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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Bloody Nightmare

06 mercoledì Gen 2021

Posted by andreaklanza in B, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni, tette gratuite, tette vintage, thriller

≈ 5 commenti

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Betsy Russell, bloody nightmare, cheerleader camp, George 'Buck' Flower, high show, John Quinn, Leif Garrett, Lorie Griffin, Lucinda Dickey, Rebecca Ferratti, Teri Weigel, Travis McKenna, Vickie Benson

Bloody Nightmare era uno dei tanti titoli curiosi che si nascondevano, in pieno boom delle vhs, nei polverosi cataloghi dei film a noleggio. Troppo povero, poco famoso, eccessivamente sgarruppato per ambire all’esposizione aurea dei grandi titoli a noleggio come i Predator, i Die Hard, le mitiche “stallonate” o i sospira movie alla Julia Roberts. Certo, in quella sala di numeri 1, di star pagate miliardi e di produzioni così splendide che i film te li guardavi non una ma cento volte prima di riportarli al mittente, si intrufolava goliardicamente a mò di guappo guascone anche il nostro Bruno Mattei quando nel presentare il suo Shocking dark lo ribattezzava Terminator 2. Anche in quel caso, con un film che faceva schifo persino a Cristo delle montagne nevose, ingoiavi il rospo amaro, sorridendo da brava boyscout dalle sette medaglie, non senza però maledire James Cameron, li mortacci sua, che poretto non c’entrava nulla. Ah, meravigliosi i tempi d’ignoranza pre internet!

Ecco che Bloody Nightmare era il film disgraziato, la vhs con una copertina italica abbastanza bruttina che strillava: “Corpi conturbanti orribilmente trasformati in cadaveri“. Neanche il più sciamannato cinefilo made in Burkina Faso l’avrebbe forse noleggiato. Nell’aria, come la primavera e l’odore rustico di letame di campagna, aleggiava l’aroma di brutto film con l’aggiunta di un (probabile) pessimo doppiaggio italiano. Lo editava però la gloriosa Deltavideo che aveva dato i natali ad Aenigma di Fulci, In una notte di chiaro di luna di Lina Wertmüller, un tostissimo melodramma con Rutger Hauer e Nastassja Kinski, la bellissima Nastassja Kinski, e ovviamente il padre delle follie post Evil dead, Spookies di Thomas Doran, Brendan Faulkner e Genie Joseph. Questo non bastò però per salvare Bloody Nightmare da un’esistenza all’interno dei cataloghi delle vhs più infami, senza una custodia fisica, solo con le locandine da sfogliare. Bellissimi piccoli mostri per cinefili suicidi e ingordi.

Cheerleader Camp, girato col titolo di lavorazione di Bloody Pompon, si chiamò solo da noi Bloody Nightmare, un titolo palesemente acchiappagonzi in puro stile Freddy Krueger. In effetti il film di John Quinn aveva questa strana sottotrama onirica che vedeva la protagonista, una stralunata Betsy Russell, avere terribili incubi nei quali uccideva crudelmente le sue amiche/colleghe. Però il richiamo alla saga di Nightmare era davvero labile anche se, almeno in un momento, il risveglio con una mannaia insanguinata in mano all’eroina, l’omaggio al capitolo 2 di Elm street, a firma Jack Sholder, è tangibile. Restano però, a onore del titolo italico, dei sogni davvero sanguinosi che rendono, per lo meno, Bloody Nightmare uno slasher anomalo, sulla scia del più riuscito, almeno a livello di atmosfera, Dreamaniac di David DeCoteau.

Cheerleader Camp è uno strano ibrido tra la commediaccia alla Porky’s e il thriller violento alla Venerdì 13: da una parte abbiamo una sequela incredibile di nudità gratuite delle generose e bellissime protagoniste, dall’altra omicidi sanguinosi e graficamente efferati. Tutto questo ovviamente frammentato dagli scherzi goliardici di un molesto ciccione che, fin dalle prime scene, mostra le chiappone gargantueliche alle ragazze e poi si traveste, come fossimo in un cartone animato Warner VM18, da cheerleader oversize per meglio spiare le future vittime del killer. Nude ovviamente.

Inutile dirlo: Bloody Nightmare è molto divertente, ma anche molto cretino. L’identità del killer, come scrive anche il sommo Rudy Salvagnini nel suo Dizionario del cinema horror, è un segreto di pulcinella, la si intuisce subito, ma non è questo il punto. Bloody Nightmare è uno spasso anche quando si rivela una cazzatina, fa ridere, è violento, osa come nessun esponente del genere ha mai fatto con tette e culi, è, in parole povere, l’eiaculazione dell’adolescente sulle foto dell’amica, la sborrata catartica, il vaffanculo al metatesto, un horror drive-in che ti piaceva a 16 anni con i calli sulle mani e che, a 44 anni, ti fa applaudire malgrado ” le donne, il tempo ed il governo”.

John Quinn gira palesemente distratto. È alla sua opera prima ma in futuro non farà di meglio. Posiziona la telecamera sbilenca nelle scene oniriche per darsi un’aria alla Wes Craven, ma non ha idea né di cosa sia il ritmo né di come si tagli una scena, col risultato che più volte il film prosegue per inerzia, tipo porno, alternando le tette della futura pornostar Teri Weigel (Masturbation Nation 5, Anal Obsession e l’imperdibile American Bukkake 7) a forbiciate selvagge che penetrano nella nuca delle vittime per uscire dalla bocca devastata. D’altronde il nostro John Quinn girerà, solo qualche anno dopo, La fantastica avventura dell’orso Goldy, in maniera assolutamente identica a questo film, alla cazzo di cane, con scene nate e morte senza nessun criterio logico.

A scrivere l’opera ci pensano lo sconosciuto R.L. O’Keefe, alla sua unica prova artistica, e David Lee Fine, più famoso come tecnico del suono e artefice di un altrettanto follia, questa volta messicana, Demonoid (1981) di Alfredo Zacarías.

Il cast ovviamente è pieno di cagnacci, uomini senza arte né parte e ragazze belle da ammirare ma atroci come attrici. Tra queste bellezze, come detto tutte strepitose a livello estetico, si distinguono, almeno per il loro curriculum vitae da film degenere, Betsy Russell, Rebecca Ferratti e Lucinda Dickey. La prima, la futura moglie del killer enigmista di Saw, la si ricorda soprattutto per il giovanile American College con Phoebe Cates e Matthew Modine nel quale si spoglia nuda a cavallo. La seconda la si era vista nei due Gor, fantasy dove la nostra spiccava con selvaggia bellezza in costumi striminziti, mentre Lucinda Dickey aveva interpretato i meravigliosi Breakdance e il mai troppo lodato horror ninja Trancers. Una menzione d’onore poi per Lorie Griffin, in Bloody Nightmare certamente messa in ombra dalle sue colleghe, ma solo 3 anni prima, nel 1985, capace di accendere gli ormoni del licantropo Michael J. Fox in Voglia di vincere.

C’è da dire che, per chi scrive, l’idea di un horror a tema cheerleaders è sempre vincente, qui come nel più recente, bellissimo e gore, All cheerleaders die di Lucky McKee.

Bloody Nightmare è uscito in dvd in tempi recentissimi per la nuova casa High Show, in versione numerata a 500 copie, un video formidabile che mette a riposo la scura vhs, un poster che riproduce la locandina originale, e ben tre lingue, italiano, inglese e tedesco, tutti 2.0. Non si poteva chiedere altro per uno scult del cinema slasher, misconosciuto e divertente, ardito e imbecille, l’ideale per ogni cinefilo con il sangue guerriero, pronto ad affrontare ogni temeraria impresa filmica.

Per noi di Malastrana comunque, se non lo si era capito, solo amore per Bloody Nightmare!

Andrea Lanza

Bloody Nightmare

Titolo originale: Cheerleader Camp

Anno: 1988

Regia: John Quinn

Interpreti: Betsy Russell, Leif Garrett, Lucinda Dickey, Lorie Griffin, George ‘Buck’ Flower, Travis McKenna, Teri Weigel, Rebecca Ferratti, Vickie Benson, Jeff Prettyman, Krista Pflanzer, Craig Piligian, William Johnson, Kathryn Litton, Tom Habeeb (Tommy Habeeb)

Durata: 89 min.

Nightmare Symphony (The peacock’s tales)

11 venerdì Dic 2020

Posted by andreaklanza in N, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni

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Antonella Salvucci, antonio tentori, Blid Budakova, Edi Hasan Lushi, Federico Di Pasquale, frank laloggia, Halil Budakova, Irene Baruffetti, lo squartatore di new york, lucio fulci, Merita Budakova., nightmare symphony, Pietro Cinieri, Poison Rouge, un gatto nel cervello

“Hitchcock ha inventato il brivido, Fulci l’ha perfezionato“. Così si lanciò, con grande impeto e strilli da venditori di fumo, Un gatto nel cervello, il parto più folle, anticommerciale e sgangherato di un autore che, nel 1990, stava collezionando le peggiori prove registiche della sua carriera. Arrivò prima al cinema, in piena estate, poi dritto dritto in vhs, distrutto nel suo metafilmico finale, questo strano horror Frankenstein, girato riutilizzando pellicole scadenti di una serie tv mai uscita all’epoca, “Lucio Fulci presenta“, un guazzabuglio di brutte pellicole di vari autori. Un gatto nel cervello viene dopo l’atroce Demonia e la sua fotografia sovresposta, un periodo fatto di opere anche interessanti ma mortificate da produzioni terzomondiste, incapaci di poter realizzare al pieno i sogni, anzi gli incubi, di Fulci. Così Un gatto nel cervello è diventato, contestualizzandolo successivamente, un 8 e mezzo horror, un intellettuale gioco tra i fan e lo stesso Fulci, un grido d’orgoglio del regista romano che, come nella sua lunga intervista con Antonella De Lillo, ribadisce che esiste e fa ancora cinema. Certo è un cinema diverso sia dai suoi thriller anni 70 e dai suoi horror della prima metà anni degli anni 80, ma è sempre qualcosa di profondamente fulciano anche nei risultati disastrosi perché Fulci non riesce a depersonalizzarsi. Il lepre, il suo tocco, è tangibile anche in pellicole da contrabbando, criminali e nocive alla salute mentale dello spettatore incauto, lo stesso che l‘8 Agosto del 1990 decise di chiudersi in un cinema a vedere la perfezione del thriller hitchcockiano con i Cristi e le Madonne annesse, a visione ultimata. Come il Joan Lui di Adriano Celentano, siamo davanti ad un cinema troppo avanti anni luce forse per essere compreso nella sua totalità.

In America Un gatto nel cervello è conosciuto come Nightmare concert e vanta una strana aurea di cult movie partigiano. Non che tutto sia sbagliato: per esempio l’ottima colonna sonora di Fabio Frizzi, è una tra le più riuscite e d’atmosfera della sua collaborazione col maestro romano, e poi, ovviamente, c’è Fulci, magnifico, doppiato come fosse un attore straniero, perfetto nel non ruolo di Fulci tra la leggenda e la realtà. E’ un film sbagliato questo sì ma a suo modo adorabile, testamentale più di un incolore Fulci for fake.

Facciamo un passo avanti però da quel 1990 e spostiamo la lancetta della macchina del tempo di Martin McFly trent’anni dopo, in questo strano 2020 fatto di cinema chiusi e pandemie globali. Il cinema italiano del terrore da quell’8 Agosto ha compiuto passi, anzi ha compiuto l’ultimo passo, il più atroce, è morto. L’ultima pellicola che segna un passaggio tra il Pianeta delle scimmie e la zona proibita è Dellamorte Dellamore di Soavi, dopo, perché esiste un dopo, è un cinema clandestino e zombi, qua e là ravvivato da produzioni più ricche come lo Shadow di Federico Zampaglione, ma assolutamente incapaci di essere una scintilla che genera prima un fuoco poi un incendio. Il cinema horror italiano è una terra di morti viventi, un terreno arido e sterile percorso, per la maggior parte, dai sogni di studenti mediocri o da vecchie mummie leggendarie, siano Pupi Avati o Ruggero Deodato che riposino in pace, incapaci di non solo rinnovarsi ma anche solo di ripetersi con entusiasmo.

Nightmare Symphony arriva come una buona novella, accompagnato da un gagliardissimo e stiloso trailer che omaggia appunto Nighmare Concert. Un’operazione sulla carta fuori tempo massimo, ma dal grande fascino, ora più che nel 1990, con la fama di Fulci così cresciuta e sdoganata da essere oggetto di discussione persino nei circolini critici ad un passo dal Dams.

Ma ha senso un omaggio, un reboot, un sequel di un film che viveva soprattutto in virtà del suo attore/autore?

Nightmare Symphony, scritto dallo stesso sceneggiatore dell’epoca, Antonio Tentori, è un’operazione diversa, più complessa del semplice rifacimento. E’ sicuramente un omaggio al cinema di Lucio Fulci, soprattutto il violento Lo squartatore di New York. A incarnare il protagonista però stavolta è Frank LaLoggia, autore di un film cult degli anni 80, Scarlatti il thriller (Lady in white), un regista sul viale del tramonto chiamato, per girare in miseria, un horror incentrato sui delitti di un killer travestito da pavone, The peacock’s tales. Ecco quindi che il metacinema è servito con il parallelismo tra il personaggio principale e la controparte fantasiosa, un cortocircuito che viene ampliato anche dall’uso di spezzettoni di Fear No Evil, opera prima di LaLoggia. Se Un gatto nel cervello era però un’opera di taglia e cuci commercialmente autoriale, Nightmare Symphony non usa, se non in un piccolo momento, lo stesso schema di antologia anomala. In questo l’operazione acquista una certa originalità: non è Nightmare concert, è un altro film che amplia, potenzia e sublima i concetti dell’opera fulciana, non un film su Fulci, un mero esercizio di stile e partigianeria, ma un film anche su Fulci, che parla del cinema e della sua morte. Frank LaLoggia, forse più di Lucio Fulci, è un sopravvissuto, un artista ambizioso che si spinge in Kosovo per girare un film e trova solo ostacoli, un budget ridotto all’osso mentre sceneggiatori e produttori cercano di castrare la sua creatività.

Siamo davanti al Vertigo del cinema indipendente: sembra un’opera più ricca di quella che è, elegante, baciata da lampi di luce da cinema chirurgico alla David Cronenberg. Nightmare symphony con i personaggi che interpretano loro stessi, con i doppi ruoli, con le bionde vittime sacrificali che si tramutano in more orchesse, amorevoli e spietate, si presenta come un Brian De Palma intento a stuprare Hitchcock e, per rifarci allo strillo iniziale, a stuprare di riflesso anche Fulci, il perfezionatore di quel tipo di thriller.

Domiziano Cristopharo e Daniele Trani girano un’opera sulla carta commerciale che si rivela essere, nel finale, quel bellissimo finale alla Aldilà, un horror cerebrale e complesso, con un discorso non banale sul gioco dei ruoli e delle parti, come si trattasse di un lavoro tratto da Jorge Luis Borges.

Nightmare Symphony calca la mano sì sullo splatter, ma, a differenza di Un gatto nel cervello, non dimentica la forma e la composizione degli omicidi, freddi come quadri viventi di Robert Wilson. Convince il look del serial killer con la sua maschera da agghiacciante pavone, e l’idea, proprio da thriller anni 70, alla Sette orchidee macchiate di rosso, della piuma deposta sui cadaveri dopo ogni delitto.

Convincono anche le musiche, stupende quelle di Fabio Frizzi dell’epoca, funzionali ed efficaci quelle di Antony Coia. Gli attori, compresi anche i non attori come lo sceneggiatore Antonio Tentori, sono tutti perfettamente in parte nei ruoli da totentanz funebre. Spicca tra tutti Antonella Salvucci, straordinaria e cameleontica, bellissima e perfetta in due ruoli di donna così diversi e diversificati.

Come Hitchcock (o Fulci) il regista Christopharo appare in un cameo: è l’uomo nel bagno che incrocia la brava e sfortunata Poison Rouge, lì lì per essere massacrata come nell’intro di Zombi 3.

Nightmare Symphony uscirà il prossimo anno in home video per la Tetro video, casa specializzata in horror estremi. Io vi consiglio di non perderlo, poi mi direte voi.

Andrea K. Lanza

Nightmare Symphony (A Peacock’s tales)

Regia: Domiziano Cristopharo

Sceneggiatura: Antonio Tentori (da un’idea di Domiziano Cristopharo)

Interpreti: Frank LaLoggia, Antonella Salvucci, Antonio Tentori, Poison Rouge, Pietro Cinieri, Irene Baruffetti, Federico Di Pasquale, Blid Budakova, Edi Hasan Lushi, Halil Budakova, Merita Budakova

Durata: 78 min.

La guerra di Stryker

06 lunedì Lug 2020

Posted by andreaklanza in G, Recensioni di Danny Bellone, slasher, splatteroni, War movie

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bruce campbell, evil dead, guerra di stryker, Josh Becker, sam raimi, Thou shalt not kill except…

Era da tanto tempo che non recensivo un film, ma stavolta ho deciso di ribattere di nuovo le lettere della mia tastiera per un film tra i più infimi, di quelli della categoria B, ma che può far tranquillamente parte anche dell’ultima, della Z.

Vi sto parlando di Thou shalt not kill…except ! arrivato alla nostra penisola come La guerra di Stryker, per la regia di Josh Becker. Ci sono tante, troppe cose da dirvi su questa pellicola, che per chi come me è appassionato di cinema underground è un piccolo gioiellino da visionare assolutamente. La trama è abbastanza semplice: guerra del Vietnam, durante uno scontro a fuoco un giovane di nome Stryker si becca due pallottole nella gamba, ma riesce miracolosamente a sopravvivere e a ritornare in patria. Divenuto sergente, ma rimasto sfortunatamente zoppo, decide di ritirarsi a vita privata in un bosco insieme al suo cane Whiskey, la fidanzatina Sally e il nonno di quest’ultima, Otis. Il mondo attorno a lui però sembra cambiato irrimediabilmente: droga, delinquenza e disagio generale la fanno da padroni, forse era meglio rimanere in Vietnam!

Non molto tempo dopo l’essersi ristabilito e aver ritrovato un certo equilibrio (nonostante il bastone per camminare), Stryker subisce in prima persona l’effetto negativo di questo cambiamento, venendo preso di mira da un gruppo di hippies satanisti (molto simili a quelli de La rabbia dei morti viventi aka I drink your blood) capitanati da un pazzo senza nome, capellone e dai denti mancanti e marci, ancora più feroce e sanguinario del vecchio Charlie Manson.

Questo plotone di assassini allucinati uccide e scuoia il cane di Stryker, gli rapisce la ragazza e massacra il nonno usandolo come bersaglio per le freccette. Per la serie “cornuto e mazziato” il povero soldato non si perde d’animo e si trova costretto a fronteggiare questi inaspettati nemici. Fortuna per lui, i compagni d’armi di Stryker, tornati a casa dopo la guerra e anch’essi investiti dall’ondata di disagio americano post bellico, tra una bottiglia di Jack e l’altra decidono di dargli una mano recuperando i vecchi attrezzi del mestiere, ossia fucili e granate, che il buon Stryker teneva conservati in un baule sotto il letto. Giustamente, non si sa mai…

I quattro si ritrovano quindi sul campo di battaglia, di nuovo, ingaggiando una lotta all’ultimo sangue con i numerosissimi adepti della setta hippie, che ormai ha preso base non molto lontano dalla casa del protagonista. Riusciranno i nostri a salvare la ragazza di Stryker e a sgominare la banda di cattivi ma soprattutto il loro “cult leader”?

Ehm…io so come va a finire, ma ovviamente non voglio rovinarvi il finale, anche se sono straconvinto che qualcuno di voi sospetta e si aspetta già come finirà questa storia tutta ammeregana!

Ma passiamo alle chicche riguardanti questo filmazzo:

inizialmente La guerra di Stryker è stato concepito come un cortometraggio, interpretato nientepopodimenoche dal nostro Bruce “Ashy slashy” Campbell, che nel film stavolta è solo autore del soggetto. Ebbene si da il caso che questo film è stato girato e interpretato da un gruppo di amici amanti del cinema, del sangue finto e delle situazioni bizzarre, quello stesso gruppo di amici che aveva già lavorato per un certo film chiamato La casa o The evil dead, diretto da Sam Raimi. Proprio quest’ultimo infatti interpreta il capo degli hippies ne La guerra di Stryker, uno sporco uomo dedito a qualsiasi tipo di nefandezza. A un certo punto dice addirittura di essere Gesù Cristo incarnato!
Siìdai, un po’ lo è in effetti, lo veneriamo tutti per quei movimenti di camera, quelle motoseghe, quegli occhi bianchi…ma non esageriamo e non andiamo oltre, stiamo parlando di Stryker e della sua guerra!

Il film è senza infamia e senza lode: nonostante sia un low low budget movie risulta ben girato, anche se ovviamente si avverte una certa amatorialità, ma questi film mi piacciono proprio per questo, quando nonostante i pochi mezzi capisci che dietro c’è tanta passione e tanto divertimento. Datato 1985, e interpretato dagli amici di Raimi, del produttore Spiegel e del regista, la pellicola si presenta come “pulp”, ovvero minimo comun denominatore il sangue, a fiumi, gratuito, che schizza da una ferita di proiettile o di un’arma da taglio sul viso dei protagonisti.

Con una buona colonna sonora tipica dei film di guerra, Il tutto è condito da situazioni drammatiche, d’azione e a volte anche comiche, in puro stile “gli amici di Raimi”. Unendo tutti questi elementi otteniamo la polpa, rossa e grondante di emoglobina, e quindi a mio avviso un prodotto a prescindere da tutto, tranquillamente godibile per gli amanti del Rambo style e dello splatter intransigente.

Attenzione! Non pensate minimamente di aver trovato il film della vita, o di dire agli amici “Non l’hai visto? Nooooo sei un pazzo…”! Forse questo filmaccione interessa più a me che al regista, ma per ogni amante dei b-movies, dell’ action e degli avventurosi bagnati di rosso, questo film è da recuperare assolutamente. La cosa curiosa del titolo italiano del film è che sarebbe la traduzione del suo titolo originale, poi scartato e rimpiazzato con quello attuale, quindi da Stryker’s war a Thou shalt not kill…except che vuol dire letteralmente “Non uccidere…eccetto/tranne che” .

Mi chiedo io, eccetto cosa? Tranne che? Dobbiamo rispettare il comandamento eccetto? Eccetto uccidere gli hippies o uccidere Sam Raimi?
Ovviamente non ci è dato saperlo, a meno che non scriviamo al regista Josh Becker per chiederglielo, oppure, se siete abbastanza pigri potete andare anche per libera interpretazione.

Sono venuto a conoscenza di questo film grazie alla mia preziosa “Guida al cinema splatter” e l’ho cercato per tanto tempo. Si da il caso che fa parte di quelle pellicole dimenticate da tutti, ma che grazie ad altri appassionati sono riuscito a recuperare, in una versione di tutto rispetto.

Anche se solo nel prologo di quindici minuti vengono mostrate scene della guerra in Vietnam, il film è passato in Italia come un war movie e distribuito in solo supporto VHS (anche se si parla di qualche passaggio televisivo, un bel po’ di anni fa) per la Eagle home video, casa di distribuzione home video italiana che ci ha regalato perle senza tempo quali Il bosco 1, La casetta degli orrori e Delirio – killing spree. Per i feticisti del nastro, vi posso dire che La guerra di Stryker è stato messo in commercio in Italia col “doppio doppiaggio”, ossia che sentirete sia le voci italiane e, in sottofondo, basse basse, anche le voci in lingua originale, un aspetto che lo rende super trashy al punto giusto. Ah la distribuzione nostrana anni novanta…

Danny Bellone

La guerra di Stryker

Titolo originale: Thou shalt not kill except…

Anno: 1985

Regia: Josh Becker

Interpreti: Robert Rickman, John Manfredi, Timothy Patrick Quill, Sam Raimi, Cheryl Hausen, Perry Mallette, Dandy, Rick Hudson, Pam Lewis, Jim Griffen, Theo Kruszewski, Connie Craig, Ivitch Fraser, Terry-Lynn Brumfield, Ted Raimi

Durata: 84 min.

La casa delle ombre lunghe

03 venerdì Lug 2020

Posted by andreaklanza in C, capolavori, casa delle ombre lunghe, Recensioni di Luca Caponi, slasher

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casa delle ombre lunghe, christopher lee, House of the long shadows, Norman Rossington, pete walker, peter cushing, vincent price

“Giri a sinistra fuori dalla stazione, due miglia e poi giri a destra all’incrocio. Segua sempre dritto. Il maniero maledetto le apparirà allora nella sua tragicità”.

Con queste indicazioni, che ai più potrebbero rimembrare le strofe iniziali de L’isola che non c’è di Edoardo Bennato, inizia l’avventura tragicomica che vedrà il nostro protagonista catapultato in una sorta di “Story within a story”.

Kenneth Magee è un giovane rampante scrittore dalle sembianze yuppie: giacca e cravatta, capelli cotonati con taglio alla “mullet”, barba ben curata. Se la pellicola fosse ambientata nella Milano da bere anni 80, rappresenterebbe il classico stereotipo del Paninaro.

E se un paninaro fosse il protagonista di un gotico?

Cinico al punto giusto, si troverà impelagato in una scommessa, alla quale il suo ego smisurato, non potrà tirarsi indietro: scrivere un romanzo nel tempo limite di 24 ore all’interno di un vecchio maniero in aperta campagna, disabitato da quarant’anni.

Pellicola basata totalmente sui dettami e i clichè del genere gotico anni ’60-’70, è un’opera che sorride ad un horror ormai posticcio e datato, quasi ritenuto ingenuo, come il Ciclo di Corman-Poe o i film della Hammer, per aprire a nuove mode, tendenze e commistioni. Consideriamo infatti, che la casa di produzione è una costola Made in England dell’ Americana Cannon Films, colpevole di aver prodotto film come The Corpse nel 1971 o Godsend nel 1980.

La trama richiama la classica scommessa già vista in film come La casa dei fantasmi del 1959 o Danza macabra del 1964. Ad attendere il nostro protagonista, oltre ad un insolito ed improvviso acquazzone già visto in Il castello maledetto del 1932 o in The Rocky Horror Picture Show del 1975, troveremo due stagionati custodi dai modi burberi e per nulla ospitali intenti a nascondere una sorta di oscuro segreto.

Con il calar delle tenebre, una giovane ragazza e tre loschi figuri si recheranno alla dimora apparentemente abbandonata. Ognuno porterà con sé misteri e bugie che solo a metà dell’opera saranno in parte svelate.

Se per la prima durata della pellicola, si poteva sospettare che il gruppo di ospiti fossero fantasmi o appunto “ombre” come il titolo prova a suggerirci, la scoperta di una camera sigillata contenente un maniaco rinchiuso per oltre quarant’anni in isolamento, stravolge le nostre considerazioni e ci proietta verso uno svolgimento di trama più realistica, dissipando ogni tipo di dubbio riguardo i presenti.

Veniamo a scoprire che gli invitati appartengono alla stessa famiglia. Una famiglia che possiede da secoli, un malsano obbligo morale di condannare i propri componenti se questi commettono reati.

Coincidenza del fato, il prigioniero scappa e inizia a seviziare i malcapitati presenti.
Le morti si susseguono a metà strada tra L’ombra del gatto (1961) e Dieci piccoli indiani (1945); non manca di certo la componente gore: assisteremo ad un omicidio con il vetriolo che ricorda Il castello maledetto del 1963.

Il preludio al finale stravolge ulteriormente i ruoli, rimischiando totalmente le carte in tavola e lasciando gli spettatori (come direbbe Renè Ferretti) totalmente basiti.

Il risultato è un’opera tragicomica che mette in scena, sullo stesso palco, antiche glorie del passato, con neofiti attori semisconosciuti che non reggono il confronto. Gli stili di recitazione vanno a cozzare, quasi come fosse una lotta generazionale o tra due sottogeneri in conflitto: tra chi vuol mantenere la corona e chi vuol far abdicare la vecchia guardia. La presenza della sacra trinità hammeriana (Peter Cushing, Vincent Price, Christopher Lee), utilizzata come cornice, anche se lascia ammutoliti gli spettatori per il registro aulico che utilizza, non basta: le nuove leve, che qui ricoprono ruoli principali, non raccoglieranno il testimone ed abbandoneranno il cinema, di lì a poco.

Così, come accadde per il ciclo Universal, in cui le vecchie glorie di Karloff, Lugosi e Lon Chaney Jr. venivano ripescate come parodie di loro stessi a reinterpretare quei vecchi ruoli prima autorevoli, ormai privati di qualsiasi forma orrorifica nelle commedie di Abbott e Costello (da noi Gianni e Pinotto); anche qui, lo zoccolo duro della Hammer, si presenta come siparietto aulico che si accosterebbe perfettamente con una puntata di Scooby-Doo, ambientata in un’anonima casa stregata.
E’ un film che, come fu per Il cervello di Frankenstein, disgrega tutti i canoni che avevano guidato l’orrore su celluloide fino a quel momento per poi rimodellarli in chiave satirico-grottesca.

Questa operazione non può che far da spartiacque tra due ere: rappresenta le Colonne d’Ercole per artisti dal calibro di Vincent Price, che da film come La tomba di Ligeia, si ritroverà in pellicole dal calibro di Il Club dei mostri. Senza nulla togliere a quest’ultimo, ma giusto per far riflettere su come il modo di intendere l’orrore fosse cambiato nel tempo: ormai la casa stregata e il nobile che la ospitano non spaventano più. Non dopo aver assistito alle immagini di guerriglia provenienti dal 38° parallelo o dopo aver contemplato gli effetti del napalm sulle persone durante la guerra in Vietnam.

E mentre la società e il cinema horror cambiano influenzandosi reciprocamente, allo stesso tempo, rimodellano i gusti oggettivi degli spettatori: il New Horror (nato ormai da circa 15 anni prima dell’uscita de La casa dalle ombre lunghe) detta nuove leggi su ciò che deve spaventarci, e le immagini proiettate tramite tubo catodico direttamente all’interno delle sicure dimore, ci mostrano come la realtà spaventi molto di più che una sceneggiatura fittizia, seppur realistica.

Luca Caponi

La casa delle ombre lunghe

Titolo originale: House of the long shadows

Anno: 1983

Regia: Pete Walker

Interpreti: Vincent Price, Christopher Lee, Peter Cushing, Desi Arnaz Jr., John Carradine, Sheila Keith, Richard Todd,Julie Peasgood, Louise English, Richard Hunter, Norman Rossington

Durata: 102 min.

Nightmare Beach – La spiaggia del terrore

16 martedì Giu 2020

Posted by andreaklanza in N, Recensioni di Andrea Lanza, slasher

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alex rambaldi, james justice, la spiaggia del terrore, nightmare beach, vittorio rambaldi

“Fui subito in contrasto con il produttore americano, in quanto ritenevo la storia troppo simile a quella del mio Sette orchidee macchiate di rosso per cui, già prima di cominciare, stabilimmo che non avrei firmato il film e, una volta terminate le riprese, lo avrei lasciato al suo destino. Si è trattato di un mero apporto tecnico: Nightmare beach (La spiaggia del terrore) è da considerarsi a tutti gli effetti un’opera di Harry Kirkpatrick, simpatico sceneggiatore che abita in Florida e con il quale ebbi cordiali rapporti“.

(Umberto Lenzi intervistato da Luca M. Palmerieri e Gaetano Mistrella per “Spaghetti Nightmare – novembre 1998 – M & P edizioni)

Ah che cosa sublime il cinema di genere! Pure quando i mezzi non c’erano e si annaspava agonizzando verso la morte certa.

Abbiamo parlato un paio di giorni fa di Rage – furia primitiva e nel citare questo Nightmare beach – La spiaggia del terrore le nostre parole non sono state proprio gentili. “Fratello scemo” si è usato per descrivere una pellicola girata back to back con quella sorta di Demoni 2.0 che era appunto l’horror virale di Vittorio Rambaldi.

Se Rage puntava al gore e allo splatter più viscerale, Nightmare beach tentava un’operazione diversa, più sottile, forse ardita: trasportare il nostro thriller argentiano, anzi d’imitazione argentiana, nel panorama slasher alla Venerdì 13. Ne usciva un’opera sbilenca, piena di difetti, ma anche, rivista dopo tanto tempo, preziosa e unica.

Gira stavolta Umberto Lenzi, uno dei nostri registi più ruspanti e sanguigni, anzi NON GIRA visto che, fino alla sua morte sopraggiunta purtroppo il 19 Ottobre 2017, ha giurato e spergiurato di non avere nulla, o quasi, a che fare con questo film. Salvo poi dichiarare a Nocturno “Le cose per quanto riguarda Nightmare Beach andarono in questo modo: era un film che io ho girato ma alla fine delle riprese ho lasciato tutto in mano alla produzione perché non volevo né vedere né sentire più nessuno”.

Quindi nessun Harry Kirkpatrick come i credits affermano, ma solo il lavoro di Umberto Lenzi, negato, odiato, troppo simile nella risoluzione al classico Sette Orchidee macchiate di rosso. Ad aiutarlo troviamo il poco celebre James Justice, autore di tre sceneggiature, Rage, Nightmare beach e un tv movie del 2006, Lesser Evil. Probabilmente è a lui che Lenzi si riferisce quando afferma che Harry Kirkpatrick era lo pseudonimo di “un simpatico sceneggiatore che abitava in Florida” e con il quale collaborò nella pellicola.

Eppure nella regia svelta, nei dettagli, nel ritmo indiavolato, molto di più che in ogni slasher scaturito davvero in suolo americano, si percepisce prepotente la mano del regista di cult horror come Cannibal ferox, Incubo sulla città contaminata o dei meravigliosi polizieschi alla Napoli violenta degli anni 70. Certo la sceneggiatura perde se confrontata con quella scritta dallo stesso regista con Roberto Gianviti per il giallo gagliardo del 1972 Sette Orchidee macchiate di rosso, del quale però, sia dato atto, “copia” solo il colpevole, a sua volta depredato da Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci scritto, tra gli altri, dallo stesso Gianviti. Un cinema uroboro quindi che cannibalizza la propria forma in nuove riletture di sé stesso, digerite, vomitate, assorbite nei decenni.

C’è da dire però che Nightmare beach, sorta di folle incontro tra lo slasher e il cinema balneare alla Dove stanno i ragazzi di Hy Averback, ha idee potenti da vendere, soprattutto quando il sole cala e il nostro killer ha sete di sangue. L’idea di una motocicletta con incorporata una sedia elettrica è di quelle che fanno trasalire per il genio pulp: una cosa che poteva uscire da un Tarantino folle, lì lì per girare il suo episodio di A prova di morte con lo stunt pazzo Kurt Russel, o ancora meglio dalla metà oscura di Stephen King, Richard Bachman, l’anima da ragazzaccio dello scrittore del Maine.

Abbiamo quindi un assassino che si veste come ne Il replicante di Mike Marvin o in Robowar di Vincent Dawn/Bruno Mattei, che cavalca una moto folgorante e che predilige proprio il fuoco o la corrente per sterminare le sue vittime. L’idea di una vendetta ultraterrena da parte di questo capo bikers, Diablo, è improponibile, non ci si crede mai, ma la presenza scenica del killer è di grande impatto con i corpi delle vittime ridotti in scheletri fumanti.

C’è poi Claudio Simonetti alla colonna sonora con delle potenti melodie metal, urlate ad alto volume quando le morti vengono crudelmente esibite. Non si svirgola nello splatter, come nel gemello Rage, ma c’è proprio un’idea di sadismo lenziano nella messa in scena degli omicidi, questi sì figli dei suoi thriller più selvaggi.

Stupisce, in un film di comunque basso profilo, come l’esecuzione sulla sedia elettrica di Diablo sia assolutamente in sottrazione: niente escamotage drammatici alla Sotto shock o La casa 5 con teste fumanti, ma solo il corpo che si contorce nella morsa della morte per pochi secondi e poi il nulla.

Sulle giacche dei bikers poi troneggia il marchio “Demons” con lo stesso font usato nei cartelloni dell’opera di Lamberto Bava. Un omaggio ad un film cult che lo stesso Lenzi avrebbe proseguito con un capitolo spurio nel 1991. Questo davvero orribile e che, per strani casi della vita, il regista considerava benissimo dichiarando in alcune interviste “senza dubbio il mio capolavoro”.

Nightmare beach, pur avendo momenti felici ed intuizioni brillanti, paga purtroppo il peso di una cattiva gestione degli attori: inappropriati, impacciati e grotteschi nella recitazione. Sarah Buxton, bellissima e presente pure in Rage, sembra sperduta, così come i veterani John Saxon e Michael Parks si limitano alle solite facce, ghigni compresi, da caratteristi, altrove bravi qui cagneschi oltre misura.

Gli effetti speciali di Alex Rambaldi sono rozzi ma efficaci e il film, come il suo gemello, non ha virate verso il sexy anche se, la location di Fort Lauderdale, meta dello Spring break ovvero le vacanze primaverili a base di sesso, droga e mare per gli studenti statunitensi, offre momenti rubati come la gara di Miss maglietta bagnata.

Tra i doppiatori si può riconoscere Pino Insegno, intento a prestare la voce al terribile Rawley Valverde nei panni del festaiolo (e sfortunato) Ronnie. Da segnalare però tra gli attori Nicolas De Toth, incolore protagonista ma figlio dell’Andrè De Toth regista di cult come La maschera di cera del 1953. La sua carriera di interprete conta solo 4 film, dei quali questo è l’ultimo, ma da lì a breve si specializzerà come ottimo montatore in pellicole importanti al pari di Stoker di Park Chan-wook.

Nightmare beach – La spiaggia del terrore è una visione disimpegnata e appagante, soprattutto quando l’estate avanza, il caldo ci soffoca e non c’è nulla di meglio di un horror da spiaggia. Malgrado il feedback negativo dategli una possibilità: Umberto Lenzi e James Justice, celati dietro lo pseudonimo di Harry Kirkpatrick potrebbero stupirvi.

Andrea K. Lanza

Nightmare beach – La spiaggia del terrore

Regia: Harry Kirkpatrick (Umberto Lenzi e James Justice)

Interpreti: Nicholas De Toth, Sarah Buxton, Michael Parks, John Saxon, Rawley Valverde, Lance LeGault, Ben Stotes, Kristy Lachance

Durata: 90 min.

Danza macabra

27 lunedì Apr 2020

Posted by andreaklanza in D, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, thriller

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1992, balletti, danse macabre, danza macabra, Greydon Clark, Michelle Zeitlin, robert englund, suspiria

Col titolo Danza macabra esistono diversi film: il più famoso è il gotico di Antonio Margheriti del 1964, poi c’è l’horror frankestein del 1968 di Jack Hill e Juan Ibañez con un Boris Karloff subliminale, conosciuto anche come La ballata della morte, per arrivare al titolo alternativi de La sanguisuga conduce la danza, giallo erotico di Alfredo Rizzo di metà anni 70.

Noi non parleremo ovviamente di nessuno di questi, ma di uno slasher debitore di Suspiria, uscito nel 1992, e relegato per sempre nel magico mondo delle vhs.

Con il termine danza macabra si intende “un tema iconografico tardomedievale nel quale è rappresentata una danza fra uomini e scheletri“. Questa idea di ballata tra vivi e morti ha avuto la sua sublimazione a livello musicale con la Totentanz, un brano per pianoforte e orchestra composta tra il 1834 e il 1859 da Franz Liszt. Possiamo trovare tracce di danza macabra nelle magnifiche poesie di Tiziano Sclavi raccolte nell’antologia Nel buio del 1993, e nel Mario Bava di Lisa e il diavolo, 1972, prima che qualcuno lo trasformasse in un Esorcista brutto.

Quando Greydon Clark gira nel 1992 il suo Danse Macabre, è probabile che non avesse in mente nessun parallelo con l’arte, ma semplicemente era un titolo che suonava maledettamente bene per una storia che parlava di ballerine uccise male da un assassino.

Il passo successivo fu scritturare Robert Englund, l’interprete dietro Freddy Krueger, che, da anni, faceva un po’ fatica a trovare un altro ruolo importante senza essere a vita legato alla creatura di Wes Craven. Probabilmente quando Rachel Talalay girò Nightmare 6 la fine, per l’attore si concretizzò il sogno di emergere nel mondo horror con ruoli che lo valorizzassero e lo facessero amare ancora di più dal pubblico. Cosa che ovviamente non successe.

Già nel 1989 Englund aveva amaramente sperimentato l’insuccesso con Il fantasma dell’opera, sciagurato slasher che mischiava il romanticismo macabro di Gaston Leroux con il coattismo del teen horror del suo Freddy. 2 milioni di budget e un rientro mondiale di neanche 4 quando Nightmare 5, dello stesso anno, esordiva nel weekend americano con ben 8,115,176 milioni di dollari. Si era fatta avanti l’ipotesi, terribile, che al pubblico non interessava l’attore quanto solo la maschera, chiunque ci fosse sotto.

Dopo il relativo disastro de Il fantasma dell’opera, aperto però ad un seguito, circolò ad Hollywood un copione intitolato The Phantom of the Opera 2: Terror in Manhattan. Sembra, stando anche all’autorevole voce della rivista Fangoria, che da questo script sia nato appunto Danza Macabra.

Nel film di Greydon Clark però non c’è traccia di Manhattan, già terrorizzata nel 1989 da Jason in Venerdì 13 parte VIII, ma l’azione si sposta, nei pochi esterni, in Russia e più precisamente a San Pietroburgo. Abbiamo però Englund sempre sfregiato e sempre dietro un pesante make up in due ruoli.

Produce sempre la 21st Century Film Corporation di Menahem Golan e Harry Alan Towers, specializzatasi per un certo periodo nel trasformare in slasher alcuni racconti di Edgar Allan Poe come Il mistero di casa Usher e La maschera della morte rossa di Alan Birkinshaw, Il gatto nero di Luigi Cozzi e Sepolti vivi di Gerard Kikoine.

Danza macabra purtroppo non convince: ha ottimi momenti ma anche tante, troppe, facilonerie narrative e sciattezze stilistiche.

Chi fa la parte del leone è ovviamente Robert Englund ma la sua recitazione indovinata e davvero frastagliata deve fare i conti con una storia che mostra il fianco alla prima, patetica apparizione dell’attore in vesti femminili sotto un parossistico cerone.

Non saremo noi a spoilerare il finale ma ci dev’essere un grande problema se si è pensato di basare un’intera pellicola su un colpo di scena che è palese fin dai primi minuti. Il mistero dell’identità di Madame, l’assassina che stermina giovani ballerine, poteva essere geniale in un mondo distopico nel quale lo Psycho di Hitchcock non è mai stato girato. in più tutti i siti riportano l’attore o l’attrice che interpreta la spietata killer mandando a quel paese il già labile effetto sorpresa.

Englund però è bravo, nei suoi due ruoli, il migliore del cast in un’interpretazione camaleontica che anticipa la Tilda Swinton del Suspiria di Guadagnino. Oltretutto non è l’unico aggancio con il remake non remake di Dario Argento: in Danza macabra abbiamo una scena di morte intervallata da un balletto, un po’ come succedeva con l’esibizione di Dakota Johson ai danni della ribelle Elena Fokina. Certo nel film di Clark nessuna ballerina viene uccisa con arti magiche, ma l’idea della messa in scena è la stessa, solo virata in chiave thriller.

In Danza macabra a convincere sono le morti, baciate dai colori rossi e blu, un po’ a ricordare in piccolo Suspiria del 1977. Gli omicidi, soprattutto il primo in una piscina, con la soggettiva del killer sono di forte impatto. Per il resto comunque abbiamo impiccagioni che riportano a quella di Eva Axén nel film di Argento, molti accoltellamenti e un suicidio simulato di una studentessa di danza. Non troppi ma ben girati e con un ottimo senso del ritmo.

Anche sul piano nudi il film è abbastanza generoso soprattutto quando ci mostra Michelle Zeitlin, dai seni bomba atomica, cavalcare in amplessi focosi il bietolone Alexander Sergeyev, o la bella Nina Goldman in ammollo con le sue belle tettine prima di essere massacrata.

A non funzionare sono le interpretazioni delle attrici, per la maggior parte vere ballerine, tutte abbastanza anonime anche se bellissime, e una storia che prosegue per inerzia fino a diventare, nel finale, anche cretina.

Il meno dotato del cast però è senza dubbio il già citato Alexander Sergeyev, fuori parte e monocorde. L’attore scopriamo da imdb è morto a soli 50 anni nel 2006. Il suo Alex, colpa di una sceneggiatura sciatta, è quasi un personaggio subliminale e senza interesse: appare e viene ucciso senza che allo spettatore freghi davvero qualcosa.

La regia di Clark palesa la povertà del progetto, pecca di scarsa attitudine nel montaggio e ha, nei momenti non puramente horror, un andamento da telefilm anni 80. Di certo il regista non è mai stato un virtuoso della macchina da presa fin dal suo esordio nel genere con Satan’s Cheerleaders del 1977. Il suo momento di bassezza regale l’ha avuta con quella stramberia gore di Uninvited del 1988 con un gattaccio mostruoso a far danni su una barca. Un inedito in Italia che io consiglio sempre: rozzo, scemo, ma da far pisciare dalle risate.

Da noi Danza macabra uscì direttamente in vhs per Multivision con un buon doppiaggio e una qualità video molto buona.

A suo modo, per i fan di Englund e per gli appassionati dei ripoff di Suspiria, resta un oggetto curioso e perché no da recuperare.

Andrea Lanza

Danza macabra

Titolo originale: Dance Macabre

Anno: 1992

Genere: thriller

Regia: Greydon Clark

Interpreti: Robert Englund, Michelle Zeitlin, Marianna Moen, Julene Renee, Nina Goldman, Irina Davidoff, Alexander Sergeyev, Natasha Fesson, Vadim Zajtsev, Alexander Usanov, Irina Sabanova, Nina Ivanovich, Greydon Clark

Durata: 97 min.

Doppio delitto

22 mercoledì Apr 2020

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, D, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, tette gratuite, tette vintage

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Annette Sinclair, Brittain Frye, Bunky Jones, Donna Baltron, doppio delitto, George Thomas, Hide and go shriek, Ria Pavia, Scott Fults, Skip Schoolnik, slasher, slasher fighi

Da noi Hide and Go Shriek uscì nel 1989, inspiegabilmente al cinema, a Maggio, con un divieto ai 14 anni. Inspiegabilmente perché a tanti horror/slasher del periodo spettava il solo passaggio in vhs, Venerdì 13 compreso, con i capitoli 6, 7 e 8 trattati come fondi di magazzino per videoteche coraggiose.

Invece il film di Skip Schoolnik, futuro produttore per Angel, lo spin off di Buffy l’ammazzavampiri, Sons of anarchy e The walking dead, fu editato persino dalla Columbia home video con un doppiaggio di tutto rispetto.

Certo il titolo italiano, Doppio delitto, non c’entrava una mazza con la vicenda, ti faceva confondere con una pellicola di Steno del 1977 interpretata da Marcello Mastroianni e Ursula Andress, e soprattutto non ti aiutava a capire che si trattava di uno slasher. Così in Italia il film passò inosservato su grande schermo, in vhs prese la polvere, non ne ricordo un passaggio, uno, in tv, e per 22 anni non ambì alla promozione in digitale. Fino all’arrivo della neonata Thunder video.

L’edizione dvd, con un video perfetto che manda in pensione la vecchia e scurissima videocassetta, restituisce dignità ad una pellicola che, di solito quando se ne parla, lo si fa denigrandola.

Rudy Salvagnini nel suo dizionario horror neanche lo cita e Pier Maria Bocchi, sulle pagine dello speciale slasher di Nocturno del 2003, lo liquida con veleno da viperetta “E pensare che questo cesso da noi possiede pure il nulla osta“. Sbaglia liquidando i personaggi come “di un’idiozia da enciclopedia” ma non sul fatto che il prologo, con l’assassino che sventra una prostituta allo stesso modo di Jack lo squartatore, non abbia molto senso col resto della storia.

Hide and Go Shriek arriva dopo Supermarket Horror (Chopping Mall) di Jim Wynorski, del 1986, e Giochi pericolosi (Dangerous Game) di Stephen Hopkins, del 1987, ma anticipa di un anno il capolavoro del sottogenere “chiusi in un grande magazzino in balia di un killer” ovvero Terrore senza volto (Intruder) di Scott Spiegel.

Il film di Skip Schoolnik, pur non calcando la mano sul sangue, è molto piacevole, scorrevole, con nudi gratuiti e deliziosi e una certa abilità nel gestire la suspense.

Certo a fare la parte del leone è soprattutto l’ambientazione, un negozio di mobili pieno di inquietanti manichini sorridenti, ma le scene di morte sono comunque ben girate, crudeli, e l’idea di un serial killer che si veste con i vestiti della precedente vittima per attirare la prossima è di quelle bizzarre ma interessanti.

Bunky Jones RIP

In più abbiamo gli effetti speciali di Screaming Mad George (Society), castrati è vero per non ottenere la X come rating, ma inventivi quanto basta: decapitazioni con ascensori, ventri perforati da braccia di manichini, corpi trafitti da spuntoni e tanto sangue vomitato dalle vittime.

Se si può accusare di qualcosa il film è che fa iniziare la sua danza di morte a più della metà della vicenda e si ferma a solo 3 omicidi su 8 possibili vittime. Per fortuna non ci annoia mai grazie a dialoghi abbastanza brillanti, a dei personaggi simpatici e soprattutto, come detto, alla generosità delle giovani protagoniste.

Il versante nudi e tette è gustoso soprattutto perché le quattro ragazze, Bunky Jones, Brittain Frye, Annette Sinclair e Donna Baltron, oltre a recitare più dignitosamente della media delle scream queen, sono di un bello inimmaginabile. A contrastare ci pensa un reparto maschile un po’ legnoso a livello recitativo e, nel caso del misterioso serial killer camaleonte, pure cagnesco e macchiettistico.

Donna Baltron, ad orecchio doppiata dalla Laura Lenghi di Neve Campbell, è la ciliegina erotica e inaspettata della torta: goffissima nei panni ingombranti della verginella con camicie di tre misure più grandi a coprirle le grazie, si lancia in uno scatenato spogliarello. “L’ho imparato guardando i porno” afferma e tutte le Demi Moore del mondo zitte.

Hide and Go Shriek, un po’ sulla scia di Nightmare 2 di Jack Sholder, è attraversato da una latente vena omosessuale con personaggi maschili che fanno allusioni sessuali mangiando languidamente banane o toccando il petto degli amici mentre discutono di ragazze. A difesa di questa tesi poi ci sono le motivazioni del killer, che non riveleremo ovviamente, e la sua tenuta da sadomaso alla Cruising nel finale. In più uno di questi ragazzi, Scott Fults, il più efebico, sembra ben poco interessato al sesso con la disponibile Ria Pavia.

Hide and Go Shriek, o Doppio delitto, con le sue luci alla Dario Argento, è un prodotto curioso, sconosciuto e sicuramente da recuperare ora che sta rivivendo una seconda, migliore vita in dvd.

Scopriamo purtroppo che la bellissima Bunky Jones, vista anche in Grotesque con Linda Blair, che all’epoca del film aveva appena 22 anni, morì, alle soglie dei 50, per cause ignote. Doppio delitto fu l’ultimo lavoro di una carriera di appena sei titoli. A noi piace ricordarla così, splendida ed eterna, in quella magia che solo il cinema possiede.

Andrea Lanza

Doppio delitto

Titolo originale: Hide and go shriek Aka “Close yor eyes and prey”

Anno: 1988

Genere: horror/slasher

Regia: Skip Schoolnik

Interpreti: Bunky Jones, Brittain Frye, Annette Sinclair, George Thomas, Donna Baltron, Scott Fults, Ria Pavia, Sean Kanan, Scott Kubay, Jeff Levine, Michael Kelly

90 min. DISPONIBILE SU AMAZON

Splatter university

21 martedì Apr 2020

Posted by andreaklanza in Recensioni di Andrea Lanza, S, slasher

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denise texeira, Elizabeth Kaitan, Francine Forbes, Joanna Mihalakis, Richard W. Haines, splatter university, troma

Grazie a case come la Home video o la Shockproof possiamo ammirare perle dell’infima serie B americana come ai tempi delle vhs. I fratelli dvd sono sempre stati un po’, a dirla tutta, un formato più fighetto: più dettagli, pieni di extra e soprattutto titoli più mainstream dimenticando capolavori sotterranei tipo Il soffio del diavolo o La notte dei demoni. Certo ci sono state mosche bianche come la Storm video che ci hanno trasportato in un mondo di gioielli e patacche, un tanto al kg, magari ignorando la qualità del formato proposto e avvicinandosi al vecchio nastro magnetico. Da un po’ però nessuno allietava il nostro famelico appetito da cinefili mannari. Ben venga quindi la nascita della Thunder video, una collana che ci offre alcuni film misconosciuti a stelle e strisce, miserabili a volte, deliziosi altre, ma sempre con l’idea un po’ corsara di stare assistendo ad un grande spettacolo popolare tipo cinema Grindhouse, un biglietto per due spettacoli.

I primi titoli usciti sono Doppio delitto di Skip Schoolnik, pregevole slasher del 1988 editato da noi in vhs dalla Columbia, Psychos in Love di Gorman Bechard, folle storia d’amore sanguinosissima a suo tempo sotto etichetta Skorpion, poi tre film girati da Rick Sloane, Hobgoblins, un classico del cinema povero ad imitazione Gremlins buttato in videoteca per la Avo film, The visitants visto per la Antoniana, Blood Theater per la DB video, e per finire ciliegina sulla torta, l’inedito Splatter University di Richard W. Haines.

Proprio su quest’ultimo film ci concentreremo ma sia dato atto che le confezioni della Thunder video, vintage come delle vecchie videocassette, sfondo nero con le magnifiche copertine d’epoca, sono da orgasmo. In più la qualità video e gli extra mandano proprio in pensione i nastri magnetici di storica memoria. E’ vero che siamo su un blog che si chiama Malastrana vhs ma fanculo, scusate il francesismo, se devo mangiare brutti film preferisco che la qualità sia ottima senza perdere diottrie.

Tra l’altro mai capiti i catecumeni del vintage. Io per esempio adoro i vecchi film, ma non sono un feticista del formato nostalgico. Per me un film in vhs è uno stato mentale, è uno spettacolo popolare grandioso che esiste anche in alta definizione, sono tutti quei film che sanno emozionare, sorprendere nel bene o nel male e che, negli anni 80, avremmo trovati in polverose videoteche nel fascicolo dei film di catalogo. Però se devo scegliere se vedermi, che so, il magnifico Sotto shock in videocassetta per la Penta film o nel blu ray dettagliatissimo, con 90 ore di extra, della Midnight factory, beh, amici miei che vi masturbate con i videoregistratori, io scelgo il formato moderno. E mi dispiace per gli altri, come diceva il sommo Adriano Celentano.

Splatter university è un film Troma, ma senza quel gusto insistentemente trash che farà la fortuna della casa di Lloyd Kaufman a partire da quel The Toxic Avenger – Il vendicatore tossico che, dal 1984, aprirà le danze, non solo per una serie di film sciaguratamente folli ma, soprattutto, per una vera poetica della filmografia infima, la scuola Troma.

Non che in Splatter university non ci siano delle cadute di tono o una cattiva recitazione in generale, ma si percepisce, a differenza della seconda (co) regia di Richard W. Haines, Class of Nuke ‘Em High, una certa cura nel gestire la suspense senza cadere nella parodia un po’ cretina a tutti i costi.

Si respira un’aria di povertà estrema: nel 16 mm gonfiato a 35, negli omicidi goffi e gratuitamente sanguinosi, nella frettolosità di uno script che cerca soprattutto di depistare lo spettatore in una risoluzione non così geniale. Però poi si scopre su imdb che il film è costato solo 26 mila dollari quando un low buget come Evil dead ne è costato dieci volte tanto, quindi un po’ cerchi di chiuderlo un occhio per un horror che, nonostante le difficoltà, si lascia guardare.

Ci sono poi cose che sono anche molto carine: alcuni omicidi, soprattutto quello di Kathy LaCommare in un drive in spettrale, sono filmati con un gusto invidiabile anche alle grandi produzioni. Il problema è che, per tener fede al proprio titolo, Splatter university si butta a mostrare troppa trippa e sventramenti senza curarsi della logica della narrazione. Le attrici, la rossa Denise Texeira in primis, sono solo belle a vedersi ma non provano neanche per sbaglio a recitare. Tolta la componente sporcacciona, che è assente, il film le riprende come manichini urlanti in attesa di essere scannate brutalmente. In Splatter university, come un film cinese sottototitolato in croato, ti confondi con i vari ruoli, chi sia chi, chi è stato ucciso, chi fa cosa, in un cortocircuito di assenza emozionale che ti rende partecipe con l’unica persona che dovrebbe essere invece la più spregevole, l’assassino.

Racconta Richard W. Haines, negli extra del dvd, che Splatter university fu trasmesso in un cinema grindhouse insieme ad Un lupo mannaro americano a Londra.

“Erano cinema fatiscenti con il soffitto che perdeva molte volte l’intonaco. Potevi trovarci tossici, puttane, rapinatori ma il rischio rendeva bello lo spettacolo. Sceglievi una sedia, magari non squarciata da un coltello a serramanico, e ti godevi questi film, a volte magnifici, a volte orribili, ma sempre divertenti. Ricordo che per il mio Splatter university il pubblico si alzò urlando, nel finale, e urlava rivolto all’assassino – Uccidila! Uccidila!“

L’unica attrice che davvero ci prova a recitare è Francine Forbes che, leggenda vuole, accorgendosi che il regista non si curava molto della continuity, cominciò ad etichettare i suoi vestiti così da non indossare abiti diversi in una stessa sequenza. Lei è sicuramente la migliore del cast, quella che non strilla solo come una disperata ma ha un’approccio da professionista anche nei momenti puramente da scream queen.

Il colpo di scena migliore però è nel finale, che non riveleremo, ma che ribalta in maniera anarchica le regole dello slasher. Questa sì una sorpresa inattesa, più del prevedibile assassino, rivelato tra l’altro già dal trailer originale.

Il film originale durava solo 65 minuti e Richard W. Haines dovette tornare a rigirare 10 minuti per rimpolpare il tutto. Probabilmente tra queste scene c’è anche il prologo e l’epilogo in manicomio che sembrano sequenze estemporanee attaccate con lo sputo al resto della vicenda.

La terribile ma bellissima Denise Texeira posò con altre attrici anche per i cartelloni promozionali del film. In questi scatti il killer indossa una tonaca da laureato che nel film non vedremo mai. A non apparire in Splatter university è però la bionda Elizabeth Kaitan, interprete del gustoso scifi horror Necromancer, presente però in queste foto.

Lei non c’è

Il film fu girato nel 1981, ma uscì solo nel 1984 quando la Troma ormai stava diventando leggenda con il suo Vendicatore tossico armato di scopettone del cesso. Di certo non abbiamo un capolavoro, ma un film un po’ improvvisato che si lascia guardare senza pretese. Una perla comunque per tutti gli amanti dello slasher più misconosciuto che, con la frase di lancio “Quando i colori della scuola sono rosso sangue“, accendeva la nostra fantasia di speranze, forse disattese. Era anche quella la cifra stilistica del cinema miserabile che amiamo da sempre e che da anni rimpiangiamo.

Andrea Lanza

Splatter University

Anno: 1984

Genere: horror

Regia: Richard W. Haines

Interpreti: Francine Forbes (Forbes Riley), Ric Randig, Dick Biel, Kathy LaCommare, Laura Gold, Ken Gerson, Sal Lumetta, Clifford Warren, Noel Stilphen, Mary Ellen David, Jane Doniger Reibel, Dan Eaton, John Michaels (John Elias Michalakis), George Seminara, Joanna Mihalakis

Durata: 78 min. Disponibilità AMAZON

Black Christmas (2019)

30 lunedì Mar 2020

Posted by andreaklanza in B, Recensioni di Andrea Lanza, slasher

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April Wolfe, black christmas, blumhouse, bob clark, jason blum, me too, natale rosso sangue, remake stronzi, sophia takal

Black Christmas (1974), da noi Un natale rosso sangue, è uno degli horror, se non l’horror, che ha dato il via al fortunato genere slasher ovvero quel filone che mette in scena un omicida, di solito, mascherato, bramoso di fare a pezzi giovani studentesse. Non famoso come il successivo Halloween di John Carpenter, il film di Bob Clark, futuro regista del cult assoluto Porky’s – Questi pazzi pazzi porcelloni!, è qualcosa di ancora modernissimo: tensione alle stelle, omicidi fantasiosi, belle ragazze in pericolo e un serial killer che terrorizza anche solo con una telefonata. Tutti elementi che, negli anni, diventeranno cliché del genere, ma che qui sono raccolti e raccontati con uno stile unico e che non risulta mai datato.

Certo Bob Clark nel genere horror non era un novellino: suoi i gagliardi L’assedio dei morti viventi (Children Shouldn’t Play with Dead Things) del 1972 e, soprattutto, La morte dietro la porta, del 1974. E’ però con Black Christmas che arriva a girare un vero capolavoro, imitato, parodiato, scimmiottato negli anni, anche solo nell’influenza dell’altrettanto ottimo Halloween.

C’è da dire, ad onor del vero, che il primato per il genere slasher, anche se ancora ancorato alle logiche del thriller di matrice argentiana, la dobbiamo al nostrano I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino, che sublima le regole di body count mostrate dal complesso Ecologia del delitto (1971) di Mario Bava. Senza dimenticare poi lo strano western In nome del padre, del figlio e della Colt diretto da un Mario Bianchi con lo pseudonimo di Frank Bronston, sempre del 1971, che mette in scena un assassino mascherato in vena di omicidi ad Halloween.

In nome del padre, del figlio e della Colt

Nessuno di questi esperimenti però, figli di altri generi, ha avuto la forza e la capacità di imporsi e far nascere, anche senza volerlo, un genere nuovo che anche oggi, nel 2020, è vivo e vegeto.

Per anni però di Black Christmas se ne perdono le tracce: nessun seguito in vista, mentre di Halloween, Venerdì 13 e dei loro figli belli e meno belli ne vediamo uscire a bizzeffe, numeri 2, 10, uno contro l’altro, nello spazio, ma nulla del povero killer appassionato di Natale. Nel 2006 si decide finalmente di resuscitare il thriller di Clark con uno sfavillante remake diretto da Glen Morgan, produttore e sceneggiatore famoso per X-files, reduce come regista dal flop commerciale di Willard il paranoico, sua opera prima. Produzione canadese, come per il film originale, il vecchio regista alla produzione, un cast di bellissime ragazze e una violenza esasperata che sfocia nello splatter più selvaggio. Il film è fantastico ma non ottiene né il plauso della critica né pareri buoni dagli spettatori che, a tutt’oggi, bollano la pellicola su imdb con 4, 6 di votazione. Un thriller forse non capito, o troppo serio per la generazione che non distingueva Scream da Scary movies: incassò nel mondo solo 21 milioni a fronte di un budget di 9. Di Glen Morgan, al cinema, non se ne sentirà parlare più.

13 anni dopo è la Blumhouse, casa famosa per i suoi low budget di successo miliardario, come Insidious o Conjuring, a resuscitare ancora il marchio Black Christmas con un’opera bizzarra, castrata e dalle tante, troppe ambizioni.

Del film originale di Clark, intanto defunto, in questo nuovo remake neozelandese, resta ben poco: qualche omicidio che occhieggia al prototipo, il titolo e poco altro. Un’operazione per certi versi simile all’assurdo Che la fine abbia inizio (Prom night) di Nelson McCormick, ispirato ma non ispirato a Non entrate in quella casa (sempre Prom Night), classico slasher canadese con Jamie Lee Curtis.

  • Brittany O’Grady as Jesse in Black Christmas, co-written and directed by Sophia Takal.

Dietro la macchina da presa abbiamo Sophia Takal, attrice e apprezzata regista, nota per i suoi personaggi femminili interessanti e poco stereotipati. Il suo primo contatto con la Blumhouse è l’episodio New Year, New You della serie horror antologica Into the dark, un gioco al massacro tra amiche interpretato con partecipazione da Suki Waterhouse, Carly Chaikin, Williams Kirby Howell-Baptiste e Melissa Bergland. Abbiamo qui, come in tutte le opere della Takal, il limite di una storia non eccelsa, troppo didascalica e urlata. Così anche una regia ispirata, si perde in un pasticciaccio indigesto e velleitario.

Non dissimile è questo Black Christmas: personaggi anche interessanti, temi lodevoli come la violenza contro le donne, ma un totale disinteresse per la storia a favore di un messaggio sbandierato all’esasperazione, quello del girl power, dell’emancipazione femminile e della grettezza del (porco) genere maschile.

In Black Christmas gli uomini sono degli stronzi, vogliono sottomettere le donne, trattarle come oggetti sessuali, farle stare zitte e, nel caso si ribellassero, massacrarle. Non c’è pietà per il mondo maschio né per le “sorelle” che tradiscono scegliendo di essere schiave, magari mogli e fidanzate, in un universo fallocentrico: si muore e male.

Si salva un uomo è vero ma è anche il personaggio peggio scritto, assolutamente assessuato in un horror che affronta il tema dello stupro ma cerca di essere il meno morboso possibile e soprattutto cerca di non parlare mai di sesso.

Ne esce un film tagliato più di 10 minuti, esangue, con delle morti che sulla carta sono carine ma che si concludono prima dell’atto come quei porno che uscivano censurati di cazzi e sborra, perdendo la poesia orgiastica di un Rocco Tarzan contro Jane l’assatanata.

Questo perché alla Takal importa una sega del genere horror, di Black Christmas, di Bob Clark, degli omicidi come forma d’arte, a lei interessa solo il metaforone che vuole la donna prendere a calci in culo l’uomo e fargli pure malissimo.

Così ad un certo punto la storia prende una tangente strana: subentra il satanico a favore del thriller, si perde il maniaco che chiamava le studentesse per preferire una coscienza maschile totalitaria, da insetto, che muove i membri di una confraternita ad essere un unico cervello per più killer.

Certo anche le protagoniste si definiscono “formiche” ma per evidenziare il loro essere unite, non depersonalizzate, mentre gli uomini, dietro una maschera da Dottor Destino, sono solo una massa stupida, mossa dalle pulsioni più semplici, riprodursi e ammazzare.

La Takal loda i tagli perché così, PG13, il film potrà essere visto da un pubblico vasto, da ragazzine che sapranno quali pericoli possa riservare il mondo maschile e riprendersi il proprio ruolo di donne, giovani donne del domani. Così la battuta “Succhiami il cazzo” prima di bruciare un cattivone, detto dalla stracazzutissima Aleyse Shannon, si tramuta senza senso nella monca “Succhiami il…”, tanto per non offendere nessuno in sala.

Peccato perché è proprio nel finale, quando le donne ribaltano la situazione da vittime a cacciatrici, che il film prende una strada deliziosamente exploitation alla Jonathan Demme con femmine incazzate armate di arco. “Hai scelto la puttana sbagliata” esclama la sorella nera e la freccia viene scoccata contro il maschio bastardo. Solo che tutto viene annacquato, anche un’idea concettualmente potente, da questa patina Disney Channel sfoggiata con vanto.

Il cast è formato da anonime attrice, bravine e insipide, un po’ come il film, a cominciare dalla graziosa Imogen Poots (Green Room), classe 1989, nei panni della protagonista Riley. Gli interpreti maschili invece sono per la maggior parte bistecconi inespressivi senza nessuna battuta memorabile perché in Black Christmas anche l’ironia, l’arguzia e l’intelligenza appartengono alle donne.

C’è da dire che l’opera della Takal è girata con perizia anche se sembra in più momenti di stare assistendo ad un Decoteau meno frocio e misogeno, meno sciatto e senza uomini in mutande. Per intenderci una cosa alla Brotherhood glorificata però da un budget più ricco ma da una sceneggiatura ugualmente orribile con l’aggravante della metaforona che, se non sei Bong Joon-ho, magari lascia stare.

Leggenda racconta che la Takal volesse girare un nuovo I spit on your grave, ma non riuscendo ad avere i diritti, si è buttata su questo Black Christmas. Dio a volte è saggio e ci scampa dai Non violentate Jennifer in versione metoo alla Non fate incazzare Hannah Montana.

Comunque il film ha incassato meno del previsto con buona pace della sua regista, del girl power, del povero Bob Clark che mai è stato tanto insultato, e pure della co-sceneggiatrice April Wolfe che dichiarava tutta felice ” L’ho scritto col pensiero di indottrinare le adolescenti sull’horror”. Da noi, per colpa della pandemia e dei cinema chiusi, è arrivato diretto in canali streaming come Chili. Oddio per colpa, magari è stata una fortuna.

Black Christmas versione 2019 ci fa rimpiangere l’orribile Una lama nella notte (Sorority House Massacre) del 1986, diretto sempre da una donna, Carol Frank, divertente, scemo come un orso down che balla al circo, ma anche sincero nel suo essere exploitation senza ambizioni. Ecco il cinema che davvero ci manca”

Andrea Lanza

Black Christmas

Anno: 2019

Regia: Sophia Takal

Scritto da: Sophia Takal e April Wolfe

Interpreti: Imogen Poots, Aleyse Shannon, Lily Donoghue, Brittany O’Grady, Caleb Eberhardt, Cary Elwes, Simon Mead, Madeleine Adams, Nathalie Morris, Ben Black, Zoë Robins, Ryan McIntyre, Mark Neilson, Lucy Currey, Jonny McBride

Durata: 92 min

Il giustiziere sfida la polizia

29 mercoledì Gen 2020

Posted by andreaklanza in G, Recensioni di Andrea Lanza, slasher

≈ 5 commenti

Tag

Anne Marie, Eduardo Calvo, Erika Blanc, il giustiziere sfida la città, leon klimovsky, Maria Kosty, Maria Vidal, paul naschy, Ricardo Merino, Susana Mayo, Una libélula para cada muerto

Negli anni 70 in  Italia i generi più prolifici erano, senza molti dubbi, il thriller argentiano, il poliziesco alla Maurizio Merli e l’erotico perché si sa che il pelo non fa mai male alle visioni cinefile. Quindi non stupisca che nella vicina Spagna venissero prodotti dei film ad imitazione di quelli, la maggior parte coproduzioni col nostro Paese, con titoli però gagliardi come Quel ficcanaso dell’ispettore Lawrence (Los mil ojos del asesino) interpretato da Anthony Steffen, Le calde labbra del carnefice (La muerte llama a las 10) e La signora ha fatto il pieno (Es pecado… pero me gusta) con Carmen Villani e Carlo Giuffrè, tutti e tre tra l’altro diretti da Juan Bosch, uno tra i più prolifici imitatori della nostra gloriosa serie B, sia si trattasse di un western che di una sporcellata alla Sidney Rome.

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I più riusciti tra questi tarocchi però sono, a parer mio, i gialli: il mix sesso/morte d’altronde ben si adattava ai registi iberici che, da quel lontano 1968 con Le notti di Satana di Enrique L. Eguiluz, avevano spalancato i cancelli a vampire nude e licantropi porconi, non senza un certo clamore in tutto il mondo. D’altronde, come ho detto in altre recensioni, il cinema del terrore spagnolo era uno dei più inventivi e scatenati di sempre.

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Questo Il giustiziere sfida la polizia è girato da uno dei registi migliori in piazza, l’argentino León Klimovsky, talento visionario al servizio dei più disparati generi, capace di rendere oro anche i più miserabili film di guerra o i western più straccioni. Senza contare che il nostro aveva all’epoca di questa pellicola, il 1975, ben 64 anni, ma con la forza e la passione di un ragazzino tanto che, per prenderlo in giro, l’amico Jorge Luis Borges l’aveva ribattezzato “la corazzata Klimovsky“.

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Il titolo italiano, più da poliziesco alla Michael Winner, è meno incisivo di quello spagnolo, Una libélula para cada muerto, Una libellula per ogni morto, occhieggiante invece la trilogia zoofila argentiana fatta da uccelli dalle piume di cristallo, gatti a nove code e mosche di velluto grigio.

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Il film, ambientato in una Milano fotografata di sfuggita, consegna al pubblico uno spettacolo deliziosamente popolare fatto di morti crudeli e belle donne svestite. Se l’intreccio è farraginoso, ma è un difetto anche dei nostri originali gialli argentiani, Il giustiziere sfida la polizia si riscatta con un ritmo scatenato e con un body count di tutto rispetto, ben 9 omicidi.

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Il divertimento per ragazzacci è servito grazie ad un assassino talmente slasher,  volto nascosto e ascia alla mano, che lo slasher neanche esisteva. Non male neanche Paul Naschy in formissima recitativa che carica il suo commissario violento di un furore recitativo inaspettato, un personaggio di chiaroscuri che commenta gli omicidi del killer quasi con ammirazione: “Alla fine ammazza puttane, pederasti, tossici, ci sta solo facendo un favore“. La sceneggiatura di Ricardo Muñoz Suay e dello stesso attore,  poi non è pedestre e regala al protagonista quei tic da grande film pulp, il sigaro in bocca perenne anche quando cucina o abbraccia la sua donna.

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Anche la coprotagonista femminile, una bellissima Erika Blanc, è stranamente ben caratterizzata: non una figura accessoria dell’eroe, ma un personaggio vivido e pensante, ironico e capace di risolvere il caso prima del suo stesso fidanzato. “Cos’è ti scoccia che una donna capisca chi è il killer prima di te?” urla a Naschy che la taccia di fantasie senza senso sull’identità dell’assassino, fantasticherie, sia ben inteso, che la porteranno faccia a faccia con la morte nel concitato finale.

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La libellula del titolo originale, lasciata vicino ad ogni cadavere, purtroppo non trova la sua ragione d’essere in una soluzione non molto ingegnosa, con un assassino un po’ incolore, dal movente labile. Peccato perché ad un certo punto salta fuori un libro “I delitti fra i caldei” e si racconta di come questa popolazione della Mesopotamia usasse uccidere i depravati con varie e fantasiose torture per poi appoggiare sul loro corpo, appunto, questo insetto alato. L’idea quindi di un nuovo L’etrusco colpisce ancora si fa spazio tra gli spettatori, ma l’idea viene presto abbandonata a favore di un killer che non disdegna un arredamento gotico stile La notte che Evelyne uscì dalla tomba.

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In qualsiasi caso Una libélula para cada muerto è un film molto divertente e da riscoprire, capace di filmare anche uno tra i più assurdi inseguimenti della storia del cinema: uno spacciatore per salvarsi dalla polizia decide di salire sulle montagne russe di un luna park, una cosa senza senso, una fuga presto terminata con Naschy che spegne la giostra.

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L’attore interpreterà altri due pseudo spaghetti thriller, il delizioso 7 cadaveri per Scotland Yard (Jack el destripador de Londres) di José Luis Madrid e il tetro Gli occhi azzurri della bambola rotta (Los ojos azules de la muneca rota) di Carlos Aured. Dei tre il mio preferito ovviamente è l’opera di Klimovsky.

Andrea Lanza

Il giustiziere sfida la polizia

Titolo originale: Una libélula para cada muerto

Anno: 1974

Regia: Leon Klimovsky

Interpreti: Paul Naschy, Erika Blanc, Maria Kosty, Ricardo Merino, Susana Mayo, Eduardo Calvo, Anne Marie, Maria Vidal

Durata: 85 min.

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