e figlio), operanti negli Stati Uniti ma di origine italiana (Albert Band, negli anni Sessanta, collaborò anche ad alcuni “spaghetti western”): più o meno la stessa cosa avverrà con Castle Freak (1995), dove addirittura la location sarà italiana.

Essendo Il pozzo e il pendolo ambientato quasi tutto in un castello, dunque girato in interni, la fotografia e le scenografie sono più che mai fondamentali per la riuscita del prodotto: i colori caldi e saturi (valorizzati da un’ottima fotografia che “dipinge” in maniera nitida luoghi cupi e illuminati solo dalle torce) e le sfarzose ricostruzioni (la stanza delle torture, ma anche le oscure celle, le sale del castello e il passaggio segreto “decorato” con dei teschi) conferiscono al film un’atmosfera da brividi, tragicamente realistica ma al contempo volutamente “caricata” nei colori e negli effetti speciali, con un ottimo effetto gotico-barocco. Le musiche di Richard Band, con i toni bassi e lugubri evocanti atmosfere sepolcrali (in stile Carmina Burana, per intenderci), completano l’opera.

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Il sangue e la crudeltà delle torture sono uno dei cardini del film: anzi, la solida regia di Gordon (pur non risparmiando alcuni momenti del suo consueto umorismo macabro, come lo scheletro frustato all’inizio) mostra una cura certosina nel mettere in mostra ogni tipo di tortura possibile e immaginabile. Oltre al “pozzo e il pendolo” (che, come nel film di Corman, incontriamo verso la fine), il regista guida lo spettatore in questo museo degli orrori (quasi un inferno dantesco), tra Vergini di Norimberga, celle luride e oscure, strumenti di trazione corporale, lingue mozzate, sedie roventi, uomini coi piedi sul fuoco o costretti a ingurgitare sostanze varie. Le scene splatter e orrorifiche abbondano: basti pensare a Torquemada che taglia la lingua a Maria con una forbice, il topo tagliato in due dal pendolo e spappolato con la mano da Antonio, l’inquisitore trafitto dai pali di ferro nel pozzo. Notevole anche la sequenza della strega che viene bruciata viva, per poi tornare come scheletro a perseguitare Torquemada.

L’americano Lance Henriksen, specializzato in film horror e di fantascienza, col suo sguardo torvo dà vita a uno degli inquisitori più crudeli e inquietanti del cinema, degno di Vincent Price (Il pozzo e il pendolo di Corman, Il grande inquisitore) e di Fred Abraham Murray (Il nome della rosa). I due coprotagonisti, cioè i perseguitati Maria e Antonio, sono interpretati da due attori poco conosciuti ma efficaci, Rona De Ricci e Jonathan Fuller. Fra i consiglieri di Torquemada troviamo Jeffrey Combs (Francisco), attore-feticcio di Gordon e celebre per il ruolo del dottor Adam West nella saga Re-animator. Da notare anche la presenza dell’italiano Benito Stefanelli, celebre villain di numerosi western e polizieschi nostrani, nel ruolo del boia. Infine, cammeo del sempre immenso Oliver Reed nella parte di un cardinale inviato dal Papa in Spagna per porre fine alle torture dell’Inquisizione, e destinato a essere murato vivo per ordine di Torquemada.

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Il pozzo e il pendolo contiene, oltre allo strumento del titolo (anticipato da un modellino presente sulla scrivania di Henriksen), anche altre citazioni da Poe: La botte di Amontillado, da cui si disseta Oliver Reed, La rovina della casa degli Usher (Rona De Ricci sepolta in stato di catalessi), Il seppellimento prematuro (Reed e la De Ricci sepolti vivi).

Da notare, infine, anche due scene che vogliono forse citare dei precedenti horror gotici: il cardinale murato vivo ricorda una scena simile presente nel Pozzo e il pendolo di Corman (dove è una donna a subire questa terribile sorte), mentre la strega che lancia una maledizione dal rogo richiama alcune situazioni che incontriamo spesso nel gotico italiano (La maschera del demonio di Bava, I lunghi capelli della morte di Margheriti).

Davide Comotti

Il pozzo e il pendolo

Titolo originale: The pit and the pendulum

Anno: 1991

Regia: Stuart Gordon

Cast: Lance Henriksen, Rona De Ricci, Oliver Reed, Jeffrey Combs

Durata: 90 min.

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Dollman

17 lunedì Set 2012

Posted by andreaklanza in alieni, azione, B movie gagliardi, D, fantascienza, Full Moon, Recensioni di Andrea Lanza, robot malvagi, scifi horror, splatteroni

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albert pyun, brutto sublime, charles band, cyborg, dollman, Eugene Robert Glazer, Frank Collison, Frank Doubleday, full moon, Humberto Ortiz, Jackie Earle Haley, John Durbi, Judd Omen, Kamala Lopez, kickboxer, Luis Contreras, Merle Kennedy, Michael Halsey, Nicholas Guest, Richard D'Sisto, Tim Thomerson, van damme, Vincent Klyn

Capitava nei primi anni 90 che, grazie alla Full Moon di Charles Band, arrivassero dritte dritte in vhs, come sputate dall’inferno, delle bizzarrie cinematografiche di rara follia. Dollman era la punta di diamante di queste perle di bis sciagurato e sublime, diretto oltretutto dal futuro cantore della fantascienza a base di kickboxer e cyborg, quell’incognita di Albert Pyun, regista geniale e scadente nello stesso tempo, a seconda del suo umore ballerino .

Lunga la filmografia di questo autore, dagli zoppicanti passi incerti presso l’Empire e quindi la Full Moon, fino a sbocciare di vita propria sulle ceneri de I dominatori dell’universo 2 grazie alla Cannon, a Van Damme e a quello strano e feroce postatomico chiamato Cyborg. Poi la sua carriera è tutta in salita nel cinema delle arti marziali: la mano rozza si è affinata e lo stile raffazzonato ha acquistato,  film dopo film, l’elegante grezzezza di uno stile personale. Saranno gli anni del meraviglioso horror noir Pistole sporche, un bagno di sangue e proiettili al ritmo di un caraibico mambo, prima della morte artistica avvenuta grazie alla consacrazione di lui, artigiano fantastico, come superbo auteur per la critica, e quindi un via di danze di opere noiose, autoreferenziali e finto artistiche.

In Dollman, Pyun è al massimo della sua forma, ha già alle spalle alcuni film notevoli come Kickboxer 2, ma anche, come capitava sovente, cadute di stile enormi dalla proporzione epica di un edwoodiano Capitan America. il budget a disposizione è minimo, ma la storia ha anche buon ritmo e un grado di ferocia, razzismo e violenza superiore alla media, soprattutto dei prodotti Full moon. ll personaggio di Brick Bardo, interpretato magnificamente da Tim Thomerson, caratterista dalla filmografia infinita, è di quelli che non la mandano di certo a dire: la sua entrata alla Marion Cobretti, a inizio film, è il marchio di un film rozzo, ma dal grande animo di fumetto popolare, di quelli che ai tempi generavano l’applauso in sala. Ecco, prendiamo proprio la prima sequenza per capire l’andazzo di Dollman: un criminale si è nascosto dentro una lavanderia, le teste di cuoio fuori pronte a sparare, arriva il nostro Brick Bardo, i colleghi lo odiano, lui entra e si mette tranquillo a fare il bucato mentre il deliquente si è legato assieme a due donne obese. Questa scena, che ricorda in maniera ancora più esasperata l’intro di Cobra di Cosmatos, viene spinta da Pyun al massimo eccesso. “Uccido queste due grassone” urla il malvivente, Bardo lo squadra e si avvicina, pistola puntata alla pancia di una delle due donne , mentre un gruppo di bambini lo guarda sbigottito. “Forse” risponde “o forse potrei sparare a questa cicciona, trapassarla, fottere te e pure quella massa di grasso dietro di te”. I bambini piangono, le due donne hanno un malore e svengono uccidendo col peso il bandito che muore tra mille agonie. Folle, roba da generare il wow degenerato dello spettatore, una cosa che neanche a raccontarla ci  puoi credere che l’hanno girata. Poi il film continua con una serie di assurdità da vero pulp fantascientifico: nemici con la testa volante, inseguimenti infradimensionali, poliziotti gnomi che aiutano umani e naturalmente splatter tanto da riempire lo schermo di rosso.  I nemici di Bardo esplodono in mille frattaglie, gli arti vengono gettati al vento, i sopravvissuti mutilati sono destinati a morire stringendo tra le mani dolorose frattaglie, è la sagra della violenza visiva sbattuta in faccia al placido spettatore da vhs in famiglia. Bardo uccide con gusto, ma lo fa accompagnato da frasi fascistoidi e un’idea giustizialista che fa sembrare pacifista il Winner di Il giustiziere della notte. In più quando ti aspetti un film innocuo, senza sbalzi di trama, ecco che Pyun, a metà film, ammazza il cattivo e riscrive il plot della pellicola. Sempre roba da wow inaspettato che ti fanno amare un film che dovrebbe avere l’essenza di un tv movie e invece ti pianta quei due o tre momenti di genio anche dietro una storia che puzzava nelle premesse dell’ennesimo Howard e il destino del mondo con alieni strambi e umani da difendere. Dollman, sia beninteso, è prodotto di cassetta, senza ambizioni artistiche, ma riesce a stupire e, cosa non sottovalutabile per una produzione Full moon, riesce ad essere visto fino alla fine.

Tra tanti anonimi attori spicca un giovane Jackie Earle Haley, futuro interprete di Nightmare il remake e soprattutto Rorschach nello splendido Watchmen. Il suo ruolo da cattivo a tutto tondo è ottimo e fa già presagire un certo stile, anche nella recitazione caricaturale, che lo rende il migliore di tutto il cast.

Pyun dal canto suo gira il film il più diligentemente possibile, senza grandi voli pindarici artistici, ma riesce a portare a casa un buon film di cassetta calcando, come già detto la mano, soprattutto sul lato exploitation violento. Stupiscono, nella calma piatta, alcune sequenze girate come un videoclip, soprattutto nel descrivere il disagio del ghetto dove la vicenda si svolge, primi vagiti dei lavori di blaxpoitation futuri del regista.

Dollman fu un discreto successo di cassetta, tanto da generare sia un seguito più vicino al genere horror, Giocattoli infernali, sia una miniserie a fumetti, edita in America dalla Eternity comics. Il sequel, meno riuscito del suo prototipo, era un tipico prodotto Full Moon con bambolotti alla Puppet masters assassini che per i motivi più assurdi incrociavano il nostro stracazzuto Brick Bardo. Tim Thomerson per questo personaggio si limitò a ripetere quello di Jack Deth, eroe della serie Trancers, altro titolo di punta della casa di Charles Band.

La vhs si vede ottimamente, è doppiata meno peggio del solito standard e ha il solito fullscreen di rito. Se la trovate non lasciatela sfuggire: Dollman è uno di quei  film dai quali non ti aspetti nulla e poi ti sorprende.

Andrea Lanza

Dollman

Anno: 1991

Regia: Albert Pyun

Cast: Tim Thomerson, Jackie Earle Haley, Kamala Lopez, Humberto Ortiz, Nicholas Guest, Judd Omen, Michael Halsey, Frank Doubleday, Frank Collison, Vincent Klyn, John Durbi, Merle Kennedy, Luis Contreras, Eugene Robert Glazer, Richard D’Sisto

Durata: 88 min.

VHS: Titanus – VIETATO AI MINORI DI 18 ANNI – INEDITO CINEMATOGRAFICO

Meridian

11 martedì Set 2012

Posted by andreaklanza in Full Moon, M, Recensioni di Andrea Lanza, starlette, tette gratuite

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Alex Daniels, americani che recitano in italiano, Angelo de Bianchi, boxing helena, castello di giove, charles band, Charlie Spradling, david lynch, favole, Fernando Cerulli, fiabe porno, full moon, Gianluca Tramboni, Hilary Mason, Isabella Celani, italianese, jean cocteau, la bella e la bestia, lazio, Malcolm Jamieson, Nashira, parco dei mostri di bomarzio, Phil Fondacaro, Salem Badr, sherylin fenn, twin peaks, umbria, Vernon Dobtcheff, Vito Passeri, Walter Colombaioni

Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende venite qua, dove son facce horrende, elefanti, leoni, orchi et draghi.

La suggestione del parco dei mostri di Bomarzio fa da cornice ad uno strano film girato dal regista/produttore Charles Band per la sua Full Moon. Il progetto è ambizioso e velleitario rispetto allo standard da basso exploitation che la casa produttrice fino ad allora ci aveva abituato. Si parte dalla favola di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (riduzione di una versione più lunga e meno celebre della stessa ad opera di Madame Villeneuve) sull’amore impossibile tra la pura e affascinante Belle e la deforme e romantica Bestia, per confezionare un film atipico, sempre in bilico tra sogno e realtà, dalla forte componente erotica, quasi una fiaba per adulti. Il modello filmico è certamente Jean Cocteau e il suo La belle e la Bete del 1946, ma il gran lavoro di make up sulla creatura mostruosa (quasi sei ore di trucco) anticipa di quattro anni quello per il Dracula di Coppola, al quale lo stesso effettista, Greg Cannom, lavorò, e che comunque, anche a livello ispiratorio, ebbe più di un debito con l’opera di Band. Basti d’altronde confrontare la scena (bellissima) dove il principe vampiro, mutato in belva feroce, si accoppia con la rossa Sadie Frost in un amplesso non diverso da quello tra lo stunt Alex Daniels (non l’attore principale Malcolm Jamieson), in versione mostruosa, e la stupenda Sherylin Fenn, per cogliere le somiglianze, almeno concettuali, tra i due film. A collaborare al trucco, visto anche il set italiano, c’è il maestro Rosario Prestopino, storico effettista del nostro bis, autore di tanti capolavori anni 80 da Fulci a Lamberto Bava, purtroppo scomparso all’età di 56 anni nel 2008. E’ verosimile che Meridian sia stato girato anche per bissare il successo televisivo dell’epoca, La bella e la bestia con la “Sarah Connors” Linda Hamilton e il futuro Hellboy Ron Perlman in versione leonina, ma alla fine, nei pregi e nei difetti, l’opera di Charles Band non è uguale a nessun’altra cosa prima: scellerato, sbilanciato, noioso, ma dal fascino indubbio. Sicuramente Meridian è un prodotto costruito sul fascino della Fenn, l’erotica Audrey di Twins Peaks, che di lì a poco sarebbe esploso in produzioni interessanti come Uomini e topi di Gary Sinise e il discusso Boxing Helena della figlia di David Lynch, Jennifer, arrivando a riempire nel 1990 ben 14 pagine del mensile per Adulti più famoso del mondo, Playboy. Meridian è il sogno fatto realtà, le fantasie di ogni maschio dell’epoca proiettate in pellicola, il poter vedere in performance erotiche l’attrice, tanto da rendere necessari i dieci minuti di sequenze dove appare nuda e in pose provocanti, in un film che abbraccia una sensualità tutta patinata e farlocca. Non meno interessante, sul piano voyeuristico, l’altra presenza femminile, Charlie Spradling, già collega della Fenn per Twin Peaks e il cult Cuore selvaggio, anche lei impegnata in focosi amplessi con il belloccio inespressivo Malcolm Jamieson, qui nel ruolo di due gemelli, uno buono e uno cattivo.

Meridian (la tagline “Una fiaba pericolosamente adulta”) venne girato in quattro settimane e mezzo a cavallo tra Umbria e Lazio, con gli esterni nel Parco dei mostri di Bomarzio e gli interni nel Castello di Giove, proprietà di Charles Band fin dal 1986, e scenario di molte produzioni Full moon. Suggestivo visivamente grazie alle riprese di statue giganti dall’indubbio fascino, l’orco che dalla bocca sputa un gruppo di circensi, il drago di pietra, il giardino labirintico pieno di statue di creature mostruose, il film riesce a camuffare una certa povertà di mezzi che si nota soprattutto nelle poche scene di massa. Gran lavoro però di Mac Ahleberg sulla fotografia, innaturale e dai colori fiabeschi, piena di luci coloratissime e nebbie perenni nelle scene dove la bestia, soprattutto nel finale, appare. A musicare il film invece viene chiamato il nostro Pino Donaggio che purtroppo regala una partitura stanca e poco memorabile. Band invece regala la prova migliore della sua modesta carriera, non esente da difetti, ma anche pregiata a livello visivo, con intuizioni di regia a volte non banali. Il problema di Meridian è un altro, purtroppo: il ritmo. In soli 80 minuti di film si sbadiglia e tanto, la storia, tra fantasmi disperati e maledizioni secolari, non convince mai, risulta prevedibile (quando non patetica) anche nelle sue sterzate inedite, e il ridicolo che fa purtroppo capolino più volte. C’è un cattivo uso anche degli attori, che appaiono e scompaiono dallo script senza molta attenzione, e l’idea di un circo maledetto, intuizione bradburiana, viene presto sprecato in un’uso indecente dei clichè, vecchi subito dopo La strada di Fellini. Dispiace che a scriverlo sia stato il grande Dennis Paoli, sue le sceneggiature di Re-animator e Dolls, ma si capisce l’esigenza di Band nel creare in fretta e furia la versione fantasy dei video di Playboy ed essere il primo a svestire Sherylin Fenn. Peccato perchè l’idea di una bella e la bestia hot non è male, ma avrebbe necessitato di più tempo e soprattutto più risorse. Malgrado questo, Meridian resta l’opera più artistica della Full Moon, il film con ambizioni velleitarie più marcate, e uno dei pochi a non far uso dei famosi pupazzoni marchio della casa.

La videocassetta Videogram è abbastanza buona a livello di immagine, ma pecca di avere un doppiaggio indecente che oltretutto riduce la comprensione dell’essere stato girato, in parte, anche in italiano. La versione originale è gustosa, soprattutto nelle prime scene, quando presenta attori non professionisti come il bambino con la zeppola o interpreti americani, come la Spradling, che parlano un italianese incomprensibile. Tutte cose che nell’edizione italiana si perdono ed hanno il culmine nel momento dove la governante chiama in italiano “stellina” la Fenn. Nella versione originale la Spradling chiede all’amica cosa significhi quella parola e questa risponde “little star”, nella nostra videocassetta la giovane sembra un po’ scema perchè ha un dialogo del tipo “Cosa significa stellina?” “Significa  stellina”. La vhs però presenta una chicca non indifferente dopo i titoli di coda, un teaser del film di un paio di minuti e un backstage con interviste ad attori e cast, che rappresentano un interessante documento sulla lavorazione di questa strana e sbilanciata pellicola dall’indubbio fascino.

Andrea Lanza

 Meridian

Titolo originale: Meridian, Kiss of the Beast (aka Phantoms)

Anno: 1990

Regia: Charles Band

Cast: Sherilyn Fenn, Malcolm Jamieson, Charlie Spradling, Hilary Mason, Phil Fondacaro, Vernon Dobtcheff, Alex Daniels, Vito Passeri, Angelo de Bianchi, Salem Badr, Walter Colombaioni, Nashira, Gianluca Tramboni, Fernando Cerulli, Isabella Celani

Durata: 80 min.

vhs: Videogram (VIETATO AI MINORI DI 18 ANNI – INEDITO CINEMATOGRAFICO)

Alla radice del male

10 lunedì Set 2012

Posted by andreaklanza in A, alieni, fantascienza, Full Moon, mostriciattoli, Recensioni di Andrea Lanza, scifi horror

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abel ferrara, alieni, alieni catttivi, andrea lanza, charles band, cinema, donne che si fingono bambine, full moon, muppets, ork, peter manoogian, recensioni, troll, venerdì 13, vhs

La scienza il bene, il male è il mutante

(Dal retro della vhs)

Sulla Fullmoon di Charles Band ci eravamo già soffermati con l’interessante Shadowzone e ci ritorneremo molte altre volte visto l’infinità di titoli che non sono mai sbarcati in altri formati oltre la vhs. Questo Alla radice del male è uno dei tanti titoli usciti a inizio anni 90 dal basso profilo e pieni di terrificanti pupazzoni di peluche a fare la variante horror dei film sui Muppets. Però questo non significa che l’opera di Peter Manoogian, artigiano dalla più interessante carriera come assistente regista, sia brutta, è soltanto un onesto e indolore B movie senza pretese. La storia ricalca pesantemente il capolavoro L’invasione degli ultracorpi di Don Siegal (e per forza anche il bellissimo remake Terrore dallo spazio profondo di Philippe Kaufman) con una cittadina dove, a seguito della caduta di un meteorite, le persone cominciano a comportarsi diversamente, come se qualcosa li avesse privati dei sentimenti umani. La paranoia è dietro l’angolo, anche se la pellicola sembra più interessata alle metamorfosi uomini/alieni che analizzare l’interessante clima complottistico da guerra fredda. I rapporti tra i personaggi sono superficiali, le battute atroci (“Non sono più la tua farfallina accondiscendente” mette subito in chiaro la bella affittacamere Heidi Tucker al suo ex fidanzato, il geologo protagonista) e molte volte le scene si susseguono con un’incoerenza narrativa sbalorditiva. Lo stesso vale per le fondamentali e aristoteliche regole di spazio e tempo della messa in scena: capita che un momento prima è giorno e la sequenza dopo è notte come se il regista non se ne fosse curato in un’atmosfera di disincantata “buona la prima” di edwooiana memoria. A farla da padrone sono gli effetti speciali del grandissimo John Carl Buechler, a sua volta regista di cult come Troll o Ork e del capitolo più scatenato di Venerdì 13, il 7, quello dove il maniaco Jason lottava con una sorta di Carrie lo sguardo di Satana a colpi di machete e poteri ESP. I mostri sono solo tre, creature dall’aspetto di piante mostruose (una strisciante, una con le chele al posto delle braccia e una volante), e ricordano, soprattutto nell’idea di mutarli in un palla rotante, i ben più famosi Critters – gli extraroditori. Lo splatter scarseggia, ma non se ne sente il bisogno in un film debitore e citazionista dei grandi classici della scifi anni 50. L’escamotage del lungo flashback come narrazione, per camuffare probabilmente l’impossibilità di incollare le varie sequenze senza giorni in più di riprese, riesce per assurdo a conferire all’opera un’aria di pulp fantascientifico, prima che il termine pulp si sdoganasse nell’uso comune. Come, sicuramente per caso, avanguardistiche sono le riprese fatte da una bambina con la videocamera amatoriale nei boschi, sussulti imberbi di un genere, il mocku, che oggi va alla grande. Per il resto il film scorre veloce, fa sorridere per le sue ingenuità (“Se hai una pistola non sei un alieno”) e si dimentica altrettanto in fretta. Il regista Peter Manoogian era un mediocre artigiano d’altronde e qui si rinconferma tale, in un film che pecca di una certa paratelevisità della messa in scena. Tra le sue opere, quasi tutte dimenticabili, si possono salvare il divertente e folle Manhattan warrior, una specie di proto Die hard mischiato con I guerrieri della notte, e l’ambizioso Arena, scontri interstellari tra umani e alieni di ogni razza in giochi gladiatori. Tra gli attori si ricorda la bellissima Andrea Roth nei panni regi dell’eroina, interprete ancora attivissima, vista di recente nel truce slasher The collector e nella serie tv Rescue me, e l’anziano caratterista Bernard Kates, morto nel 2010 a quasi ottant’anni, e presenza fissa di tanto cinema e tv.  Holly Fields, la bambina del film (in realtà una ventitreenne anche piuttosto sviluppata), interpretò l’horror Wishmaster 2 di Jack Sholder per poi intraprendere una carriera totalmente inedita di doppiatrice di videogame e abbandonare (quasi) del tutto, senza pianti di nessun fan, la recitazione. Il resto del cast, compreso il simpatico protagonista Sam Hennings, già visto qualche anno prima nell’interessante La regina dell’inferno di Dominique Othenin-Girard, si specializzò nella tv, senza nessuna performance memorabile. La vhs, in un imbelle Dolby B NR, ha una qualità d’immagine abbastanza nitida, fastidioso oltre modo solo il doppiaggio amatoriale senza rumori di fondo, trattamento che gli inediti cinematografici, purtroppo, avevano spesso in quegli anni.

Andrea Lanza

Alla radice del male

Titolo originale: Seedpeople

 Anno: 1992

Regia: Peter Manoogian

Cast: Sam Hennings, Andrea Roth, Dane Witherspoon, Bernard Kates, Holly Fields, John Mooney, Anne Betancourt, David Dunard, Charles Bouvier, Sonny Carl Davis, J. Marvin Campbell, Matt Demeritt, Debbie Lee Carrington

Note: Conosciuto anche come “Dark Forest”, “Sway”.

Disponibile in VHS (label Video Arcadia – VNPRVFX 50783)

Per tutti – INEDITO CINEMATOGRAFICO

VOTO 2/5

Shadowzone – La linea mortale

06 giovedì Set 2012

Posted by andreaklanza in alieni, azione, B movie gagliardi, fantascienza, Full Moon, mostriciattoli, Recensioni di Andrea Lanza, S, scifi horror, tette gratuite

≈ 8 commenti

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“… un film ad alta tensione fantasy, un omaggio ai classici del suo genere…”

(Variety, dal retro della vhs)

La Full moon è la casa produttrice che sorse sulle ceneri della defunta Empire per volere sempre del suo pigmalione Charles Band. Purtroppo non ebbe la capacità di  eguagliare i capolavori del periodo precedente, nessun Re-animator o Dolls a spiccare, ma, almeno nel primo periodo, produsse cose abbastanza gradevoli come la versione erotica de La bella e la bestia, Meridian, o appunto questo Shadowzone – La linea mortale. L’impossibilità di arrivare ad un’eccellenza è forse da imputare alla mancanza di registi/autori o comunque di registi, come Stuart Gordon, che, negli anni 80, furono capaci di fondare una vera e propria scuola, imitata in tutto il mondo, del low budget, con film spettacolari e violentissimi, non secondi a nessuno per la fantasia. Nella Full moon lavorarono un sacco di artigiani come il J. S. Cardone di questa pellicola o come il prezzemolino Ted Nicolau, capaci di portare a casa uno spettacolo ben confezionato, ma senza quel guizzo da rendere il tutto memorabile o almeno cult. Non per nulla questa casa produttrice si è specializzata con l’andare del tempo (è ancora produttiva) nei film diretti in video, soprattutto con bambole assassine come versioni incolori del magnifico Puppet master, titolo culto dell’Empire. Molti di questi titoli furono girati in Italia dove il regista/produttore Charles Band sfruttava il bellissimo Castello di Giove in Umbria di sua proprietà, perfetto teatro per storie dal sapore di gotico horror.

Shadowzone è il primo prodotto della neonata Full Moon, forte della tagline “La nuova onda della Fantascienza”, uno scifi quindi sulla carta debitore dell’immortale cult Alien e invece sottilmente legato alla filosofia del gordoniano From beyond di Stuart Gordon (produzione storica Empire). Qui come lì si parla di un mondo oltre il nostro, un universo sotterraneo, una nuova dimensione mostruosa capace di emergere grazie al nostro subconscio, quello che Goya descrisse con la frase “Il sonno della ragione genera mostri”. Si potrebbe fare un azzardo che Shadowzone sia un proto Event Horizon, lo stupendo scifi hellraiseriano di Paul W. S. Anderson (Resident Evil, Death race 2000, Mortal Kombact) che affrontava un tema non dissimile, ovvero lo scatenare dei nostri incubi nell’avvicinarsi ad una dimensione parallela simile all’Inferno. Qualcuno potrebbe dire, a ragione, che questo plot era stato già proposto nel thriller fantastico Linea mortale di Joel Schumacher con Julia Roberts, Lou Diamond Philips e Kiefer Sutherland, e probabilmente è lì che si può rintracciarne il seme, ma il lavoro di rielaborazione degli elementi attuato da Cardone anticipa come non mai prima il lavoro andersoniano più di ogni altra cosa del periodo. Per il resto Shadowzone è un lavoro onesto, un compitino che stenta ad ingranare, ma quando lo fa è appassionante e riesce a non far sentire più di tanto il budget miserrimo anche quando mette in scena creature dal make up posticcio. Le scene di morte sono abbastanze varie, anche se alla fine lo splatter si limita a secchiate di sangue fuori schermo, e la regia, nella seconda parte è vivace anche nella messa in scena non paratelevisiva.

La trama è semplice: il comandante Hickcok viene chiamato per controllare le cause di una morte sospetta in una base segreta. Lì entrerà a contatto con il progetto Shadowzone che coinvolge due cavie umane, una donna e un uomo, chiuse in una teca e costrette a sognare al fine di avvicinarsi ad una dimensione parallela sconosciuta. Il varcare quella linea d’ombra trascinerà nel nostro mondo un essere capace di rendere carne i nostri incubi…

Si notano con piacere le tette da visione exploitation della bella cavia addormentata, l’attrice Linda V. Carter, tutto sommato nel ruolo immortale di una vita. Il suo personaggio ricorda a grandi linee, soprattutto per stare in scena perennemente nuda in un contesto fanta horror, l’immortale vampira Mathilda May del cult movie hooperiano Space vampires. Il corpo della Carter, uno spettacolo della natura, si meriterebbe un post tutto dedicato a lei, cosa che non escludo in un futuro speciale sulle caratteriste nude del cinema oscuro, da Linnea Quigley a Tracy Lords. Non male neanche la bionda Maureen Flahert nei panni di una dottoressa con il pallino per le scimmie. Peccato la storia la liquidi troppo in fretta sprecando un’attrice molto bella, materia vitale in un cinema horror di serie B che vive di carne e sangue, cugino degli umori sessuali dell’hardcore.

Il cast è abbastanza ricco per una produzione tutto sommato povera, girato in gran parte in studio. In primis abbiamo la grande Louise Fletcher di Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman purtroppo sprecata in un ruolo non troppo ben scritto, interpretato giustamente sottotono e senza molta convinzione. Ad affiancarla il sempre efficace James Hong, il Lo Pan dello sfortunato Grosso guaio a Chinatown di John Carpenter e di cento altri film americani dove appaiono comunità orientali. Oltretutto il buon Hong è il regista dello scriteriato, folle e geniale Vineyard (L’immortale) che vi promettiamo recensiremo il più presto possibile, esempio impossibile di un cinema miserabile che cercava di unire tradizioni occidentali con quelle orientali, talmente scombinato nella sua concezione da fumetto porno horror da essere genio puro.

Il resto del cast, a cominciare dal legnoso protagonista David Beecroft, non fece niente di tanto notevole da essere ricordato.

Shadowzone uscì in Italia in vhs per la Videogram, una vhs dignitosa come qualità d’immagine e potente, all’epoca, per l’audio in HI-Fi sound stereo. Per il resto solito fullscreen e doppiaggio raffazzonato senza, purtroppo, rumori di fondo.

Un film comunque dignitosissimo che regala una serata scacciapensiero di indubbio divertimento.

Andrea Lanza

Shadowzone

Anno: 1990

Regia:    J.S. Cardone

Cast:    Louise Fletcher, David Beecroft, James Hong, Frederick Flynn, Shawn Weatherly, Miguel A. Núñez Jr., Lu Leonard, Maureen Flaherty, Robbie Rives

VHS: Videogram (vietato ai minori di 14 anni, inedito cinematografico)

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