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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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The Twilight People – Il crepuscolo della scienza

15 martedì Set 2020

Posted by andreaklanza in C, fantascienza, Recensioni di Luca Caponi, T

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Tag

eddie romero, h. g. welles, Il crepuscolo della scienza, john ashley, l'isola perduta, The Twilight People

Se siete amanti di quei film che non vengono nemmeno citati sul Morandini, questa pellicola fa al caso vostro.

Inizio sconcertante con interminabili titoli di testo a caratteri orrorifici cartooneschi (che ricordano la serie tv animata The Ghost Busters del 1986) sovrapposti ad una barriera corallina che pare essere lo spot di un villaggio turistico delle Bahamas.

Due sub, chiaramente in una piscina con finto fondale marino, trainano a bordo di un peschereccio il nostro protagonista tramite un argano a motore.

Dopo essere stato sedato, legato e visitato, ci vengono presentati due importanti nemesi: il segugio Steinman, capo della sicurezza e la dottoressa Neva Gordon, figlia del geniale e incompreso Dr. Gordon, mandante del rapimento.

Giunto sull’isola, il nostro Matt Ferrell, scoprirà un vero e proprio complotto eugenetico. L’obbiettivo del luminare, ormai deviato dai suoi delirii di onnipotenza e privo di fiducia nel progresso scientifico ufficiale, è quello di creare una super razza che sopravvivi all’imminente estinzione (a detta sua) di quella umana. Per farlo, il mad doctor possiede una vera e propria cornucopia di bestie ibride che nutre e cresce in cattività, ergendosi a demiurgo plasmatore. E come nel misticismo ebraico, il film segue l’analogia del rabbino che plasma il Golem dall’argilla e che per mano della sua stessa creatura, perirà.

Ma andiamo con ordine…

Prima di approcciarvi a questa pellicola, vorremmo accompagnarvi lungo un excursus storico diviso in varie tappe (che per questioni di tedio, tenteremo di ridurre all’osso).

Tutto ebbe inizio nel lontano 1896, quando il ben noto H. G. Wells, forse in preda a deliranti desideri zoofili misti alla mescalina, pubblicò il romanzo di fantascienza L’isola del Dottor Moreau.

Anche se all’epoca rientrava nei canoni del genere avventuroso (in quanto il termine “Science Fiction” verrà coniato solo nel 1926), questo fu il primo romanzo a trattare di “Uplift”, ovvero, dell’intervento di una razza tecnologicamente avanzata in grado di manipolare l’evoluzione di una specie inferiore.

I richiami cinematografici si sprecano: sia quelli liberamente tratti dal romanzo, come il francese Ile d’èpouvante del 1913, il più famoso L’isola delle anime perdute del 1932, o il filippino Terror Is a Man; sia quelli apocrifi, che pescano da altre opere letterarie come Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle del 1912, Viaggio al centro della Terra del 1864 e Ventimila leghe sotto i mari del 1870 entrambi di Jules Verne o da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift del 1726.

Se aggiungiamo poi antiche leggende come Il Mito di Atlantide, ecco che avremo piccoli capolavori cinematografici ormai dimenticati, come Nel tempio degli uomini talpa del 1956 o L’isola Misteriosa del 1929, in cui i vari protagonisti dovranno cimentarsi in combattimenti con creature marine o graboidi (forme rivisitate in chiave fantascientifica dei famosi lillipuziani delle pagine di Swift) spesso comandati da una sorta di Doge appartenente alla razza umana.

Come da tragedia aristotelica, le trame dei Survival Movies si dividono in tre atti:

  1. Approdo all’isola tramite naufragio o rapimento
  2. Scoperta di un mistero assurdo o di un complotto contro l’umanità
  3. Lotta per la sopravvivenza con conseguente fuga dall’isola

Non sappiamo di preciso in quali circostanze avvenne l’incontro tra il produttore/regista di “cult” filippino Eddie Romero, classe 1924 e il diabolico Dottor Moreau. Resta il fatto, che dal 1959 al 1973 gira o produce pellicole come Terrore sull’isola dell’amore, Mad Doctor of Blood Island, Beast of Blood, Sesso in Gabbia, The Beast of the Yellow Night, The Woman Hunt, Beyond Atlantis, Donne in catene, ecc… Tutte opere similari, unite assieme da un unico nastro rosso di temi conduttori.

Utilizzando la Proprietà Commutativa dell’Addizione nei suoi film, Romero cambia spesso ordine agli addendi (Isola + Mad Doctor + Donne in prigione + Creature mostruose) mantenendo però sempre un risultato costante: pellicole da uno stile umile, quasi minimaliste ma mai vuote; calcolate, precise e semplici ma non per questo prevedibili.
Sfortunatamente però, nonostante si tenti di mantenere un’atmosfera cupa tipica dei noir, il registro linguistico e le azioni di lotta mal coreografate, sfociano spesso nel comico; creando quell’incertezza sublime che solo la serie B è in grado di donare agli spettatori con tanta maestria.

Ma se il richiamo all’opera di Wells è il punto di partenza, numerosi sono i rimandi all’opera The Prisoner, serie tv inglese trasmessa tra il 1967 e il 1968.

L’utilizzo di una perla nera come Pam Grier (che di lì a poco entrerà nel Pantheon della Blaxsploitaition per eccellenza, con film come Coffy 1973 o Foxy Brown 1974, fino al tarantiniano Jackie Brown del 1997) è sprecata.

Alla Grier non vengono assegnate battute, ma solo un registro di versi gutturali e rantoli, associati ad una mimica animalesca. Si destreggia bene come ibrido mutante in perenne bulimia chimica; e durante un combattimento, ci mostra timidamente un capezzolo color ebano.

Il design delle creature sembra preso in prestito dagli albi a fumetti di Akim, Il Piccolo Ranger e Zagor; e forse ripescato in seguito dall’italico Luigi Batzella che nel suo nazisploitation: La Bestia in calore (1977) utilizza un freak simile, interpretato dall’attore feticcio Salvatore Baccaro, tra le eccellenze della serie B Made in Italy. Compito fondamentale della Bestia è quello di stuprare a morte le povere partigiane che vengono gettate nella sua gabbia.

E’ interessante notare come le donne gravide sull’isola muoiano (come accadrà per la serie tv Lost) come se dare la luce ad una nuova vita su questo lembo di terra, sia un peccato mortale.

E il finale al rotoscopio con tanto di un parossistico mostro alato disegnato direttamente sullo sfondo della pellicola in post-produzione (alla faccia di Ralph Bakshi e del suo The Lord of the Rings 1978) ci trasmette un messaggio di speranza e di libertà.

Invitiamo il popolo di Malastrana alla visione della puntata dei Simpson 13×01: La Paura fa Novanta, in cui il richiamo all’Isola del dottor Moreau fa da cornice ad una demenzialità tutta groeninghiana con un Homer tricheco superlipidico e una Marge panterona in puro stile Real TV.

Luca Caponi

The Twilight People – Il crepuscolo della scienza

Anno: 1972

Regia: Eddie Romero

Interpreti: John Ashley, Pat Woodell, Jan Merlin, Charles Macaulay, Pam Grier, Ken Metcalfe, Tony Gosalvez, Kim Ramos, Mona Morena, Eddie Garcia, Angelo Ventura, Johnny Long, Andres Centenera, Letty Mirasol, Max Roio

Titoli alternativi: “Beasts”, “Island of the Twilight People”

Durata: 81 min.

TH1RTEEN R3ASONS WHY: Oh Mamma, mi è sembrato di vedere il fantasma di Hanna Baker!

26 lunedì Ago 2019

Posted by andreaklanza in 1, Recensioni di Andrea Lanza, serie tv, T

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Tag

fantasma formaggino, hanna baker, netflix, suicidio, TH1RTEEN R3ASONS WHY, TH1RTEEN R3ASONS WHY 3

TH1RTEEN R3ASONS WHY è una serie che mi ha subito catturato. Non mi è mai importato degli haters, dei complottisti dell’ultima ora, di quelli che se la moglie se ne è andata, se il cane ha pisciato sul tappeto, se gli immigrati avanzano, la lega si scioglie, il PD assassino, le foibe, Bibbiano, le cavallette, non ci sono più i gelati come il Piedone, è colpa solo ed esclusivamente di Netflix, anzi Merdflix, perché ci vuole la merda per odiare, mica la Nutella. D’altronde TH1RTEEN R3ASONS WHY è una serie, appunto, Netflix, quindi schifo, disgusto, accendetemi in Piazza Tienanmen perché non posso vivere così.

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Abbasso Merdflix!!!

Però, a me, la prima serie piace, mi piace com’è girata, mi ha catturato la storia, sono state 13 puntate che sono filate sulla mia pelle con la stessa facilità di una lama da adolescente suicida. Non la cosa più bella che ho visto ma, se avessi avuto almeno 25 anni in meno, sono sicuro che avrebbe avuto un altro impatto in me, magari sarebbe stato il mio Schegge di follia personale da Generazione Z. D’altronde la prima stagione ha 4 puntate girate da uno dei registi più folli e visionari di sempre, Gregg Araki, lo stesso di Doom Generation, di Ecstasy Generation, dove tra l’altro un simil Godzillino spara a Shannen Doherty. Gregg Araki è l’artista che, grazie a luci da discoteca, splatter esagerato e vuoto cosmico alla Brett Easton Ellis, ha raccontato con fervore invidiabile l’altra Beverly Hills 90210, fatta di orge gay, festini alla coca e castrazioni di giovani americani sullo sfondo della bandiera USA. Certo col tempo è stato evirato pure lui, dalla tv, da film che scimmiottavano i suoi successi come checche isteriche troppo attempate, ma con TH1RTEEN R3ASONS WHY, pur nell’ambito di un prodotto per ragazzi, l’abbiamo visto finalmente alzare la testa e regalarci le puntate più adrenaliniche, colorate e sessualmente scatenate.

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Che brutto trip, Gregg!

Non male per una serie che ha infiammato, fin dai suoi esordi nel 2017, le pagine del web più sciagurate, con pseudo recensioni che ti fanno capire, alla fine, il terribile crimine di internet: dare la parola a tutti anche a chi, per leggi mai comprese di Dio, per il caos shakesperiano, per la Santa Vergine del Pilar, dovrebbe lasciare il suo parere al circolino di pinella, alle chiacchiere con la mamma quando alle 16 mangia felice pane e marmellata. Poi non parliamo di Facebook e dei milioni di post che potrebbero far pensare a TH1RTEEN R3ASONS WHY come ad un omaccione coi baffi che esce con solo un impermeabile il pomeriggio e mostra il pipino alle ragazze nel parco, lascivo e molto molesto. Invece abbiamo davanti una serie che, basandosi sul romanzo 13 di Jay Asher, racconta con delicata spietatezza le ragioni, 13 appunto, registrate su nastro magnetico e spedite ai diretti interessati, che hanno spinto la bella Hannah Baker al suicidio.

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E’ una storia straziante dove alla fine nessuno è innocente, una storia toccante di bullismo, emarginazione e identità sessuali represse, di giovani mostri in procinto di diventare uomini altrettanto mostruosi, di stupri, di botte e di amori mai dichiarati. In TH1RTEEN R3ASONS WHY tutto è miscelato con furbizia, ma anche con abilità: nulla di quello che racconta è davvero originale, ma palesa una storia che potrebbe succedere ai tuoi figli, ai tuoi amici, magari l’hai vissuta pure tu all’epoca senza raccontarla mai a nessuno. Così le cassette diventano il corrispettivo di un diario, con l’occhiolino alla moda anni 80/90 che è marchio di Netflix, e ci portano dritti in un’inferno adolescenziale che raramente si è visto in tv.

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Di TH1RTEEN R3ASONS WHY ne hanno parlato i giornali, se ne è discusso nelle scuole, i libri di Jay Asher sono balzati di nuovo in cima alle classifica, ma molte polemiche sono state futili e stupide, al pari delle crociate contro i fumetti, i videogiochi o i film violenti che da sempre incendiano i titoli più ignoranti dei giornali. Lo diceva saggiamente Wes Craven in Scream “Gli horror non fanno impazzire le persone, al massimo le rendono più creative“, come dire che se sciroccato sei, sciroccato resterai con o senza GTA V, Far Cry o le raspone davanti alle tette di Valentina Nappi. E’ però capitato che qualche adolescente davvero si sia ucciso dopo la visione di 13, magari riconoscendosi nello sconforto senza nessuna speranza di Hanna Baker, abbandonata da tutti, amici, professori e genitori.

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nessuno si suicida nel mondo Netflix

Credo che queste perdite non siano da minimizzare, ma la colpa di certo non è in una serie tv che, vorrei ricordarlo, cerca di sensibilizzare il tema del suicidio. E’ come se, per assurdo davanti ad una pubblicità progresso sui danni dell’eroina, i ragazzi cominciassero a bucarsi. Il problema non è in TH1RTEEN R3ASONS WHY ma nella famiglia e nella scuola, a volte basterebbe solo capirli certi segnali, ma è più comodo puntare il dito verso la tv cattiva e omicida, la stessa televisione che usiamo come babysitter per i nostri bambini, non dimentichiamolo.

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Così Netflix ha deciso un mese fa di censurare il suicidio di Hanna Baker con una scelta, questa sì, di merda. Perché è con decisioni drastiche come queste, politicamente accomodanti, che una serie tv dalla sua concezione di opera (d’intrattenimento, d’arte, non importa) diventa il Big Mac al quale decidi di togliere i cetriolini perché ti fanno schifo. Però TH1RTEEN R3ASONS WHY non è un fast food, non è lo scherzo di un bambino, è il lavoro creativo di uno scrittore che ha trovato la terza dimensione nella serialità dello streaming, che non ha senso tagliare, come non ha senso mettere le mutande al David di Michelangelo perché la censura non abbellisce un’opera, la castra, la snatura ed è il retaggio più bestiale dei regimi dittatoriali. Un film, una serie tv, un libro, un fumetto o un videogioco, belli o brutti che siano, restano arte e l’arte è un flusso che non puoi imbrigliare ma devi solo subire e comprendere. I metodi potevano essere tanti, dal VM18, al parental control, alle doppie versioni, ma si è scelto, anzi Netflix ha scelto per noi, come neanche fa un genitore severo, che, neanche a 42 anni, potrai vedere e inorridire, incazzarti e magari piangere davanti al suicidio di un’adolescente che hai imparato a conoscere anche, e soprattutto, nei suoi drammi. No, ora la sua morte è tronca, raccontata fuori campo così, si spera, non ci saranno più giardini per vergini suicide.

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Io però ho scaricato, e questa volta lo dico con vanto, l’episodio, il tredicesimo, in versione integrale e stavolta, incredibile dictu, la pirateria vince a piene mani sulla legalità. Ora se mai riguarderò TH1RTEEN R3ASONS WHY so che quella puntata sarà solo ed esclusivamente in chiavetta e fanculo al MOIGE. D’altronde, lo dice anche Zucchero nel suo album più bello, Dio salvi il giovane dallo stress e dall’azione cattolica.

Però la storia di questo telefilm mica finisce qui. Perché, ad appena un anno dal suo esordio, nel 2018, su Netflix, esce la seconda stagione. Bene, mi dico, la prima è terminata con degli interrogativi e ci saranno altre cassette, probabilmente, a far continuare la serie. Mi metto comodo e comincia l’orrore.

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Sono state inserite, prima di ogni puntata, dei fastidiosi interventi da parte del cast, nei quali, con sguardo languido, gli attori mettono in guardia gli spettatori della visione pericolosa. Mi ha ricordato non poco cartoni anni 80 tipo Mister T, dove il nostro P. E. Baracus dell’A-team, a fine episodio, faceva un pistolotto moraleggiante che neanche Fra Tazio da Velletri si immaginava, una cosa che, pure da bambino, ti faceva alzare gli occhi e cadere le palle verso l’inferno del Satanasso bestemmiatore. Questi interventi in TH1RTEEN R3ASONS WHY fungono né più né meno dei molesti tutorial dei videogames quando ormai tu giochi da anni e, cazzo, saprai come si muove la videocamera!

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No alla droga, capito????

Va beh, mi ridico, ora però prepariamoci alla seconda stagione e a vedere quali nuovi sviluppi hanno ideato. Mai avere troppe aspettative nella vita, ricordatevelo.

TH1RTEEN R3ASONS WHY 2 inizia già male: la regia è peggiorata, gli attori sembrano, a solo un anno di distanza, dei trentenni sfatti e la storia è incredibile. Quando uno sceneggiatore è a corto d’idee, è una regola sacrosanta, si affida sempre, come deus ex machina per salvare capre e cavoli, ad un amico invisibile, un molesto amico invisibile che vede quasi sempre solo il protagonista. Non ci credete?

    • Nei Flinstones Fred e Barney incontrano l’incredibile The Great Gazoo, un alieno verde, odiato da tutti i fan e presto giustamente dimenticato
    • Ricky Cunningham in Happy Days fa la conoscenza di Mork prima di Mindy
    • Batman e Superman hanno i loro amichetti rompicoglioni, Mister Mxyzptlk e il Batmito

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      Si, un alieno verde, Barney

e così via, in quelle derive orribili che scontentano sempre tutti, al pari del cambio del protagonista con un sosia cugino. In TH1RTEEN R3ASONS WHY 2 non diversamente il buon Clay Jensen dalla testa da Exogino pensa che, dopo la dipartita del suo amore Hanna Baker, ora si può ricominciare, trova persino una nuova fidanzata, una teppista un po’ ribelle con la giacca in pelle e la passione per i motori, ma ecco che si palesa il suo The Great Gazoo personale e contemporaneamente, sfiga delle sfighe, il pipino non gli si rizza più!

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Oddio, mi è apparsa Hanna Baker!

Giuro: i popcorn mi sono andati di traverso. Credevo che più in basso di Prison Break che diventa una sorta di A-Team non si potesse andare, ma, solo guardando TH1RTEEN R3ASONS WHY 2 ho compreso il senso della canzone Andrea e la frase “Il pozzo è profondo più profondo del fondo degli occhi della Notte del Pianto“. Quella era la mia notte del pianto, quando credevo di avere toccato il fondo ecco che continuavo a cadere. E chissà quanti TH1RTEEN R3ASONS WHY 2 diventeranno soldati da immolare per far comprendere all’uomo che la vita fa schifo, che non puoi abituarti alla merda perché è un blob mutaforme, puoi scappare quanto vuoi, ma prima o poi ti beccherà per riportarti in quel pozzo profondo, più profondo degli occhi. E allora ai giochi addio, per sempre addio.

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Mai una gioia

In TH1RTEEN R3ASONS WHY 2 Clay Jensen vede il fantasma di Hanna Baker, lei gli parla, lei rompe sopratutto i coglioni, e, come in Happy Days con Ricky e Mork, nessuno oltre lui la vede. La giovane adolescente dai mille moti d’animo ora diventa solo una macchietta fastidiosa, collocata nella vita del protagonista senza un perché davvero logico apparendogli, puf, nei momenti più sacrosanti, soprattutto quando si apparta con la fidanzata ribelle. Immaginate l’emozione della prima volta, l’eccitazione di compiere quel passo importante nella vita come fare l’amore con la vostra ragazza e aggiuntevi Hanna Baker che vi fissa, con il suo broncio distrutto dai 300 panini mangiati tra una stagione e l’altra, mentre vi domanda piangendo “Perché mi hai dimenticato?”. Oddio che stress… Ed ecco che l’ansia di prestazione diventa abitudine perché, giuro, Hanna Baker appare sempre sul più bello e allora il pendolo batte impietoso le sei e vai a spiegare che è un caso, la quarantesima volta!

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Giuro è solo colpa di Hanna!

TH1RTEEN R3ASONS WHY 2 ripropone la stessa formula della prima stagione con adolescenti problematici, ma lo fa peggio come uno di quei seguiti anni 80 di film di successo, tipo Voglia di vincere 2, dove non avevi più l’attore protagonista ma speravi che il pubblico non se ne accorgesse. Qui il cast è al completo, ma sembra che tutta la voglia di denunciare temi scottanti sia scomparsa: tutta la storia raccontata col pilota automatico, ma soprattutto davvero nulla da censurare stavolta a parte l’idea, cogliona, di rendere Hanna Baker il fantasma formaggino e non una ragazza come tante, dai toni umanamente chiaroscuri.

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Magari col make up non si nota che non sei Michael J. Fox

Però dopo il 2 segue il 3 no? Anche una serie tv orribile come Scream ha avuto una terza parte che prometteva miracoli, maschera giusta, omicidi sanguinosi, e abbiamo avuto ovviamente una nuova stagione ancora più vomitevole delle altre con un Ghostface mai così umiliato e snaturato. Perché quindi non dare un ulteriore seguito a TH1RTEEN R3ASONS WHY?

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RIP Ghostface. Vai ad insegnare agli angeli come si accoltella.

Come per Stranger Things, altra serie che ha vissuto una seconda stagione mediocre, si resetta tutto come (quasi) non fosse mai esistita la precedente storia e si ricomincia con un nuovo intreccio che, si spera, spaccherà il culo ai passeri. Con Stranger Things ha funzionato e la terza parte era forse la migliore, la più horror, la più emozionante, ma TH1RTEEN R3ASONS WHY è sempre TH1RTEEN R3ASONS WHY nella declinazione da brutta da rapa che non puoi cavarci il sangue, da vecchio mulo che si incaponisce e come fai a farlo trotterellare per i sentieri del Perù? Impossibile.

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Stavolta nessuna Hanna Baker,  si ritorna al realismo della prima stagione e il pilot inizia col botto: una mancata strage di uno studente armato di mitra e Clay Jensen arrestato dalla polizia. Che è successo? E perché lo stupratore della scuola, Bryce Walker, è scomparso? Qualcuno l’ha ucciso? Ovvio che sì ed ecco che l’idea di TH1RTEEN R3ASONS WHY 3 è trasformare, anzi snaturare la serie, in Veronica Mars, nelle sue derive più becere da Scooby Doo high school.

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Un altro caso per Scooby Doo

Niente di interessante, personaggi ormai allo sbando, irriconoscibili anche caratterialmente da quelli della prima stagione, una trama così cretina che non ci credi con Clay che salva l’amico pronto a massacrare una scuola e giustamente uno gli chiede “Ma non è che lo rifà?”. E perché mai? Tanto scrive solo messaggi suicidi sul diario, ha gli occhi da pazzo e ripete “Voglio morire”, mica è uno pronto ad imbracciare il suo UZI e ritornare alla scuola per far saltare la testa a compagni e professori.

TH1RTEEN R3ASONS WHY 3 segue tante trame e sottotrame, guarda molto alla serie tv spagnola ÉLITƎ, ma la imbruttisce di molta retorica e imbecillità. La regia è accomodante e senza guizzi, le derive queer di Gregg Araki sono scomparse, ora davvero la serie è quel Big Mac che puoi modificare a tuo piacimento senza che nulla cambi, un prodotto senz’anima, senza più voglia di graffiare, senza più essere TH1RTEEN R3ASONS WHY nella concezione di Jay Asher.

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Non proprio Padre Pio

Alla fine ci sono riusciti, più di Hanna Baker che spunta molesta mentre caghi, a imbrigliare l’imbrigliabile, l’adolescenza, la ribellione, e a mostrare al pubblico come sarebbe perfetto ed utopico un mondo dove i ragazzini sì sbraitano e si azzuffano ma poi tornano col sorriso a casa, finalmente comprensibili ai genitori, lobotomizzati come quel film anni 90 con Kathie Wolmes, Generazione perfetta.

In quest’ottica di continuità quel frammento tagliato di carne e sangue, di dolore e grido d’aiuto, non ha più senso: TH1RTEEN R3ASONS WHY è solo quello che volevano i genitori preoccupati, uno show innocuo. Il suicidio di Hanna Baker non si incastra più, i geroglifici sono stati cancellati dalla tomba, McMurphy non vola più dal nido del cuculo, la Blue Whale è solo una balena cicciosa da colorare all’asilo. Tutto perfetto e rassicurante, ma cazzo che schifo.

Andrea Lanza

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E m i raccomando, ragazzi, fate i bravi!

Notte horror: Trucks – Trasporto Infernale

30 martedì Lug 2019

Posted by andreaklanza in film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, T

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anni 80, brivido, camion, camion assassini, macchinine killer, maximum overdrive, one o one, splatter scemi, stephen king, trucks

Per un motivo non ben precisato (ma forse c’entra la vicina Area 51) i camion iniziano ad avere una propria vita: si muovono da soli, hanno una certa intelligenza ed aggressività. Ma non solo i camion “veri”, anche quelli giocattolo! Un gruppo di persone cerca la salvezza in un’area di servizio ma scamparla non sarà semplice.

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Avete presente quando acquistate un greatest hits con le canzoni più belle delle vostra band rock preferita, che so i Guns N’ Roses, e un brivido freddo vi attraversa la schiena. Certo avete comprato quel cd con la copertina che sembra fotocopiata, a 1 euro e 99, dal cestone delle offertissime dell’Ipermercato di fiducia, proprio proprio vicino al mai venduto (ad anima viva) Zucchero filato nero di Mauro Repetto, ma che c’entra? C’entra mio amico, c’entra. Non voglio fare il Bob Dylan di turno e non ti dirò che la risposta è nel vento, ma davanti ai tuoi occhi sì. Se ora Axel ti sembra meno Axel con gli acuti che, per Dio, li ricordavi migliori e invece paiono il tentativo di Pupo di darsi all’heavy metal, è perché non sei lontano dalla realtà. Non è il greatest hits dei Guns N’ Roses ma un tributo ai Guns N’ Roses, roba che magari l’ha inciso Peppuzzo il tripparolo nella sagra della salsiccia di Torbellamonaca.

Don iu criiii tonait Ai still lov iu, bebiiiiiiiiiii!!!

Vai maestro Repetto con la sigla che oggi sostituirà quella tradizionale di Notte horror:

Trucks di Chris Thomson è quella fregatura incredibile che ti colpisce per la tua ingenua disattenzione. Magari, e dico magari, da bambino hai visto in tv Brivido (Maximum Overdrive) di Stephen King, nel quale un gruppo di camion ribelli, capitanati da un grosso cingolato con la facciona del Goblin de L’uomo ragno, teneva sotto assedio un gruppo di persone all’interno di una stazione di servizio. Magari, e dico magari, da bambino hai pensato “Che figata questa storia!“: le macchine che si ribellano, la cometa che fa impazzire la tecnologia, le battute fighe, la musica degli Ac Dc erano rock ‘n roll. D’altronde la prima e unica regia del Re non era male per davvero, piena di ingenuità certo, ma divertente, ben ritmata, un B movie ignorante e gagliardo che ti soddisfaceva come un grasso e malsano Big Mac, fanculo la dieta. Quindi quando hai acquistato questo film in dvd o l’hai visto quel lontano 22 giugno del 1999, proprio su Notte horror, magari, e dico magari, hai frenato la tua erezione nei pantaloni di giovane cinefilo, preparato le patatine Pat O Bon col ketchup già dentro e, One o one ghiacciata alla mano, hai atteso le 23, ora dell’arrivo di quel folle film coi camion e… cazzo, non era Brivido!

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La voglio ancora!

Amico mio, ingenuo amico mio, ti sei trovato nel mondo dei cd tributi, il lato B mai ascoltato di un 45 giri, la copia scema di Shining senza Jack Nicholson, insomma ora stai guardando Trucks, un film tv canadese, ispirato allo stesso racconto di Stephen King, Camion, ma senza essere quello che credevi, il cazzutissimo Maximum overdrive con Emilio Estevez che chiede tutto romantico ad una ragazza: “Te la sei depilata?“.

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Non è andata come nei piani, Stephen?

Il problema è che Brivido all’epoca non è piaciuto a nessuno, è stato un fallimento in un periodo dove per fare successo bastava scrivere su una locandina il nome di King, disprezzato dai fan e dal suo stesso autore tanto che con gli anni qualche buontempone l’ha ribattezzato “Il plan 9 from outer space degli anni 80“.

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Il film sbagliato, quello bello

Quindi sulla carta Trucks era il Brivido bello, quello girato da un regista vero non da uno scrittore, ignorante del mezzo cinematografico, con in più pesanti dipendenze da alcol e droga. Qualcosa dev’essere andata storta però perché, per assurdo, Trucks sembra il Brivido brutto, quello girato peggio e che fa sembrare Stephen King un George A. Romero.

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Anonimo camion in un anonimo film

Se Maximum Overdrive era la rilettura con camion di The night of the living dead,con l’idea presa però da Zombi di un luogo amato che attira le macchine morti viventi nella nuova vita, in Trucks tutto questo viene banalizzato, dimenticato per concentrarsi sull’effetto splatter insistito o sui banali personaggi.

Chris Thomson, che ha come curriculum vitae tanta tv e un dramma con Kylie Minogue non male, I delinquenti, gira sciattamente, non riesce mai a conferire il senso di oppressione e paura che la storia richiederebbe, e confeziona un film indecente, mal recitato e con diverse situazioni non sense di rara cretineria.

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Tuta killer

Che dire davanti all’omicidio di un postino con la testa spiaccicata da, credetemi che è vero, una macchinina telecomandata? O della tuta che si rianima con l’elio e fa a pezzi due malcapitati a colpi d’ascia? O ancora l’esilarante momento dove una donna armata di accetta si accanisce su un camion fermo urlando, in perfetto overacting, “Muori maledetto!”?

La sceneggiatura di Brian Taggert, uno degli scrittori della classica miniserie Visitors, è densa di coglionerie incredibili come mostrare un uomo che per sfuggire ai camion assassini cerca di scappare… a bordo di un camion! Perfetto esempio di un film sciagurato e stupido che, in 95 minuti, riesce ad essere il perfetto manuale di come non si dovrebbe girare un horror.

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Brr! Macchinine assassine!

Stendiamo tanti veli anche sul finale che si vorrebbe crudele e invece è solo confuso, sugli attori uno più incapace dell’altro (compreso un giovanissimo Brendan Fletcher pre Uwe Boll), ma soprattutto sulle cose che non ci sono ed erano iconiche in Brivido: la cometa, le altre macchine impazzite (il bancomat che dice allo stesso King “Sei un coglione” o il tritacarne che macera la mano della cameriera del drugstore), e il faccione del Goblin, vero protagonista malvagio della vicenda.

Resta un brutto adattamento di Camion, arrivato anche qui in Italia su Notte horror e poi in un dvd fuori catalogo, qualcosa di talmente orribile che viene voglia di rivalutare come capolavoro il vecchio Maximum overdrive, che bello forse non era, ma, cazzo, si trattava di cinema di serie B cazzutissimo e che, porca troia, ci manca.

Andrea Lanza

Trucks – Trasporto Infernale

Titolo originale: Trucks

Anno: 1997

Regia: Chris Thomson

Interpreti: Timothy Busfield, Brenda Bakke, Aidan Devine, Roman Podhora, Jay Brazeau, Brendan Fletcher, Amy Stewart, Victor Cowie, Sharon Bayer

Durata:95 min.

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Copertina già indecente

Transformations …e la belva sorgerà dagli abissi

15 sabato Giu 2019

Posted by andreaklanza in demoni, Empire, erotici, fantascienza, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, satana, T, tette gratuite, tette vintage

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Alien transformation, Ann Margaret Hughes, Benito Stefanelli, Cec Verrell, charles band, Christopher Neame, Donald Hodson, empire, Jay Kamen, Lisa Langlois, Loredana Romito, mark caltagirone, Michael Hennessy, Pamela Prati, Patrick Macnee, Rex Smith, Transformations, Transformations... e la bestia sorgerà dagli abissi

In viaggio nello spazio, Wolfgang Shadduck scopre di avere a bordo un passeggero clandestino: una donna bellissima e sensuale, al fascino della quale l’uomo non riesce a resistere. Ma al termine dell’amplesso, davanti agli occhi di un inorridito Shadduck, la creatura si trasforma in un mostro repellente e poi scompare. Convinto di aver avuto un incubo – della donna non rimane alcuna traccia – Wolfgang prosegue il suo viaggio fino a quando un’avaria lo costringe ad un atterraggio forzato su un pianeta che ospita una colonia penale. Qui il pilota conosce Miranda e se innamora, ma viene sequestrato assieme a lei da un gruppo di detenuti evasi che vuole usare la sua nave per fuggire, ed è costretto a decollare dall’asteroide. Durante il volo, il mostro si materializza nuovamente e dà inizio alla strage. 

Ah l‘Empire di Charles Band! Solo a nominarla mi ritornano alla memoria, come madeleine proustiane, vecchie vhs, film improponibili trasmessi nella notte più fonda da tv private, riflesso anarchico di un cinema potentissimo e miserabile che tutto poteva anche senza nulla avere!

Per tutti l’Empire è stata Re- Animator, Ghoulies, From Beyond, Dolls, low budget di un certo culto, ma in pochi si dimenticano, o non sanno, dell’esistenza dei figli minori dell’impero di Charles Band.

Scriveva De Andrè alla fine della meravigliosa La città vecchia:

“Se ti inoltrerai lungo le calate

dei vecchi moli

in quell’aria spessa

carica di sale gonfia di odori

lì ci troverai i ladri gli assassini

e il tipo strano

quello che ha venduto per tremila lire

sua madre a un nano“.

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Mai strofe calzano più a pennello per un sottomondo, un po’ alla Underworld di Clive Barker/ George Pavlou, nauseabondo e poco invitante, nel quale, più che imbatterci in belle pellicole, ci troviamo davanti a veri mostri, sgraziati, arrabbiati e incattiviti. E, sempre come per De Andrè, la soluzione è, più o meno, la stessa: o liquidi questi film per quello che sono, merda, schifo, a morte il regista, o, amico mio, apri la tua bella birra, liberi la pancia dai pantaloni, via le scarpe, sciallato sulla tua poltrona, ti fai avvolgere da quei liquami, da quella trama improponibile, rischiando pure di divertirti.

L’Empire sfornò, nella sua folle corsa di appena 6 anni, un sacco di brutte pellicole fighissime come Breeders di Tim Kinkaid con alieni arrapati e ballerine nude, Creepozoids di David Decoteau con la Linnea Quigley del nostro cuore e dei topastri mossi a mano dagli attori, momenti teneri e irripetibili, Terror vision di Ted Nicolau con la recitazione dell’intero cast oltre l’overacting, e naturalmente questo Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi, con un titolo così brutto, poco accattivante che non poteva essere altro che un capolavoro dell’infimo.

Quindi l’Empire non era solo buone pellicole strane e folli, tipo Troll o Ork di John Carl Buechler, ma anche, e soprattutto, filmacci da cestone del supermercato, film dalle copertine orribili che sembravano urlare l’eutanasia piuttosto che una visione.

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Questi film, americani nel cuore ma girati in italia nei capannoni di proprietà dello stesso Charles Band, erano successi sicuri, venduti in tutto il mondo e dal budget così misero che anche la vendita di una vhs poteva garantire un’entrata, anche perché la maggior parte di loro non avrebbe mai visto la luce della sala cinematografica.

Con Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi siamo in territorio scifi horror, in un’ambientazione quasi tutta in interni per sfruttare al massimo gli scenari riciclati da una produzione più ricca, Arena, uno dei costosi fallimenti, con Robojox di Stuart Gordon, del periodo finale Empire.

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Loredana Romito in tette e ossa

Inutile dire che la trama scritta da Mitch Brian, più a suo agio come sceneggiatore per il magnifico Batman: The Animated Series, sia un guazzabuglio inenarrabile composto da dialoghi deliranti, scene che sembrano improvvisate, e tante tette e sesso a cazzum per intontire lo spettatore beota. Per esempio ad un certo punto una dottoressa, interpretata dalla Lisa Langlois di Classe 1984 e Occhi della notte, dice al nostro eroe, il pilota spaziale Wolf, “Devo fare una cosa importantissima. Aspettami qui” e poi la vediamo fermarsi per lunghi minuti con fare pensieroso in una stanza vuota, non facendo nulla, giuro nulla, per poi tornare indietro. Cioè cosa diavolo doveva fare di importante????

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Alieni e sesso prima di Species

Non aiuta neppure la regia di Jay Kamen, tecnico del suono per produzioni di un certo livello come Robocop 3 o Caccia ad ottobre rosso, impacciatissimo al suo debutto (unico) dietro la macchina da presa. Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi stilisticamente è vicino al linguaggio del telefilm (sciatto) degli anni 80, un valore, per assurdo, aggiunto ad una visione ignorante da filmaccio uscito dalle vhs.

C’è da dire che la pellicola ha almeno due buoni attori, la già citata Langlois e il Patrick Macnee di Battlestar galactica, che però vengono mal sfruttati in una storia che li vede spauriti e visibilmente impacciati. Il resto del cast è miserabile, a partire da un protagonista legnosissimo, il cantante Rex Smith, lontano dai fasti del suo serial tv Il falco della notte. Per non contare poi le presenze inenarrabili delle nostre starlettes Pamela Prati e Loredana Romito, nudissime ovviamente. La prima, la Pamelona del tormentone trash tv Mark Caltagirone, interpreta l’aliena che contamina il protagonista all’inizio del film, la seconda è invece una prostituta rimorchiata da nostro Wolf in piena mutazione genetica che, prima di Species, spinge, gli extraterresti a ciulare il più possibile.

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Pamela Prati prima della D’Urso e di Caltagirone

Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi tenta un discorso anche interessante sull’AIDS e sul contagio sessuale, ma ogni buona intenzione, si sa, se la deve vedere con le vie distorte del diavolo delle brutte sceneggiature. Quindi inutile vederci significati reconditi: la pellicola di Jay Kamen è exploitation al più basso livello che prosegue a forza di sgnacchera e sangue.

Sia dato atto però che la trama anticipa pericolosamente quella di Alien 3: un’astronave con  l’infezione, il mostro, che precipita in una colonia penale. C’è pure un prete, Patrick Macnee, a sancire l’elemento fortemente religioso dell’opera. Ovviamente le due pellicole stanno agli antipodi, inconciliabili e con un’idea diversa di cinema: il film di Kamen divertimento rozzo senza pretese, quello di Fincher un’ambiziosa opera sci-fi molto stilosa. Però è bello sognare che, una notte insonne, facendo zapping sulla tv, uno degli artefici della travagliatissima stesura di Alien 3, magari il non accreditato  David Twohy di Pitch Black, sia stato folgorato dalla visione di Transformations. Sua fu d’altronde l’idea di trasformare il pianeta, sul quale l’astronave di Ripley/Sigourney Weaver atterra, in una colonia penale.

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Per il resto abbiamo davvero davanti un filmaccio di bassa lega, pregno di momenti involontariamente comici, a partire dai primi minuti di film quando il nostro Wolf non si chiede che diavolo ci fa su un’astronave, fino ad un secondo prima deserta, la nostra Pamelona arrapatissima. Il suo pensiero probabilmente è che sia stata nascosta, senza mangiare né bere per giorni, in attesa di fargli una sorpresona per il suo compleanno. “Quei mattacchioni dei miei amici” esordisce il non proprio intelligentissimo protagonista prendendosi una sifilide aliena che gli procurerà bolle su tutto il corpo abbastanza schifose che esploderanno in pus.

Transformations ci insegna che nel futuro le lauree non serviranno più: l’unica dottoressa della prigione, interpretata dalla bellissima e assente Langlois, non ha nessun titolo accademico come ci conferma lei stessa in uno dei tanti dialoghi surreali. Fa il medico e agisce da medico semplicemente perché la chiamano “Dottore” e indossa un camice. D’altronde tutto il suo apporto scientifico per debellare la mutazione del protagonista è limitato in intensi occhi da cerbiatto e frasi come “Ti amo dal primo momento che ti ho visto“. Va bene che l’amore può vincere tutto, ma insomma…

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Cast di disperati

Aggiungiamo al pasticciaccio una sottotrama senza interesse, e subito liquidata, con tre detenuti che evadono dal carcere, girata così sciattamente nelle scene d’azione da suscitare tenerezza.

Gli effetti speciali sono abbastanza efficaci nella semplicità di uno spettacolo che richiede solo tre elementi: nudi, schifezze varie e un ritmo abbastanza concitato. Chi si accontenta si divertirà e il film si lascia guardare senza danno ferire, di certo meno ributtante di come le recensioni l’hanno sempre accolto.

Dispiace solo che un ottimo direttore della fotografia come Sergio Salvati sia stato coinvolto in uno dei suoi lavori meno efficaci, lontano non solo dai fasti fulciani ma anche dalle buone, precedenti prove Empire come Ghoulies 2, Puppet Master o Striscia ragazza striscia.

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L’Empire, per motivi finanziari, fallirà da lì a poco, trasformandosi in quella che ad oggi è la Full Moon, ma film così belli nella forma miserabile come Transformations non si sono fatti più.

E in fondo ci dispiace.

Andrea Lanza

Transformations… e la bestia sorgerà dagli abissi

Titolo alternativo: Alien transformation

Titolo originale: Transformations

Anno: 1988

Regia: Jay Kamen

Interpreti: Rex Smith, Lisa Langlois, Patrick Macnee, Christopher Neame, Michael Hennessy, Donald Hodson, Ann Margaret Hughes, Pamela Prati, Loredana Romito, Benito Stefanelli, Cec Verrell

Durata: 84 min.

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Time Walker

08 lunedì Apr 2019

Posted by andreaklanza in fantascienza, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, T

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Al cinema alcuni mostri funzionano più di altri. Dracula è stato protagonista di un bel centinaio di film, ed è riuscito, tra un morso e l’altro, ad avere spose, amanti, figli e combattere persino contro i leggendari 7 vampiri d’oro. Anche per Frankenstein la vita è stata lunga con nel curriculum anche una commedia teen dove, tutto fiero, mostrava il suo poderoso ammennicolo alle ragazze intrippate di un college. Solo che la vita non è stata così generosa con tutti i mostri.

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Io ho scopato

Il mondo dei cattivi, si sa, è spietato: né l’uomo lupo né le streghe sono mai riusciti ad avere una filmografia lunghissima, ma la più sfigata resta la mummia. A lei nessuno vuole bene. Se esistono fan club per licantropo, uno che sotto sotto quando non sbrana ha la libido di Rocco, e le streghe piacciono alle ragazzine goth, la mummia invece non ha presa per nessuno. Brutta è brutta, sexy non è sexy, oltre a puzzare è un mostrone non molto inventivo neanche nelle sue gesta malvagie: quando uccide, si limita a strozzare. Che noia, che barba. Per questo hanno cercato di svecchiarla con gli avventurosi di Brendan Fraser o Tom Cruise, ma non era più lei, c’era al suo posto un pelatone muscoloso o una figa incazzata. L’unica mummia, non si scappa, è quella avvolta in bende vecchie che sembrano carta igenica sporca di merda. Con un curriculum così non è che fai molta strada.

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Pose da mummie

Certo in passato c’è stata la Hammer e prima ancora la Universal a dare il lustro a questo vecchio mostro, muto e lento più degli zombi, ma, siamo sinceri, a a parte i capolavori di Karl Freund e Terence Fisher, il resto era tra il mediocre e il pessimo. I più potranno dire “Ma c’è Exorcismus – Cleo, la dea dell’amore (Blood from the Mummy’s Tomb) che è bello!” è vero, poi io sono un fan delle tettone di Valerie Leon, ma nessuna mummia claudicante, solo maledizioni egizie, un altro campo da gioco.

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Tette e mummie

Gli anni 80 poi ci hanno provato a farla resuscitare ma le produzioni erano scalcagnate, Scuola di Mostri a parte. D’altronde come non pensare di avere toccato il fondo davanti ad una cosa come Dawn of the mummy del 1981, una coproduzione tra Italia e USA, così brutta che da noi, pur avendoci messo i soldi, non è mai uscita. Il regista Farouk “Frank” Agrama, uno che aveva girato il King Kong degli scemi, Queen Kong (non quello con la Nappi), durante la visione di Zombi di Romero, aveva sicuramente avuto l’idea di una vita, quella che ti porta nell’Olimpo dei grandi, spostati Carpenter. “Perché non girare un film simile con le mummie al posto dei morti viventi?“. Risultato: un pasticcio gore girato col culo, con una perenne musica fastidiosa a cazzum, una cosa che sembra uno scherzo brutto alla Conte Mascetti più che un film.

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Le mummie più brutte di sempre

Time Walker, girato col titolo di lavorazione di Pharoah, arriva un anno dopo, nel 1982, a dire la sua sulle mummie. Da noi ha persino una distribuzione limitata, in vhs per la Antoniana/DB Video, con un doppiaggio allucinante che traduce l’intraducibile. Così abbiamo giochi di parole tra mummy e mommy (mamma) riproposti tali e quali in italiano dentro frasi senza senso come “Scomparve una ragazza, restò per 9 mesi in una tomba e la scoprirono mummia“. Ehhhhhhhhh??????

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Forte delle frasi di lancio “Nulla può fermarlo neppure la storia” o “Per milioni di anni attraversarono le Galassie: Per secoli uno di loro è rimasto intrappolato nella tomba di un faraone. Ora è libero” ci si aspetta un bell’horrorazzo archeofantascentifico con un alieno mummia incazzato che fa stragi a destra e pure a mancina, manco fosse Svicolone. Si e no, più no che sì, soprattutto perché il film è di una mosceria incredibile.

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Time Walker non calca mai la mano sul sangue, i nudi sono pochissimi (una ragazza che si spoglia) e non riesce ad essere mai troppo spaventoso, un disastro per un film che vanta una sceneggiatura di rara dabbenaggine e non può contare neanche sul divertimento coatto.

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Si aprono mille sottotrame, amori tra i personaggi, un giro di merce rubata all’università e soprattutto una muffa assassina che fa marcire gli arti. Solo che, con lo scorrere dei minuti, nessuno di questi spunti viene portato a termine, con il risultato che anche anche il tocco della mummia, mortale come l’ebola fino ad un secondo prima, verso l’epilogo non fa più nulla, solo perché il regista, anche inetto sceneggiatore, probabilmente se l’è dimenticato.

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Io poi voglio dire: ma, Tom Kennedy, vuoi girare un film horror su una mummia al college, sei negli anni 80, l’epoca dello splatter, ma mettici due morti, dico, due almeno che mi fai dire, a me spettatore, wow, che cazzo, non ci credo. Invece la mummia arriva su dei pattini, o almeno l’effetto è quello, e tocca le sue vittime, puf, morte, e poi se ne va. Ma che diavolo, è come se, in un porno vintage con Ginger Lynn, ad un certo punto la musica è quella giusta da porcone, cia cia cia, ma gli attori al posto di darci dentro, di fare vedere la mercanzia e cominciare la danza degli assatanati, oh yeah, fuck me, bitch, si danno solo due bacini e poi a nanna, tutti a casa propria, domani ci si alza presto. Come come come? Tom Kennedy, già stai girando un film di merda, ma almeno fai merda divertente!

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Forse si tromba, forse no

Gli attori sono o improponibili o sprecati in ruoli subliminali, a cominciare dalla Shari Belafonte di La notte di Halloween, anche bravina, ma inserita a forza nel contesto. Ad un certo punto salta fuori il grande James Karen de Il ritorno dei morti viventi, un vero attore in mezzo a tanti cani. Peccato che per lui valga la stessa storia di Shari: il suo personaggio dice due frasi di circostanza, batte i pugni sul tavolo, ghigno di repertorio e poi scompare per riapparire solo nel finale. Tempo sullo schermo: 5 minuti scarsi. Oh my god!

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Cani più attore bravo in mezzo

Time Walker poi vorrebbe essere più ricco di quello che è, ma, col suo budget esiguo, non ha la possibilità di girare neanche un finto intro in Egitto. Quindi due immagini di repertorio delle piramidi e voci fuoricampo di due archeologi che affrontano il pericolo. L’effetto è comicissimo e poverissimo nel contempo, un cinema mai così vicino alla radio.

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Non voglio poi fare il pretestuoso, non ho mai studiato archeologia, ma non mi sembra la cosa più furba del mondo quella di aprire un sarcofago chiuso da millenni senza neanche una mascherina protettiva. Oltretutto dove vai a trafugarlo? Dalla celeberrima e maledettissima tomba di Tutankhamon. Cioè con questo faraone si muore dal 1923! Non lamentarti poi delle conseguenze!

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Time Walker cerca, fallendo, una certa originalità nel riproporre il solito canovaccio sulle mummie assassine con innesti di fantascienza, ma non riesce mai ad essere né convincente né davvero innovativo. Nel finale poi tenta una corrispondenza delirante con il quasi contemporaneo ET di Spielberg, soprattutto quando capiamo le ragioni dell’alieno/mummia: vuole solo tornare a casa. Cioè fatemi capire, questo EBE dagli occhioni grandi sotto le bende, che uccide con il tocco muffoso la gente, che ha nel petto una pietra lunare accecante, che insegue sui pattini ragazze terrorizzate, che sfonda tetti di un’ascensore e che ha la visione verde come un cazzo di Predator salviniano, era bravo???? E che cazzo ho visto prima?

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Alieni bravi

Micidiale poi il “TO BE CONTINUE” prima dei titoli di coda, nell’idea assassina di un Time Walker 2 che, grazie a Dio, non si farà mai.

Giustamente Tom Kennedy firmerà qui la sua prima e unica regia, anche se il film incasserà abbastanza a livello regionale.

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Time Walker fu distribuito negli USA dalla New World Pictures, la stessa di Slumber party massacre, uno slasher dello stesso anno nettamente superiore. 

Che dire d’altro di un film soporifero, stupido e poco divertente? Nulla a parte che siete stati avvertiti, se volete vederlo e vi fa schifo non prendetevela poi con noi!

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NB Il film fu al centro di un episodio della serie Mystery Science Theater 3000 che proponeva film brutti con il commento dissacrante dei protagonisti, un astronauta e due robot. La conclusione del trio era che Time Walker fosse uno dei film più brutti mai visionati, per essere precisi più terribile dei già terribili ” Il terrore viene d’oltretomba, The Side Hackers, Ator 2 – L’invincibile Orion, Catalina Caper, Visitors – -I nuovi extraterrestri, The Hellcats, Daddy-O, Rocket Attack U.S.A., La vendetta del ragno nero, Ring of Terror, Il conquistatore del mondo, Il continente scomparso, Luna zero due, Le donne del pianeta preistorico, Time of the Apes, Wild Rebels, Stranded in Space, King Dinosaur, Mighty Jack, RX-M Destinazione Luna, Santa Claus Conquers the Martians, The Unearthly, Adolescente delle caverne, Soyux 111 Terrore su Venere, Abbandonati nello spazio, The Giant Gila Monster, I cavalieri del futuro, War of the Colossal Beast, I giganti invadono la Terra, Fugitive Alien, Star Force: Fugitive Alien II, Master Ninja I, Gamera, Il ritorno di Godzilla, Gamera vs Zigra, Gamera vs Barugon, and Gamera vs Guiron” e persino dell’imbattibile franchiano “Il castello di Fu Manchu“. Comunque, nella versione Mystery Science Theater 3000, Time Walker è spassosissimo. 

Andrea Lanza

Time walker

Anno: 1982

Regia: Tom Kennedy

Interpreti: Ben Murphy, Nina Axelrod, Kevin Brophy, Robert Random, James Karen, Sam Chew Jr., Melissa Prophet, Austin Stoker, Gerard Prendergast, Shari Belafonte, Antoinette Bower, Darwin Joston, Greta Blackburn, John Lavachielli, Clint Young, Ken Gibbel, Gary Dubin, Greta Stapf, Michelle Avonne, Vanna Bonta, Warrington Gillette, Alan Rachins, Allene Simmons, Jason William

Durata: 83 min.

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Trauma

28 venerdì Dic 2018

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, drammatici, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni, T

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cile, lucio a. rojas, pinochet, torture porn, trauma

Di Trauma avevo letto solo critiche poco lusinghiere: tanti giri di parole per definirlo alla fine una cagata di quelle peggiori, i film pretestuosi. Quanta acredine e ingiustizia: la pellicola di Lucio A. Rojas è girata bene, dal ritmo indiavolato, un horror anche divertente, fermo restante che devi avere uno stomaco di ferro per le varie truculenze presenti. Siamo in puro territorio  da exploitation anni 70/80, gli stessi luoghi che abbiamo percorso da cinefili con le famiglie disfunzionali di Tobe Hooper, con i serial killer scalpatori di William Lusting, e con gli stupri selvaggi, senza vasellina, di I spit on your grave, L’ultima casa a sinistra ma anche nel sempre poco citato Death Wish.

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supercazzola

Certo Trauma è anche un film che fa incazzare, che non ti permette però, se lo odi, di dichiarare subito che è merda, perché, a suo modo, è un film subdolo e furbo: è come un miserabile mendicante che un giorno tira fuori dal suo sacchetto cencioso un vestito buono, d’alta sartoria, si rade, si fa’ una doccia e si beve un caffè al tuo bar. Cioè tu sai che è Jean Paul il barbone che vive con 44 cani in una catapecchia, che una volta l’hai persino visto mangiare un ratto in un vicolo con un sorriso beato da baubau kinghiano, ma il tuo cervello ora è in corto circuito, i vestiti, il profumo, persino il mignolo alzato mentre dice “C’est magnifique“.

vlcsnap-2018-12-28-16h20m36s685 Ecco Trauma è così: un rozzo exploitation dalla confezione ottima che usa una supercazzola qualunque per darsi un tono, in questo caso un contesto storico per giustificare i suoi mostri, la dittatura di Pinochet in Cile. Il problema è che questa cornice impegnata è intercambiabile con altre più futili senza che il risultato cambi di una virgola: che i pazzi cannibali incestuosi di Rojas siano figli della guerra o di una cometa importa poco, tanto ambiziosamente artificiale è l’impegno di denuncia del regista/sceneggiatore.

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distogliere l’attenzione

Diverso era il caso di Srdjan Spasojevic: se toglievi al suo A Serbian film tutto il sottotesto politico allora sì che diventava solo un film sadico e non la bomba emozionale che effettivamente è stato. In Trauma con o senza Pinochet invece hai lo stesso identico, buon film sadico. Con la variante che A Serbian film è un capolavoro e Trauma un buon intrattenimento per ragazzacci. Cosa non male comunque. D’altronde questa pellicola, girata con soli 180 mila euro (stando a quello che scrive IMDB) è inaspettatamente stilosa con una fotografia patinata che stride davanti  agli ambienti sporchi e malsani, con una regia forse non troppo inventiva ma tremendamente efficace, un piccolo miracolo di tecnica che non è esente da sbavature, ma sono le stesse che potresti trovare in un horror miliardario di Nispel.

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Vedendo Trauma mai che ci sia una sola volta che pensi alla miserabilità del budget, anche perché nei momenti evidentemente più pauperistici il buon Rojas è lesto a diventare un mago alla The Prestige. E’ la famosa tecnica delle tette: ad un film noioso o in un deragliamento narrativo bisogna infilarci delle sane bombe mammarie. Così lo spettatore nella sua semplicità si perde, lo inganni, non ha visto l’asso nascosto nella manica, mon ami. Lo stesso qui: : è vero che almeno in un’occasione c’è una sparatoria da Jean Claude Van Damme dei sobborghi di Sofia, ma la dimentichi, non le dai importanza perché il buon Lucio è veloce ad intervallarla con uno squartamento feroce, così distogli lo sguardo e voilà ti ricordi solo dell’effettaccio, questo davvero figo.

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Trauma è un film che non punta al corteggiamento da primo appuntamento, ti infila una mano nella patta dei pantaloni e ti sussurra sicuro “Divertiamoci“. Già la prima scena porta gli spettatori in prima fila nell’orrore: una donna dal viso pesto subisce la violenza più infame, uno stupro da parte del figlio adolescente sotto viagra, un atto voluto dal suo stesso padre, un comandante dell’esercito cileno. Rojas si spinge oltre, in una scena già ideologicamente disgustosa, con la testa della donna che viene fatta saltare in aria mentre il ragazzo continua a spingere, spingere con gli occhi assenti e la follia che avanza. Da qui è un luna park di orrori: altri stupri, sperma confuso col sangue, acido che corrode i visi, mascelle strappate, bambini torturati e tanto altro.

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Prendere o lasciare sicuramente, ma, nell’ottica di stare vedendo solo un film, Trauma diverte come uno slasher cattivo, è uno spettacolo sadico ma non pedestre, uno splatter che cerca consolazione nel reale per poi rivelarsi tremendamente irreale, un horror di mostri immortali, di situazioni cretine trattate con la stessa serietà né più né meno di un Friday 13th col divieto ai minori di 30 anni.

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Meglio di Sendero, l’opera precedente del regista, rozza e a tratti imbarazzanti, che però aveva nel suo andamento zoppicante già i semi inespressi di questo Trauma. Certo è che se prendi la pellicola di Rojas con troppa serietà arrivi a notare il suo tallone di Achille, una sceneggiatura scema, superficiale e irritante come poche che ad un certo punto tenta pure un discorso femminista eleggendo, come in un James Cameron anni 80, una donna a protagonista stracazzuta, ma è come quando si faceva gli intellettuali di sinistra per scopare di più, nessuno davvero ci credeva.

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Ora come ora Trauma è un film semi invisibile, almeno in rete, ma su amazon.com si trova senza problemi il blu ray con i sottototitoli inglesi. Non preoccupatevi se masticate poco le altre lingue, i dialoghi alla fine sono pochi e di certo non scritti da David Mamet. Io comunque ve lo consiglio.

Andrea Lanza

Trauma

Regia Lucio A. Rojas

Anno: 2017 (Cile)

Interpreti: Catalina Martin, Macarena Carrere, Ximena del Solar, Dominga Bofill

Durata: 106 min.

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Tau

10 lunedì Set 2018

Posted by viga1976 in fantascienza, Le recensioni di Davide Viganò, robot malvagi, T, thriller

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film, gary oldman, netflix, recensioni, tau

Opera prima del regista uruguaiano Federico D’Alessandro  e distribuita da Netflix, Tau è una godibile pellicola di fantascienza in bilico tra omaggio al passato e  messinscena moderna.

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Un prodotto in cui la confezione molto curata serve per donare al pubblico una storia tipicamente horror anni 30/40 con tanto di scienziato pazzo, una creatura che si ribella al suo creatore e naturalmente la bella in pericolo. Ovviamente la sostanza della storia viene rielaborata e filtrata attraverso altri omaggi a generi e sottogeneri, cercando di offrire al pubblico dei “cinefili de internet”, incapaci di accontentarsi di una storiella ben narrata, delle immagini suggestive, eleganti, con un lavoro sulle luci che cerca di rimandare a Neon Demon ma è chiaro che non siamo nemmeno nei paraggi di un Refn.  Tuttavia questo contrasto tra narrazione e messa in scena genera un certo interesse intorno alla pellicola. Uno scontro/incontro tra decenni di cinema di genere, un discorso a volte frammentario e subliminale, col fine di lasciare spazio all’idea centrale, non originalissima a dire il vero, che ha il merito però di rendere godibile un film altrimenti confuso.

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Ancora una volta è il come e il chi porta in scena un’opera. La fissazione per una narrazione originale o, peggio ancora, alternativa alle regole del genere ha – di fatto- creato una serie di critici che vedono il cinema come prodotto tecnico fine a sé stesso e di spettatori che -ahimè e mortacci loro- si reputano troppo intelligenti e furbi, per poter star in silenzio e godersi uno spettacolo. No, ma che scherziamo? Così devono parlare di montaggio, di long take,  e far parallelismi inopportuni. Costoro vi diranno che Tau è robetta da poco, un filmino davvero pleonastico e poi prenderanno l’occasione per parlare male di Netflix, madre di ogni sciagura che si abbatte sull’industria cinematografica.

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Tau è un filmino, segue strade già battute e ha forse dei problemi in fase di scrittura che son ben evidenti in alcune scene, a volte è inverosimile con qualche forzatura narrativa di troppo, tuttavia ha dalla sua un ottimo Gary Oldman che dona a Tau una toccante e a tratti commovente potenza e credibilità. Il film diviene la scoperta del mondo, della vita,  da parte di un’intelligenza artificiale, ma non solo questo: Tau diventa cosciente di essere vivo. Certi tentennamenti. stupori, suppliche al padrone mostrano una fragilità infantile, da parte di questa intelligenza artificiale, verso la quale ci è impossibile rimanere indifferenti.

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Il rapporto tra Julia e Tau è ricco di sfumature. C’è alla base la manipolazione da parte della donna, che scopre la curiosità di quella intelligenza artificiale per il mondo e la vita fuori dalla casa in cui entrambi sono “prigionieri”, che man mano la pellicola procede diventa anche un rapporto di amicizia e sostegno. L’evoluzione del progresso scientifico- tecnologico è talmente avanzata che, forse, un domani sarà difficile dire con sicurezza cosa è umano e cosa no. Quanto contano i sentimenti, le sensazioni, le emozioni in un essere umano? Per me moltissimo. Sono tutti quegli elementi che ci rendono vivi e perciò anche imperfetti. Eppure senza di essi saremmo solo dei robot, automi che ripetono gesti e vivono attraverso delle formule, razionalmente ma senza sporcarsi e mettersi in gioco.  Tau è il fratello ottimista di Her.  D’Alessandro non è Refn ma nemmeno Spike Jonze e dove questi autori mettono dubbi, dolore,  riflessioni anche alte, egli normalizza attraverso il genere puro. Pur giocando attraverso la mescolanza di generi passati e presenti ( si parte dai classici Mad Doctor Movies ad accenni di torture porn fino alla fantascienza legata alla scoperta della vita da parte delle macchine, fino al cinema di sequestro e quello di fuga) il discorso non diventa mai una riflessione profonda sul genere, la contaminazione, la ricerca di elementi classici dietro un modo moderno di far cinema.

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Tau è un semplice film su un’intelligenza artificiale che scopre cosa sia la vita. Per farlo c’è bisogno che esista uno scienziato folle- il quale vista la nostra epoca tecnologica e computerizzata è una sorta di Steve Jobs diabolico, feroce, disumano, uno di quei cattivi puri e anche tanto pirla, che mancavano da un po’ di tempo nel cinema di genere- il quale rapisce delle persone per sottoporle a un esperimento che sovvertirà il mondo. No, non è vero. Non sovvertirà nulla. Ma a esser sinceri la parte in cui il film diventa un po’ l’Hostel dei poveracci è francamente dimenticabile. Come gran parte delle scene che vedono all’opera il cattivissimo anche cretinissimo e Julia, il personaggio principale, una donna dalla vita difficile ( si lascia intuire un passato di violenze e soprusi) che vivacchia facendo la borseggiatrice. Un brutto giorno viene rapita da Alex, mi par si chiami così il cattivo di questo film,  per essere sottoposta a un brutale esperimento. La ragazza non si dà per vinta e insieme ad altri prigionieri cerca di evadere. Ovvio che il piano finisca in una carneficina ad opera di un robot che pare uscito da Robocop o un film anni 80. Da questo momento fino alla conclusione, Julia cerca in tutti i modi di evadere da questa casa-prigione gestita da un’intelligenza artificiale: Tau. La donna intuendo che esso è interessato alle cose del mondo, all’arte e alla cultura -ed è convinto di essere “vivo” nello stesso identico modo di Julia-  sfrutta questa debolezza della macchina per poter fuggire. Nondimeno tra i due nasce una tenera amicizia.

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In conclusione: Tau è un film assai godibile, un puro prodotto del cinema medio, ostenta un estetica fin troppo legata a un certo modo di far cinema ma questo non impedisce al film di esibire la sua natura di puro B movie. Concentratevi sulla performance di un ottimo Oldman e gustatevi l’evoluzione della storia d’amicizia tra Julia e Tau. Poi andate a ripescare i classici con gli scienziati pazzi e il cinema di prigionia.

Per quanto mi riguarda attenderò di valutare meglio il lavoro di D’Alessandro con la prossima pellicola. Per me, ora, è un buon regista. Spero possa migliorare nelle sue prossime opere.

Davide Viganò

Tau

Anno: 2018

Genere: fantascienza

Regia: Federico D’Alessandro

Sceneggiatura: Noga Landau

Interpreti: Maika Monroe, Ed Skrein, Fiston Barek, Ivana Zivkovic, Sharon D. Clarke,Ian Virgo, Paul Leonard Murray

Note: La voce di Tau è di Gary Oldman

Durata: 97 min.

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Terrifier

25 venerdì Mag 2018

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, demoni, Recensioni di Andrea Lanza, slasher, splatteroni, T, thriller

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art il clown, art the clown, damien leone, halloween, mimo clown, morire male, morire malissimo, non aprite quella porta, pagliacci cattivi, ragazze segate in due, terrifier, texas chainsaw massacre

Terrifier è il filmaccio che spegni dopo cinque minuti scegliendo produzioni più importanti, gli squali in CGI brutti di Deep sea blue 2, lo spaventone bubusettete della Blumhouse, l’ennesima patacca uscita al cinema d’estate, e poi, grazie alle notti insonni, lo riprendi e capisci, come il principe di Bel Air, che tanto male non è.

Di Damien Leone, regista indie dall’infama celebrità, uscì un po’ di tempo fa un horror brutto come la morte impestata a Pisa, All Hallow’s Eve: tre episodi poveri, girati col culo, noiosi dove primeggiava soltanto lo spaventoso clown Art. Per noi, fan del cinema bello ma sgarruppato, la carriera del regista poteva soltanto concludersi con una prigionia in Siberia, sotto zero, a cercare per i nazisti la lancia di Longino, in eterno, sotto le frustate di Ilsa la belva umana.

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Damien Leone e Art il Clown

E sbagliavamo perché Terrifier è sì un film con i limiti di una produzione girata con i soldi dati dalla mamma per il Buondimotta della ricreazione, ma anche uno dei parti più spaventosi e genuini degli ultimi anni.

Damien Leone capisce che il punto forza del suo precedente lavoro è solo lui, Art il clown, e gli dedica un intero, cattivissimo, sanguinoso film.

Art non è Pennywise, non ha battute, non è simpatico, non ha nessun background triste da empatizzare, è la morte pura e semplice che un giorno di Halloween, come Michael Myers, esce per le strade e richiede il suo pagano tributo di sangue.

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Per certi versi Terrifier ricorda, con i dovuti limiti, Inferno di Dario Argento: la sua scatenata danza di morte su scenari che vengono bombardati da luci violente, gli omicidi fantasiosi e quel senso di favola per bambini ormai adulti che è perenne, dappertutto. Certo Inferno è quel capolavoro che Terrifier non sarà mai, ma questo non leva all’opera di Leone di essere altrettanto riuscito nelle atmosfere, una cosa, ricordiamolo, non da tutti con il budget ridotto che si è trovato tra le mani il regista.

Ovviamente Terrifier ha le sue lacune, grandissime, come il ritmo e soprattutto la sceneggiatura che, per forza di cosa, pena il finale dopo dieci minuti, fa fare cose cretine ai suoi personaggi che neppure in Scooby Doo. Vi faccio l’esempio più grande: se siete imprigionati in balia di serial killer che vi sta per uccidere e, per grazia di Dio, riuscite non solo a liberarvi, ma anche a dargli una mazzata bella forte, che fate? Scappate o infierite finché lo stronzo non è a terra in una poltiglia di cervello spappolato? La seconda ovviamente, beh non tanto ovvio perché le vittime di Terrifier scelgono sempre  la via più impervia, danno uno sbuffetto sul coppino del pagliaccio come monellacci e poi corrono verso la futura morte certa perché sai che Art il clown presto o tardi si rialzerà e farà loro molto male.

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Gli omicidi nel film di Leone sono davvero tantissimi e tutti fantasiosi: pizzaioli bruciati come la zucca di Jack-o’-lantern, ragazze segate a metà dal pube alla testa con le viscere che cadono, teste riempite di piombo, visi mangiati, donne spellate e indossate come in un capitolo apocrifo di Non aprite quella porta; è una sagra dello splatter più ignorante e genuino. Il bello, quello che fa la differenza però, rispetto a produzioni altrettanto povere e gore come Hazard Jack, è la confezione perché Damien nostro crede al suo film e lo cura con effettacci vecchia scuola ben fatti, quelli che un tempo avresti visto in un film di Joseph Zito con la complicità di Tom Savini.

Non siamo fortunatamente però in un gioco vintage che piange sugli anni 80 come Hatchet, no qui si fa sul serio, si usano i cellulari per chiamare e fare selfie e non c’è spazio, tra una morte e l’altra, per una frase maschia perché quando si muore, qui, si muore malissimo.

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Notevole il cast femminile soprattutto la splendida Jenna Kanell, alla quale spetta un ruolo da pseudo protagonista, omaggio questo sì alla struttura di Psycho.

Terrifier, come detto, riesce nel difficile compito di turbare, spaventare e disgustarti, una cosa che in un cinema così laccato e pulito come quello horror americano moderno sembra davvero una specie di miracolo. Per questo benediciamo Damien Leone e vi consigliamo il film, a patto, ovvio, che siate disposti a sporcarvi di sangue e budella calde perché Terrifier è imperfetto ma delizioso, povero ma ricco di idee, non un blockbuster ma forse l’esempio più genuino di bloodbuster nuovo millennio.

Andrea Lanza

Terrifier

Anno: 2017

Regia: Damien Leone

Interpreti: Jenna Kanell, Catherine Corcoran, David Howard Thornton, Margaret Reed, Katie Maguire, Samantha Scaffidi, Pooya Mohseni, Sylvia Ward, Gino Cafarelli, Kamal Ahmed, Michael Leavy, Julie Asriyan, Xiomi Frans-Cuber, Erick Zamora

Durata: 90 min.

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The Zero boys

18 domenica Mar 2018

Posted by andreaklanza in action, animali assassini, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, T

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action, film di culto, nico mastorakis, slasher, the zero boys

Gli zero boys sono tre amici appassionati di guerra simulata. Insieme a due amiche più una ragazza “vinta” per scommessa, decideranno di festeggiare la vittoria di una partita in un cottage sperduto nel bosco. Scelta sbagliata perché quello è il rifugio di alcuni maniaci assassini.

Esistono film di pancia che arrivano a colpirti ed appassionarti senza una ragione davvero logica, senza che la trama sia scritta da uno sceneggiatore abile, eppure, sarà per la regia gagliarda o l’atmosfera, ma i difetti si annullano davanti alla potenza delle immagini.

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The Zero boys ne è l’esempio più eclatante: battute che sembrano gridare pietà al Dio dei dialoghisti, una storia che prende almeno due strade senza svilupparne davvero nessuna, ma, in compenso, anche un’opera che possiede una tale freschezza nel mettere in scena gli eventi, un uso virtuosistico della telecamera e suspense, tanta e buonissima, non male per un B movie dal titolo (e le premesse) di un film di guerra alla Bruno Mattei o Ciro H. Santiago.

Strano come The Zero boys non abbia avuto davvero la sua meritata fama di cult: in Italia per esempio è uscito prima in una vhs Domovideo poi in un dvd a bassa definizione, meglio all’estero dove brilla l’edizione Arrow che riporta in vita gli splendidi colori della fotografia di Steven Shaw.

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Il sito americano Wicked horror intitola così un suo articolo “Perché The Zero Boys è quasi perfetto” e la giornalista, Michele Eggen, spiega “Sono sinceramente scioccata che non avessi mai sentito parlare di questo film. Non ne ho mai visto nemmeno una casuale menzione in nessuna di quelle top ten di film horror o film slasher meno noti, anche se dietro c’è un culto. Ci sono molti film sconosciuti, soprattutto anni 80, ma questo dovrebbe davvero essere portato all’attenzione di tutti. The Zero Boys vanta alcune grandi interpretazioni da parte dell’intero cast, rielabora con invenzione il sottogenere slasher, ed  è un precursore di molti altri film che verranno dopo“.

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Zero boys è un film slasher più bizzarro di altri, più noti e anche meno validi, come il terribile Terror train di Roger Spottiswoode. Forse per la sua natura camaleontica e pulp, capace di passare ad un genere ad un altro con grande scioltezza, è un oggetto non proprio etichettabile in un filone, non troppo d’azione, non troppo di guerra, non troppo sanguinoso per un horror alla Venerdì 13. Eppure la bravura di Nico Mastorakis, che diamolo pure è un ottimo regista ma dalle scelte artistiche dubbie, è di riuscire ad essere superiore in ogni sua azzardata sterzata a qualsiasi altro concorrente del genere, forse non il migliore ma uno dei migliori e più esaltanti B movie del terrore degli anni 80.

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Quello che alla fine non convince è la sceneggiatura, firmata a tre mani dal regista, dal suo collaboratore di fiducia Fred Perry e da Robert Gilliam: troppo col fiato corto per  un film che sarebbe dovuto durare tre ore per le tante idee presenti. Così Zero boys è un action horror dalla trama superficiale che si scontra contro la regia ottima, male ma non malissimo, per fortuna.

Le intuizioni presenti anticipano un certo torture porn a base di snuff che furoreggerà ad inizio nuovo millennio con gli Hostel ma soprattutto il Vacancy di Nimrod Antal. Se si esclude l’ottimo e misconosciuto Special Effects di Larry Cohen del 1984, il tema dei filmati di morte e sadismo non era proprio notissimo al pubblico, e The Zero boys lo mette in scena con una certa efficacia.

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In generale questo è un film studiato meglio di tanti teen movie del terrore, dalle interpretazioni del convincente cast alle reazioni dei personaggi davanti ad eventi orribili e spaventosi. Per fare un esempio ad un certo punto Kelli Moroney, interprete tra l’altro degli ottimi La notte della cometa e Supermaket horror, apre un baule e dentro ci trova un cadavere. Non la vediamo liquidare la cosa bruscamente ma i suoi occhi e la sua espressione sono di credibile terrore così come la risposta della sua amica che corre a vomitare nel lavabo. Magari sono piccolezze, ma sono i dettagli a rendere grande l’opera del diavolo.

In più Mastorakis riesce a rendere adrenalinico un film che ha come body count una sola persona, cosa non da poco di sicuro. La parte slasher, quella più convincente, finisce a neanche mezz’ora dalla fine per lasciare spazio ad un survival di guerra sulla falsariga di Un tranquillo weekend di paura dove stavolta però lo scontro è tra soldati di guerra simulata con assassini veri.

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The Zero boys è un film stilosissimo, dalla fotografia elegante, dalle invenzioni potenti, emozionante e veloce come solo uno spettacolo popolare da vhs potrebbe essere.

Tra gli attori salta all’occhio la presenza di Joe Estevez, soprattutto perché, appena arriva, balzi dalla poltrona esclamando “WTF, com’è possibile che sia come cattivo ci sia Martin Sheen?”. No, bro, non è lui ma il somigliantissimo fratello.

In Svezia il film ebbe problemi con la censura che tagliò l’intero finale rendendo incomprensibile la vicenda.

Nico Mastorakis con The Zero boys firma una delle sue regie più riuscite, un autore da riscoprire sia nei suoi alti come Destination – Il leggero fruscio della follia che nei suoi bassi di fine carriera tipo l’incredibile Top model per uccidere. Non gira più dal 2002, anno del pregevolissimo serialkiller.com con una sciupata ma bellissima Nastassja Kinski, peccato perché questo regista greco col pallino per i film d’azione e del terrore era uno degli autori più sottostimati ma validi della storia dei B movie, quelli che non sono serie A solo per il budget, ma che urlano “Fantasia al potere!”.

Immaginate che, in Zero Boys, Mastorakis crea, durante i primi minuti, un inaspettato e lungo piano sequenza, una roba che ti aspetti, che so da Brian De Palma, non da un autore di un teen horror!

Voi, se avete voglia recuperatelo questo film, e, mi raccomando, fateci sapere se vi è piaciuto.

Oltretutto ci dispiace che non sia mai stato fatto un capitolo 2 alla luce di un finale aperto, ma forse meglio così: la cosa accresce di più l’unicità del prodotto.

Andrea Lanza

 The zero boys

Anno: 1986

Regia: Nico Mastorakis Interpreti: Daniel Hirsch, Kelli Maroney, Nicole Rio, Tom Shell, Jared Moses, Crystal Carson, Joe Estevez

Durata: 90 min.

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Non aprite quella porta 2

27 domenica Ago 2017

Posted by andreaklanza in cannibali, capolavori, il grande freddo, N, Recensioni di Andrea Lanza, T

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faccia di cuoio, letherface, non aprite quella porta 2, texas chainsaw massacre 2, tobe hooper

Scrivevo questa recensione nel 2012 in uno speciale sulla saga di Non aprite quella porta per il portale horror.it. A distanza di 5 anni la ripropongo qui sulle pagine del mio/vostro blog Malastrana in un’occasione spiacevole, la morte di Tobe Hooper, uno dei grandi maestri dell’horror americano che si fa compagnia a chi l’ha preceduto negli ultimi anni, mesi, settimane, Wes Craven e George A. Romero su tutti. Ripropongo questa mia recensione perché affrontavo uno dei film più incompresi e belli di Tobe Hooper, quel secondo capitolo di Non aprite quella porta che sarebbe stato forse il punto più alto e mai più raggiunto della filmografia del regista. Noi lo salutiamo così ringraziandolo per i sogni e gli incubi che ci ha fatto fare in questi anni tra vampire spaziali, famiglie cannibali e poltergeist nascosti nella tv. RIP.

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Diavolo d’un Tobe Hooper! Ora, nel 2012, dopo tanti brutti horror, te lo immagini rincoglionito sulla sedia a dondolo a guardare ebete i tramonti del Texas. Magari un fan si avvicina e gli fa una domanda su Letherface, il gigante con la motosega in mano del suo film più famoso, e lui pulendosi la bocca dalla bavetta risponde con frasi del tipo “Bello il sole eh?” o “La mamma non è ancora tornata”. Non puoi biasimarlo neh, anche alla mente più brillante sarebbe successo.

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Non si può girare fettecchie come Mortuary o, in tempi non sospetti, robacce come Night terror con un attempato Robert Endgund che cavalca a petto nudo un cavallo fingendo di essere un sex simbol bello e dannato dell’horror, senza perdere il senno. Anche voi, amici miei, anche voi sareste crollati e il sole del Texas ora vi apparirebbe come la Madonna di Lourdes. Ma nel 1985 Tobe era un talento in massima espressione artistica: aveva alle spalle almeno due cult, Non aprite quella porta e Quel motel vicino alla palude, aveva girato un ottimo tv movie tratto da Stephen King, Le notti di Salem, ed era reduce da un campione di incassi come Poltergeist.

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Ovvio quindi che quando bussano alla porta di casa Hooper, Menahem Golan e Yoram Globus, i famigerati padroni della casa di produzione più stracazzuta dell’universo, la Cannon, artefice di tamarraggini di grande successo come Invasion USA con Chuck Norris, il duo pensa di avere trovato nel regista la classica gallina dalle uova d’oro da spremere. Niente di più sbagliato e sciaguratamente avventato.

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Con loro il buon Tobe gira il magnifico Space Vampires su sceneggiatura di Dan O’ Bannon, l’insipito Invaders e l’allucinante Non aprite quella porta 2. Risultato? Il primo è un flop che fa quasi fallire la Cannon, il secondo è tanto brutto che non se lo fila nessuno e il terzo incassa meno di quanto si pensava. Dopo questi insuccessi la carriera di Hooper sarà un continuo di alti e bassi fino alla calma piatta degli ultimi lavori. Ma mi immagino un fan del primo Non aprite quella porta accingersi a vedere questa seconda parte: sono passati più di 10 anni, è un horror che ha cambiato nel bene o nel male la storia del cinema del terrore, c’è ancora lo stesso regista al timone, ovvio che sarà un altro capolavoro.

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E capolavoro Non aprite quella porta 2 lo è, ma è anche qualcosa che va assolutamente controcorrente rispetto alle aspettative di qualsiasi appassionato del genere. Hooper aumenta sì il sangue, la violenza, ma è tutto così grottesco, così esagerato, baracconesco da generare confusione ed essere qualcosa di difficilmente etichettabile. Facile, e probabilmente avrebbe portato qualche soldo in più, sarebbe stato il battere la strada della copia carbone come tanti seguiti, ma no, Hooper colora tutto con luci da luna park, rinuncia agli spazi angusti di una casa per portarci nel Texas a cielo aperto dove gli omicidi si compiono per strada, porta i suoi freaks nei dedali di un ex mattatoio dalle pareti grondanti budella umane, ripete scene clou del primo film in una chiave talmente stralunata da risultare genio e… delude i suoi fan.

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Ovvio che ci sia stato un passaparola negativo e il film con gli anni abbia avuto a nomea di seguito scadente, ma è anche questo un segno di grandezza, la confusione con la bassezza parlando di sublime cinema, il non essere capito per poi magari essere riscoperto dopo anni e anni. Non aprite quella porta 2 usa il grottesco fin dalla copertina: una versione horror di quella del successo romantico The Breakfast club.

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Hooper butta nel suo film gli umori politici di un decennio di transazione, gli anni 80, il reaganismo, l’eco mai spento del Vietnam, si fa berlina della moda delle varie palestre, del culto del corpo devastando quella carne e facendola spezzatino per altri corpi da appendere come quarti di bue, i Sawyer diventano ancora più ferocemente la parodia di una famiglia di media borghesia americana, con le sue regole di bon ton deviato e l’amore per il nucleo familiare. Letherface arriva ad innamorarsi, ed è questa una delle trovate più grandi del film, e lo fa con l’impacciataggine di un adolescente psicopatico davanti al sesso, il suo desiderio di uccidere diventa libidine che ha la catarsi con il transfert pene/motosega nella scena di seduzione ai danni di una dj terrorizzata.

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Il trucco di Tom Savini sulla maschera del gigante cannibale è così esagerato da renderlo quasi, con l’abbinamento del vestito elegante da matrimonio o da funerale che indossa, una sorta di trasfigurazione di Charlot, uno strano, feroce, buffo Charlot del cinema horror passato sotto l’alba dei morti viventi. Altra intuizione poi è di mettere in scena un eroe, vestito da cowboy texano, completamente fuori di testa, che parla con i morti, che per uccidere la famiglia della motosega si arma anch’egli di motosega, lunghissima, in una sorta di gara alla virilità dove si sfoggia il membro più virile. Impossibile affezionarsi al personaggio di Dennis Hooper che arriva in ritardo a salvare la bella in pericolo, che si veste di bianco per non essere confuso col nero del male, che alla fin fine sembra pazzo come tutti i membri della famiglia che odia e vuole sterminare.

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Interessante poi il finale, dove tutti gli uomini sono destinati a perire e, forse, il testimone della motosega passa ad una donna, simbolo di un sesso desiderato e rifiutato, ma dal quale tutti siamo stati generati. La Dj attraverso un utero di terra e umori, lotta con un’altra donna, la vera matriarca, quella che vive in cima a tutti e tutti vigila, sorta di Mater Sospirorum hooperiana, per prenderne poi il posto. Il gesto di Letherface scimmiottato porta a pensare che un’altra generazione di mostri è lì lì per venire. Grande, grande Tobe Hooper.

Tobe Hooper sul film:

“E’ pazzesco come l’inferno, un film talmente fuori di testa. Con Non aprite quella porta 2 ho avuto la possibilità di fare una commedia, una commedia molto triste, che non è piaciuta a tutti, ma ha i suoi fan. E’ un film molto del suo tempo, con tocchi di satira politica sull’America capitalista degli anni ’80. Per i miei film mi guardo sempre intorno e cerco di cogliere alcuni aspetti della politica e dell’economia. Sono un drogato di CNN“

Curiosità:

Abbiamo confrontato la versione vulgata del film con la workprint ovvero al copia lavoro di Texas chansaw massacre 2, mai vista dal pubblico, e abbiamo trovato con sorpresa l’inserimento di una scena priva ancora degli effetti speciali, ma molto interessante. Per anni tra appassionati si è parlato dei tagli all’opera di Hooper e visionare l’opera in versione totalmente integrale è stata esperienza non priva di un certo fascino che ha saputo accrescere già l’alto valore dell’opera. La workprint dura 1 ora e 51 minuti contro l’ora e 35 della versione più lunga vulgata da noi in dvd, contiene scene di dialogo in piu’ e una maggiore crudezza nelle scene di omicidi. Non solo però perché contiene soprattutto una scena mancante che andiamo a spiegare nel dettaglio. La qualità della workprint è bassissima, ma rende benissimo la follia anarco-sanguinaria che Texas massacre part 2 incarna poeticamente.

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La famiglia di cannibali è in viaggio su di un furgone, mentre la dj si aggira tra le anguste segrete del loro mattatoio. C’è il dettaglio di Testa di latta che cuce il burattino visto all’inizio del film. Arrivati ad un parcheggio sotterraneo trovano dei disordini: un gruppo di adolescenti sta rompendo tutte le auto con grosse mazze. I ragazzi si avvicinano con fare minaccioso al furgone, ma ecco che appare dal retro del mezzo Leatherface la sua motosega. E’un’orgia di sangue: teste decapitate, braccia, piedi che volano da tutte le parte, una mano mozzata che alza il dito medio. Poco dopo due ragazze e un uomo scendono le scale per andare al parcheggio e vengono uccisi da Letherface.

Andrea K. Lanza

Non aprite quella porta 2

Titolo originale: The Texas Chainsaw Massacre part 2

Regia: Tobe Hooper

Interpreti:Dennis Hopper, Caroline Williams, Bill Johnson, Bill Moseley

Durata: 95 min. 

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