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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Psycho cop 2

01 martedì Ott 2019

Posted by andreaklanza in film pericolosamente brutti, P, Recensioni di Andrea Lanza, satana, slasher, splatteroni, tette gratuite, tette vintage

≈ 6 commenti

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Adam Rifkin, Barbara Niven, Carol Cumming, Dave Bean, joe vickens, John Paxton, Julie Strain, Justin Carroll, Maureen Flaherty, Melanie Good, Miles Dougal, Nick Vallelonga, Psycho cop 2, Psycho Cop Returns, Rif Coogan, Robert R. Shafer, Rod Sweitzer

Alla fine degli anni 90 le videoteche di tutta Italia furono bombardate da una serie di titoli horror e action (ma non solo), distribuiti dalla Cecchi Gori sotto l’etichetta Giglio verde. Molti di questi film oltretutto erano seguiti di successi cinematografici caduti purtroppo in disgrazia di soldi, idee e fama. Tra le varie vhs si poteva “ammirare” Classe 1999 parte 2: the substitute di Spiro Razatos, Scanner cop 2 di Pierre David e Scanner 3 di Christian Duguay, tutti titolacci di cattiva fattura ai quali facevano eccezione solo alcuni titoli, curiosamente non sequel, come il cupo vampirico Blood ties di Jim McBride o il discontinuo, ma interessante, Popcorn di Mark Herrier (e Alan Ormsby). Probabilmente erano pellicole restate sul groppone della Cecchi Gori, impossibili, visto la  bassa qualità, da mandare al cinema, ma fruibili tranquillamente nel mare magnum degli inediti per l’home video.

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Tra questi c’era anche Psycho cop 2, conosciuto anche col titolo di lavoro di Psycho Cop Returns, un seguito di uno slasher del 1989, da noi mai arrivato. Non stupisca perché l’Italia è sempre stata la patria delle distribuzioni strane e arbitrarie, come per Fear 2,  uscito in vhs come L’urlo del male, o per Bloody Murder 2, entrambi con un primo capitolo inedito.

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Psycho cop 2 fortunatamente non è collegato al precedente episodio, a parte il villain principale, lo sbirro satanista Joe Vickers. Siamo oltretutto davanti ad un horror sì scadente, tanto quanto il primo film, ma anche con un genuino ritmo scatenato, uno splatter abbastanza tosto, e una dose abbondante, tipo pecorino sui bucatini all’amatriciana, di tette, culi e belle donne. Un tipico film, per intenderci, da corona ghiacciata e patatine 2 kg del discount.

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La vhs Giglio Verde/Cecchi Gori lancia la pellicola con questa frase “Agente di polizia Vickens, professione serial killer… Signori, la festa è finita” e prosegue sul retro “Sarà una lunga notte: alcool, marijuana e sesso facile… e un ospite inatteso che aggiungerà gli ultimi  ingredienti: sangue e terrore“.

Per farla breve, la trama è semplicissima: due completi idioti vogliono organizzare un festino a base di cocaina e puttane nel palazzo dove lavorano, ma vengono ascoltati dallo Psycho cop che, senza ragione logica, decide di seguirli e massacrarli. Stop, niente di più o di meno.

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Siamo davanti, come già detto, ad un film che prosegue a suon di tette e sangue, uno Z movie pieno di battute cretine recitate dall’atroce Robert R. Shafer, roba del tipo “Hai il diritto di stare in silenzio da morto” detto ad un cadavere. Però stavolta c’è il rischio di divertirsi perché il film è così folle e scemo, al pari di un amico molesto, nel suo non sense quasi hellzapoppiniano da festaiolo ignorante.

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L’agente di polizia Joe Vickens è una variante degenere del Maniac cop di Lusting, una versione più da slasher puro, deviata però nella sciagurata formula degli splatter post Nightmare 2, costruiti soprattutto sulle tanti frasi ad effetto demenziali del cattivo. Figura che però stavolta non spicca, non è simpatica e non ha nulla di interessante. Forse per questo la serie, già narrativamente col fiato corto, si fermerà qui.

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Se poi, come detto Robert R. Shafer è davvero inguardabile, c’è da dire che tutto il cast si affanna a dare pessime performance, nel pieno overacting di facce buffe alla Jim Carrey anche quando si tratta di morire, manco fossimo in Troll 2.

Tra gli interpreti spicca però la statuaria Julie Strain, corpo perfetto da valchiria, già vista sotto il pesante e castrante make up di The Unnamable II: The Statement of Randolph Carter e qui in tutta la sua fulgida bellezza, per fortuna, al naturale. Non recita meglio dei suoi colleghi, ma, come si dice, anche l’occhio vuole la sua parte.

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Meno male che il regista, lo sconsiderato Adam Rifkin sotto lo pseudonimo di Rif Coogan, glorifica appunto l’aspetto cochon della vicenda  con queste striptease sempre a culo nudo anche mentre scappano dal maniaco. Tra l’altro due comparse, Brittany Ashland, attricetta hard, e Sara Lee Froton, leggenda racconta, furono reclutate mentre facevano uno spogliarello ad un party di Charlie Sheen. L’attrice però che si mostra di più è la pornostar Carol Cummings nel ruolo dell’arrapata collega ninfomane che si scopa a sangue il collega fedifrago Tony nella stanza delle fotocopie, luogo adorato da Joe Vickens tra l’altro.

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Psycho cop 2, girato in una sola settimana, abbastanza di fretta, ha però dalla sua un messaggio potente nel finale con la gente comune che si arma e massacra a sprangate il poliziotto satanico, quasi un ribaltamento del genere in chiave progressista, una chiusa pregna della rabbia mai placata per il pestaggio di Rodney King.

Psycho cop 2 non beneficiò mai dello sbarco su dvd, restando esclusiva del mondo magico e oscuro delle vhs, un bene forse ma anche un male, soprattutto se vi sentite cattivi ragazzi e avete voglia di un brutto film divertente.

Andrea Lanza

Psycho Cop 2

Titolo originale: Psycho Cop Returns

Anno: 1993

Regia: Rif Coogan (Adam Rifkin)

Interpreti: Robert R. Shafer, Barbara Niven, Rod Sweitzer, Miles Dougal, Nick Vallelonga, Dave Bean, John Paxton, Julie Strain, Melanie Good, Maureen Flaherty, Justin Carroll, Carol Cummings

Durata: 80 min.

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Transformations …e la belva sorgerà dagli abissi

15 sabato Giu 2019

Posted by andreaklanza in demoni, Empire, erotici, fantascienza, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, satana, T, tette gratuite, tette vintage

≈ 5 commenti

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Alien transformation, Ann Margaret Hughes, Benito Stefanelli, Cec Verrell, charles band, Christopher Neame, Donald Hodson, empire, Jay Kamen, Lisa Langlois, Loredana Romito, mark caltagirone, Michael Hennessy, Pamela Prati, Patrick Macnee, Rex Smith, Transformations, Transformations... e la bestia sorgerà dagli abissi

In viaggio nello spazio, Wolfgang Shadduck scopre di avere a bordo un passeggero clandestino: una donna bellissima e sensuale, al fascino della quale l’uomo non riesce a resistere. Ma al termine dell’amplesso, davanti agli occhi di un inorridito Shadduck, la creatura si trasforma in un mostro repellente e poi scompare. Convinto di aver avuto un incubo – della donna non rimane alcuna traccia – Wolfgang prosegue il suo viaggio fino a quando un’avaria lo costringe ad un atterraggio forzato su un pianeta che ospita una colonia penale. Qui il pilota conosce Miranda e se innamora, ma viene sequestrato assieme a lei da un gruppo di detenuti evasi che vuole usare la sua nave per fuggire, ed è costretto a decollare dall’asteroide. Durante il volo, il mostro si materializza nuovamente e dà inizio alla strage. 

Ah l‘Empire di Charles Band! Solo a nominarla mi ritornano alla memoria, come madeleine proustiane, vecchie vhs, film improponibili trasmessi nella notte più fonda da tv private, riflesso anarchico di un cinema potentissimo e miserabile che tutto poteva anche senza nulla avere!

Per tutti l’Empire è stata Re- Animator, Ghoulies, From Beyond, Dolls, low budget di un certo culto, ma in pochi si dimenticano, o non sanno, dell’esistenza dei figli minori dell’impero di Charles Band.

Scriveva De Andrè alla fine della meravigliosa La città vecchia:

“Se ti inoltrerai lungo le calate

dei vecchi moli

in quell’aria spessa

carica di sale gonfia di odori

lì ci troverai i ladri gli assassini

e il tipo strano

quello che ha venduto per tremila lire

sua madre a un nano“.

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Mai strofe calzano più a pennello per un sottomondo, un po’ alla Underworld di Clive Barker/ George Pavlou, nauseabondo e poco invitante, nel quale, più che imbatterci in belle pellicole, ci troviamo davanti a veri mostri, sgraziati, arrabbiati e incattiviti. E, sempre come per De Andrè, la soluzione è, più o meno, la stessa: o liquidi questi film per quello che sono, merda, schifo, a morte il regista, o, amico mio, apri la tua bella birra, liberi la pancia dai pantaloni, via le scarpe, sciallato sulla tua poltrona, ti fai avvolgere da quei liquami, da quella trama improponibile, rischiando pure di divertirti.

L’Empire sfornò, nella sua folle corsa di appena 6 anni, un sacco di brutte pellicole fighissime come Breeders di Tim Kinkaid con alieni arrapati e ballerine nude, Creepozoids di David Decoteau con la Linnea Quigley del nostro cuore e dei topastri mossi a mano dagli attori, momenti teneri e irripetibili, Terror vision di Ted Nicolau con la recitazione dell’intero cast oltre l’overacting, e naturalmente questo Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi, con un titolo così brutto, poco accattivante che non poteva essere altro che un capolavoro dell’infimo.

Quindi l’Empire non era solo buone pellicole strane e folli, tipo Troll o Ork di John Carl Buechler, ma anche, e soprattutto, filmacci da cestone del supermercato, film dalle copertine orribili che sembravano urlare l’eutanasia piuttosto che una visione.

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Questi film, americani nel cuore ma girati in italia nei capannoni di proprietà dello stesso Charles Band, erano successi sicuri, venduti in tutto il mondo e dal budget così misero che anche la vendita di una vhs poteva garantire un’entrata, anche perché la maggior parte di loro non avrebbe mai visto la luce della sala cinematografica.

Con Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi siamo in territorio scifi horror, in un’ambientazione quasi tutta in interni per sfruttare al massimo gli scenari riciclati da una produzione più ricca, Arena, uno dei costosi fallimenti, con Robojox di Stuart Gordon, del periodo finale Empire.

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Loredana Romito in tette e ossa

Inutile dire che la trama scritta da Mitch Brian, più a suo agio come sceneggiatore per il magnifico Batman: The Animated Series, sia un guazzabuglio inenarrabile composto da dialoghi deliranti, scene che sembrano improvvisate, e tante tette e sesso a cazzum per intontire lo spettatore beota. Per esempio ad un certo punto una dottoressa, interpretata dalla Lisa Langlois di Classe 1984 e Occhi della notte, dice al nostro eroe, il pilota spaziale Wolf, “Devo fare una cosa importantissima. Aspettami qui” e poi la vediamo fermarsi per lunghi minuti con fare pensieroso in una stanza vuota, non facendo nulla, giuro nulla, per poi tornare indietro. Cioè cosa diavolo doveva fare di importante????

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Alieni e sesso prima di Species

Non aiuta neppure la regia di Jay Kamen, tecnico del suono per produzioni di un certo livello come Robocop 3 o Caccia ad ottobre rosso, impacciatissimo al suo debutto (unico) dietro la macchina da presa. Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi stilisticamente è vicino al linguaggio del telefilm (sciatto) degli anni 80, un valore, per assurdo, aggiunto ad una visione ignorante da filmaccio uscito dalle vhs.

C’è da dire che la pellicola ha almeno due buoni attori, la già citata Langlois e il Patrick Macnee di Battlestar galactica, che però vengono mal sfruttati in una storia che li vede spauriti e visibilmente impacciati. Il resto del cast è miserabile, a partire da un protagonista legnosissimo, il cantante Rex Smith, lontano dai fasti del suo serial tv Il falco della notte. Per non contare poi le presenze inenarrabili delle nostre starlettes Pamela Prati e Loredana Romito, nudissime ovviamente. La prima, la Pamelona del tormentone trash tv Mark Caltagirone, interpreta l’aliena che contamina il protagonista all’inizio del film, la seconda è invece una prostituta rimorchiata da nostro Wolf in piena mutazione genetica che, prima di Species, spinge, gli extraterresti a ciulare il più possibile.

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Pamela Prati prima della D’Urso e di Caltagirone

Transformations … e la bestia sorgerà dagli abissi tenta un discorso anche interessante sull’AIDS e sul contagio sessuale, ma ogni buona intenzione, si sa, se la deve vedere con le vie distorte del diavolo delle brutte sceneggiature. Quindi inutile vederci significati reconditi: la pellicola di Jay Kamen è exploitation al più basso livello che prosegue a forza di sgnacchera e sangue.

Sia dato atto però che la trama anticipa pericolosamente quella di Alien 3: un’astronave con  l’infezione, il mostro, che precipita in una colonia penale. C’è pure un prete, Patrick Macnee, a sancire l’elemento fortemente religioso dell’opera. Ovviamente le due pellicole stanno agli antipodi, inconciliabili e con un’idea diversa di cinema: il film di Kamen divertimento rozzo senza pretese, quello di Fincher un’ambiziosa opera sci-fi molto stilosa. Però è bello sognare che, una notte insonne, facendo zapping sulla tv, uno degli artefici della travagliatissima stesura di Alien 3, magari il non accreditato  David Twohy di Pitch Black, sia stato folgorato dalla visione di Transformations. Sua fu d’altronde l’idea di trasformare il pianeta, sul quale l’astronave di Ripley/Sigourney Weaver atterra, in una colonia penale.

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Per il resto abbiamo davvero davanti un filmaccio di bassa lega, pregno di momenti involontariamente comici, a partire dai primi minuti di film quando il nostro Wolf non si chiede che diavolo ci fa su un’astronave, fino ad un secondo prima deserta, la nostra Pamelona arrapatissima. Il suo pensiero probabilmente è che sia stata nascosta, senza mangiare né bere per giorni, in attesa di fargli una sorpresona per il suo compleanno. “Quei mattacchioni dei miei amici” esordisce il non proprio intelligentissimo protagonista prendendosi una sifilide aliena che gli procurerà bolle su tutto il corpo abbastanza schifose che esploderanno in pus.

Transformations ci insegna che nel futuro le lauree non serviranno più: l’unica dottoressa della prigione, interpretata dalla bellissima e assente Langlois, non ha nessun titolo accademico come ci conferma lei stessa in uno dei tanti dialoghi surreali. Fa il medico e agisce da medico semplicemente perché la chiamano “Dottore” e indossa un camice. D’altronde tutto il suo apporto scientifico per debellare la mutazione del protagonista è limitato in intensi occhi da cerbiatto e frasi come “Ti amo dal primo momento che ti ho visto“. Va bene che l’amore può vincere tutto, ma insomma…

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Cast di disperati

Aggiungiamo al pasticciaccio una sottotrama senza interesse, e subito liquidata, con tre detenuti che evadono dal carcere, girata così sciattamente nelle scene d’azione da suscitare tenerezza.

Gli effetti speciali sono abbastanza efficaci nella semplicità di uno spettacolo che richiede solo tre elementi: nudi, schifezze varie e un ritmo abbastanza concitato. Chi si accontenta si divertirà e il film si lascia guardare senza danno ferire, di certo meno ributtante di come le recensioni l’hanno sempre accolto.

Dispiace solo che un ottimo direttore della fotografia come Sergio Salvati sia stato coinvolto in uno dei suoi lavori meno efficaci, lontano non solo dai fasti fulciani ma anche dalle buone, precedenti prove Empire come Ghoulies 2, Puppet Master o Striscia ragazza striscia.

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L’Empire, per motivi finanziari, fallirà da lì a poco, trasformandosi in quella che ad oggi è la Full Moon, ma film così belli nella forma miserabile come Transformations non si sono fatti più.

E in fondo ci dispiace.

Andrea Lanza

Transformations… e la bestia sorgerà dagli abissi

Titolo alternativo: Alien transformation

Titolo originale: Transformations

Anno: 1988

Regia: Jay Kamen

Interpreti: Rex Smith, Lisa Langlois, Patrick Macnee, Christopher Neame, Michael Hennessy, Donald Hodson, Ann Margaret Hughes, Pamela Prati, Loredana Romito, Benito Stefanelli, Cec Verrell

Durata: 84 min.

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The Unnamable II: The Statement of Randolph Carter

10 domenica Mar 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, C, demoni, Recensioni di Andrea Lanza, satana, starlette, tette gratuite, tette vintage, U

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botox distruggi sogni, Charles Klausmeyer, David Warner, fighe pazzesche, Jean-Paul Ouellette, John Rhys-Davies, Julie Strain, l'innominabile, la creatura, lovecraft, Maria Ford, Mark Kinsey Stephenson, penthouse, Peter Breck, Randolph Carter, seguiti, seguiti folli, sequel sfigati, stuart gordon, tette, the unnamable, The unnamable II: The statement of Randolph Carter

H. P. Lovecraft a metà anni 80 era tornato alla ribalta soprattutto grazie all’Empire di Charles Band che aveva confezionato due capolavori splatter, Re-animator e From Beyond, tratti da due racconti brevi del solitario di Providence. Da lì una sorta di lovecraftspoitation era dilagata nei cinematografi e nelle vhs, una mania che aveva creato negli anni più mostri che perle preziose, filmacci come Lurkin Fear (1994) di C. Courtney Joyner, da un progetto abortito di Stuart Gordon sempre per l’Empire, o il delirante La casa di Cthulhu (1992), abominio spagnolo diretto dal sempre poco talentuoso Juan Piquer Simón, autore del(lo) (s)cult Pieces.

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Già negli anni 60/70, grazie ad un pugno di pellicole, si era cercato di imporre al grosso pubblico il nome di Lovecraft, ma, malgrado opere eccellenti come La città dei mostri (The Haunted Palace, 1967, Roger Corman da Il caso di Charles Dexter Ward), La morte nell’occhio di cristallo (Die, Monster, Die!, 1965, Daniel Haller da Il colore dello spazio) e Le vergini di Dunwich (The Dunwich Horror, 1970, Daniel Haller da L’orrore di Dunwich), il tentativo era fallito. Era evidente che l’universo mostruoso ed onirico di H. P. non faceva presa sugli spettatori come invece quello di Edgar Allan Poe che aveva fatto la storia dell’horror cormaniano.

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Ah le vhs!

La creatura arriva in piena lovecraftmania ed è uno dei primi tentativi, con La fattoria maledetta (The curse) di David Keith, di bissare il successo dei film di Stuart Gordon. Girato con l’esiguo budget di 350000 dollari, in sole tre settimane, tratto dalla novella L’innominabile, calcava la mano dello splatter sulla falsariga di Re- animator. Non dovette comunque essere un grandissimo successo al box office, visto che per il seguito passarono ben 5 anni, ma ricordo perfettamente che in vhs, nell’edizione stracazzutissima della VIVIVIDEO, faceva la sua porca figura con questo mostro urlante tipo banshee che ti faceva cagare sotto solo a guardarlo.

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Il film fu diretto da Jean-Paul Ouellette in un’epoca dove la Francia non era ancora stata sdoganata dal cinema euroamericano di Luc Besson. Oltretutto il regista fece appena in tempo a girare negli States un action marziale pregevole, Chinatown Connection con lo sconosciuto Bruce Ly ovvero Lung Tsu Chiao ovvero Yung Henry Yu al fianco del Lee Majors de L’uomo da sei milioni di dollari, e naturalmente The Unnamable II: The Statement of Randolph Carter, La creatura 2 se fosse uscito mai in Italia. Dal 1993 Jean-Paul Ouellette, che nella sua carriera può vantare la seconda unità di Terminator di Cameron, ha abbandonato quasi del tutto la regia, dirigendo in 26 anni solo due cortometraggi, l’ultimo This Thing About My Wife è del 2019, un dramma su un ménage à trois tra un corridore brasiliano, la moglie e la sua amante.

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Tette

Ultimante ho letto cose molto negative su La creatura, critiche oltretutto ingiuste con aggettivi come trash (ecco una parola da abolire in campo cinematografico), noioso o stupido. Ho rivisto da poco il film di Ouellette e l’ho trovato di certo non un capolavoro, nessuno comunque lo pensava neppure nel 1988, ma comunque un prodotto ben fatto, divertente e con una creatura mostruosa dal make up fantastico. Fa sorridere è vero che questo gruppetto di persone si aggirino all’interno di una casa senza mai sentire le loro grida o incrociarsi (quanto diavolo era grande?), ma alla fine The unnamable è girato molto bene, con un sapiente uso delle luci per mascherare la povertà del budget, delle gustose scene splatter e le tette, fantastiche, della stuntgirl promossa ad attrice Laura Albert. In più il gruppetto di attori non sembra mai un saldo da brutto B movie e Mark Kinsey Stephenson è un perfetto Randolph Carter in versione teen.

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Splatter

Su questo punto poi ci sarebbe da aggiungere che La creatura, più che un sotto Re-animator, sembra invece una risposta horror low budget a Piramide di paura (1985, Young Sherlock Holmes) di Barry Levinson, con la declinazione adolescenziale del mondo lovecraftiano e dei suoi personaggi. Una sorta di What if Marvel o Elsewords DC, per intenderci, con linee narrative alternative e ipotetiche. E se Randolph Carter avesse vissuto le sue avventure al college? E se Lovecraft fosse stato il suo compagno di stanza? Queste le domande che si pone il film.

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9 ore di make up

Il racconto di Lovecraft era sì riadattato alle esigenze del copione ma manteneva inalterate alcuni suggestioni importanti come i vetri che possono catturare il volto delle persone o la presenza di un essere inquietante in una soffitta.

La creatura, Alyda, era interpreta da Katrin Alexandre al suo unico film. Trovare foto dell’attrice senza make up è quasi impossibile, ma il lavoro degli effettisti è stato eccezionale, un trucco che richiedeva 9 ore per rendere credibile il mostro, ogni pezzo era creato su misura per  la sua interprete per agevolarle i movimenti. Un vero miracolo considerato il budget modesto. Si racconta oltretutto che per le scene di sbudellamenti vennero utilizzate vere interiora animali, tra cui un cuore di agnello.

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Nel 2 forse non c’era tempo per il make up

La novella L’innominabile di Lovecraft non aveva un seguito perciò Jean-Paul Ouellette per girare La creatura 2 si ispirò ad un’altra avventura del ciclo di Randolph Carter, The Statement of Randolph Carter, che in linea temporale era però la prima. Non avendo nessun aggancio con la storia del precedente film, la sceneggiatura è appena ispirata al racconto. Quindi, per i primi dieci minuti, si affronta, come nella parte letteraria, il viaggio del nostro giovane studioso e di un professore, il Dottor Warren, nelle profondità della terra. Lì i due scopriranno che la creatura è imprigionata da una serie di radici magiche, ma anche, sorpresona, che nascosta in lei c’è una parte buona, l’Alyda umana.

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Amico, non mi frega del film.

Stavolta il bugdet è più alto, ben un milione di dollari, e la lavorazione si allunga a cinque settimane con l’ausilio stavolta di stunt dove nel primo film non c’era possibilità di controfigure nelle scene più pericolose.

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Amico, neanche a me frega del film.

Katrin Alexandre stavolta si rende disponibile solo per una giornata e perciò viene messa a contratto la modella di Penthouse Julie Strain, bellissima ma purtroppo nascosta dal pesante make up. La sua creatura stavolta è un gigante infatti la ragazza  misura ben un metro e 85.

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Julie Strain senza make up da mostra

Il personaggio di Tanya Heller, fidanzata di Howard, l’amico di Carter, viene liquidato in fretta senza neppure chiamare l’attrice Alexandra Durrell. Al suo posto riveste il ruolo di protagonista, nei panni di Alyda, la stupenda Maria Ford, una sosia di Alyssa Milano, così bella al naturale che la chirurgia plastica negli anni la devasterà peggio che la sua controparte mostruosa.

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La bellissima Maria Ford ora distrutta dalla chirurgia estetica

Visto che il film è più ricco si riesce a chiamare per qualche posa il grande David Warner e, qualche giorno di più, il futuro Gimli de Il signore degli anelli, John Rhys-Davies, all’epoca Sallah de I predatori dell’arca perduta.

Il problema è che, budget a parte, The unnamable 2: The Statement of Randolph Carter è nettamente peggiore al primo film.

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Partiamo subito dal fatto che il mix tette e sangue viene tradito da una versione PG13 de La creatura: gli squartamenti ci sono ma vengono mostrati solo ad atto compiuto con l’aggravante di alcune morti proprio fuori campo mentre i nudi non sono neanche pervenuti. Cioè Jean-Paul Ouellette ha tra le mani una modella di Penthouse e non la spoglia neppure in flashback, e scrive il personaggio di Alyda come una ragazza sempre svestita ma appiccica sul corpo di Maria Ford dei capelli copri seni? Qui rasentiamo la follia! Certo ogni tanto si vedono le chiappette strafantastiche della protagonista ma sembra la fiera della froceria nel mondo degli etero allupati!

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Capelli copri pudende

Anche la regia in 5 anni è peggiorata e non l’aiuta la decisione della sceneggiatura di mostrare in azione il mostro all’aperto: così senza le suggestive luci, senza accorti tagli di montaggio, il più delle volte sembra di assistere ad una puntata più gore di Buffy l’ammazzampiri, con lo stesso gusto non gusto per i pupazzoni di lattice. Per di più la creatura ad un certo punto cerca di spiccare un volo  col risultato di apparire come un mostro dei Power ranger trascinato dai cavi volanti.

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Chiappe che presagiscono peccati mai portati in scena

In The unnamable 2: The Statement of Randolph Carter entriamo nel vivo dell’azione dopo quasi 45 minuti di chiacchiere e scene alla Maial college: in queste, Randolph e il suo amico Howard portano Alyda tutta nuda nel loro dormitorio mentre alcuni compagni battono il 5 malpensando in un’orgia. Inutile dire che sono i momenti più idioti di una pellicola che non spicca per una grande intelligenza dei suoi comprimari e li manda al massacro senza scervellarsi molto sul perché.

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Zio, si ciula, vero?

Un peccato perché questo poteva essere un buon seguito, contando anche le buone interpretazioni degli storici  protagonisti della serie, Kinsey Stephenson e Charles Klausmeyer. Invece il film perde il divertimento, l’atmosfera lovecratiana e la sfrontata exploitation che tanto ci avevano fatto amare l’originale. Non stupisca che questo numero 2 sia rimasto inedito in Italia e che abbia meno fama del suo primo capitolo.

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Due fighe spaziali a confronto

Dimostrazione che il budget ricco non fa il buon film. Da recuperare solo a fini di completezza o con la scusa, giustissima, di rivedersi La creatura, un cult adolescenziale per tutti noi amanti del cinema horror ottantino.

NB Il dvd del primo film ad opera della Red Spot è scandalosamente un riversamento della vecchia vhs. In più i tizi non si sono neanche sbattuti a cercare informazioni sul film visto che sbagliano 1) a raccontare la trama 2) a dire che il film è inedito al cinema quando ha un visto censura del 26/08/1988. Per fare certi lavori a cazzo di cane sarebbe meglio non farli!

Andrea Lanza

NB Il flano cinematografico de La creatura è stato fornita gentilmente dall’amico Lucius Etruscus che ci ricorda l’uscita esatta del film in Italia: l’8 settembre 1988. Vi consiglio di guardare il suo blog dedicato alle locandine d’epoca, IPMP – ITALIAN PULP MOVIE POSTER, imperdibile e imprescindibile.

 

The unnamable II: The statement of Randolph Carter 

Anno: 1992

Regia: Jean-Paul Ouellette

Interpreti: Mark Kinsey Stephenson, Maria Ford, John Rhys-Davies, Charles Klausmeyer, Peter Breck, David Warner, Julie Strain

Durata: 104 min.

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Massacro al Central college

28 sabato Apr 2018

Posted by andreaklanza in M, Recensioni di Andrea Lanza, tette gratuite, tette vintage, thriller

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malgioglio, massacro al central college, sexy jeans

Bizzarro destino quello di Massacro al Central College, almeno in Italia: insertato con scene pornografiche venne proiettato nei nostri cinema prima normalmente e poi come film hardcore in una versione chiamata Sexy Jeans. Certo quando uscì in vhs per la GVR e in tv, fu nella sua versione pura (o quasi) ma tutto questo non toglie che non si capisce il perché di questo vilipendio verso il tosto thriller di Rene Daalder.

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Dicevo quasi perché sembra che la versione home video si rifacesse a quella hardcore tagliando (male) le scene pornografiche, ora quasi subliminali, con la dubbia nuova colonna sonora scritta tra l’altro (malamente) da Malgioglio.

Certo che negli anni 70/80 impazzava il boom del film porno, quindi la richiesta era davvero alta, e si usava prendere film che nulla avevano con il cinema a luci rosse per riempirli di cazzi, fighe e cum shot selvaggio.

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Penso al capolavoro di Jean Rollin, Fascination, un delicatissimo horror erotico che diventa nei nostri cinema un altro hardcore con la solita politica degli inserti a cazzo di cane. Eh si perché non crediate che girassero scene sporcacciose apposta per metterle nei film normali, no no, le sequenze erano random, poteva capitare che due vampirette lesbiche si trovassero ad amoreggiare in salotto e vedevi un pene entrare in una vagina su sfondo bucolico, perché negli anni 70 i cazzi erano dotati di teletrasporto, roba da Capitano Kirk, almeno al cinema.

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Anche qui in Massacro al Central college, un thriller drammatico che nulla ha di eccitante a livello sessuale, si ampliano allo stesso modo le scene: se c’è un principio di stupro si inserta una bella penetrazione, se due ragazzi amoreggiano via di inculata perché in Italia siamo poeti, marinai e un po’ pipparoli.

In più nella versione uscita al cinema, per non farci mancare nulla, come anticipato poco fa, si cambia pure la colonna sonora e al posto della struggente Crossroads, interpretata da Jill Williams, troviamo l’immonda Sexy Jeans, scritta da Renato Pareti e Cristiano Malgioglio e interpretata dalla cantante Roxy Robinson, con sospiri e mugugni da Serge Gainsbourg dei poracci.

Ma torniamo al film, porno e non porno, com’è?

Ottimo, una vera sorpresa che non conoscevo e, se non avessi visto per caso il trailer, di certo non mi sarei messo a sprecare probabilmente il mio tempo per un film dal titolo Sexy Jeans.

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Una simil Gloria Guida nel manifesto

Siamo davanti, come molti altri colleghi di penna prima di me hanno scritto, ad una sorta di proto Heathers (Schegge di follia), il film anni 80 dove Christian Slater il versione teenager si mette ad ammazzare anarchicamente gli studenti del suo liceo perché si sa se il mondo adulto fa schifo, la scuola ne è l’anticamera con piccoli stronzi che diventeranno grandi stronzi. Allora perché non  sistemarli prima? Schegge di follia è uno di quei film che quando lo vedevi da moccioso ti sentivi schierato dalla parte di questo pazzo schizzato perché, diciamocelo, a nessuno piacciono i bulli.

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Massacro al Central college però compie un passo ancora più ardito: il nostro antieroe David uccide a metà film tutti i teppistelli che infestavano la scuola, ma, a quel punto, si accorge che il suo lavoro non è finito. Eh sì perché in un sistema dove la pace la si costruiva con angherie e regole ferree, ora vige la pura anarchia, e quindi le vittime si ergono a carnefici con nuove prese di potere ai danni degli studenti più deboli. Cane mangia cane. Quindi il nostro giustiziere del liceo affila le armi e riparte alla carica.

Come non dare torto però al povero David, promessa della corsa giovanile, che si trova zoppo perennemente per vendetta. D’altronde chi perché simpatizzerebbe con questi giovani mostri del domani che per divertirsi prendono due ragazze e vogliono stuprarle in gruppo?

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Certo che il comportamento di queste vittime sacrificali non è dei più empatici: si fanno sottomettere, giustificano i comportamenti dei loro aguzzini e un atto vile come una violenza sessuale sembra pura routine scolastica al pari dell’ora di religione.

Siamo in puro territorio John Carpenter, lo stesso che vedremo in Fuga da Los Angeles con un fascistissimo villain dai tratti di Che Guevara, un’opera sottilmente politica, densa di umori anarchici che pone destra o sinistra sullo stesso piano, d’altronde tutti i politici sono uguali quando vanno al potere, è morto il re viva il re.

L’opera di Rene Daalder, ex cameraman per Russ Meyer, non è ascrivibile a nessun genere, è molto moderna pur essendo girata nel 1976, dall’ottimo ritmo e con scene di morti ingegnose senza mai sforare nell’horror però o nell’ancora limbico genere slasher. Si pensi alla dipartita del capo dei bulli, folgorato dalla corrente mentre vola sul deltaplano, o quella di un altro con le ossa spaccate dopo un tuffo in una piscina senz’acqua. Tutte morti a distanza dove il nostro David si sbizzarrisce ad usare le metodologie più disparate con una certa propensione per il tritolo come fossero esecuzioni mafiosi, non dissimili da quelle viste nel bellissimo The mechanic di Michael Winner.

In più la pellicola rappresenta una scuola non scuola, nella quale non si capisce se si faccia lezione; oltretutto non vediamo mai in azione né un professore né tantomeno un adulto, a parte come comparsa non parlante nel finale.

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Gli attori sono abbastanza anonimi ad eccezione di un bravissimo Robert Carradine che fa qui le prove generali, rosso sangue, del suo La rivincita dei nerds.

Il film è generoso di nudi e risalta in questo una prorompente e strepitosa Kimberly Beck che ritroveremo qualche anno dopo come protagonista di Venerdì 13 capitolo finale, come dire che il buon Jason se ne intende di ragazze!

Altra pupattola che si fa notare è Cheryl “Rainbeaux” Smith, una delle due ragazze quasi stuprate, un’attrice molto familiare ai fan del cinema exploitation anni ’70. La Smith aveva recitato in Lemora La metamorfosi di Satana nel 1972 all’età di 17 anni ed era diventata un icona dello spettacolo da drive-in per tutto il decennio successivo in film come Caged heat (1974), Swinging Cheerleaders (1974), ed aveva rivestito il ruolo principale nella versione per adulti di Cinderella nel 1977. L’attrice avrebbe probabilmente avuto un futuro fiorente al cinema, ma la carriera forse non interessava tanto a Cheryl quanto l’eroina: morì all’età di 45 anni, povera e abbandonata da tutti.

Massacro al Central college, migliore regia di Daalder che si farà notare a fine anni 90 solo per un bizzarro horror, Habitat, è  un film spietato, amaro e dal finale non proprio consolatorio. Leggenda vuole che gli attori considerassero lo script una vera immondizia, tanto che alcuni si rifiutarono di studiare le battute improvvisandole.

Nel girato doveva essere presente un flashback nel quale si spiegava l’origine del rapporto di amicizia tra David e Mark, ma questo fu tagliato in fase di montaggio. Infatti il futuro killer avrebbe dovuto salvare l’altro ragazzo da un pestaggio sotto un ponte. Daalder trovò però la sequenza superflua, forse giustamente, e la eliminò. Possiamo trovare alcuni fotogrammi della scena eliminata però nei titoli di testa.

Certo è che Massacro al Central college è un film che noi di Malastrana consigliamo, un’opera ingiustamente violentata da un’edizione italiana aguzzina e che meriterebbe lo status di cult che purtroppo non ha.

Andrea Lanza

Qui il film, in italiano, in versione pura senza gli inserti, neppure subliminali:

Massacro al Central College

Titolo originale: Massacre at Central High

Anno: 1976

Regia: Rene Daalder

Interpreti: Derrel Maury, Andrew Stevens, Robert Carradine, Kimberly Beck, Ray Underwood, Steve Bond, Rex Steven Sikes, Lani O’Grady, Damon Douglas, Dennis Kort, Cheryl Smith, Jeffrey Winner

Durata: 75 min o 83 min (a seconda delle versioni)

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I Paraculissimi (Porki’s n.2)

28 mercoledì Mar 2018

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, comico, commedia, film pericolosamente brutti, P, Recensioni di Andrea Lanza, tette gratuite, tette vintage

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animal house, avo film, charles pitt, cicciobello, confraternite, dan chandler, film completi, i paraculissimi, incastro pene vagina, john di santi, john landis, ken wiederhorn, peti, porcelloni, porki's, porky's, pronto soccorso, scorregge, tette

Animal house di John Landis fu un successo grandioso, 141.600.000 dollari di incasso su 3 milioni di budget, generando un culto assoluto sia per il film, folle ma non stupido, sia per il suo attore protagonista, il geniale John Belushi nei panni di John “Bluto” Blutarsky. Anche il tema delle confraternite risuonò a livello mondiale e generò una serie di figli degeneri che del capolavoro comico di Landis presero solo la parte più superficiale, gli scherzi goliardici e le varie flatulenze.

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Giuro che non mi ricordavo di avere fatto questo film

Il clone più smaccato però di Animal House arrivò dal Canada, un anno dopo il film originale con Belushi, e si chiamava King Frat, da noi I paraculissimi.

A girarlo un autore che, solo due anni prima, si era fatto conoscere per uno zombi movie con Peter Cushing abbastanza anomalo, L’occhio nel triangolo, ovvero morti viventi in versione nazista. Come riuscirono i produttori Jack McGowan e Reuben Trane ad imbarcare nell’operazione Ken Wiederhorn non è dato saperlo, ma il regista, nella sua breve carriera (l’ultimo film è del 1993), aveva una predilezione smaccata per la commedia un po’ demenziale: suoi infatti sia il discontinuo Il ritorno dei morti viventi 2 sia il demenziale Meatballs 2: porcelloni in vacanza.

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A me piace l’horror ma anche le scorregge!

L’idea di fondo di questo I paraculissimi era tra le più sincere e semplici del cinema di bassa imitazione: clonare Animal house senza avere neanche una vera sceneggiatura, tanto che l’autore dello script, Ron Kurtz, mente creativa dietro i Venerdì 13 più riusciti, si firmerà con lo pseudonimo di Mark Jackson (così come nel successivo thriller di Wiedhorn, Gli occhi dello sconosciuto).

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Stocazzo!

Non si può dire che King Frat sia un brutto film come non si può dire che sia bello: è oltre, una pellicola aliena ipnotica, qualcosa di indecifrabile che forse possiede, dietro l’ostentazione di tette e scorregge, la prova dell’esistenza di Dio.

In un’ora e venti scarsa la trama si dipana in altre cento sottotrame (un ragazzo che scopre che la sua pudica ragazza si prostituisce, il furto di una statuetta dal pene abnorme, l’introduzione di una fidanzata per il John Belushi di turno, la salma di un preside morto e così via) e nessuna di queste tracce viene portata avanti, le scene muoiono il tempo di una barzelletta tra spaghetti stracotti buttati contro i muri, vomito indotto per bere più birra e fischietti infilati nel culo.

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Essere John Belushi

Eppure King Frat incarna quell’anima goliardica che il genere confraternite richiede: è il mal di testa post sbornia, è la paura di un domani che si esorcizza nell’ennesima scopata o nella risata post canna. Per questo il film di Wiedhorn va preso per quello che è: un hellzapopping non sense che si deve guardare non con gli occhi dell’adulto ma del ragazzo che si affaccia alla vita, un mondo ancora semplice e a suo modo pulito pur nella trivialità di un universo di dita tirate per scorrare e giù di ghignate.

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Nel suo essere una copia carbone di John Landis, I paraculissimi propone il suo John “Bluto” Blutarsky ovvero J.J. ‘Gross-Out’ Gumbroski, in Italia “Cicciobello“, interpretato da un John DiSanti truccato, abbigliato e clonato per essere un John Belushi della serie B. Oltretutto l’attore, bravo nel ruolo, all’epoca delle riprese aveva ben 41 anni e doveva far finta di averne 18, un’impresa comunque riuscita perché non fai tanta attenzione al suo volto ma soprattutto alle sue natiche flaccide che emettono l’ennesimo peto. E’ la mossa Kansas city predicata da Bruce Willis all’inizio di Slevin – patto criminale: “E’ quando loro guardano a destra e tu vai a sinistra“, un trucco paraculissimo, come appunto il film.

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Non so se sia mai stato stilato un guiness dei primati delle scorregge nel cinema, ma credo che questa pellicola possa vincere senza problemi: solo nel primo tempo ne ho contate 79.

Difficile dire chi sia il migliore del cast perché, a parte John Di Santi che è perennemente in scena, il resto degli attori ha ben poco spazio e molti appaiono e scompaiono senza molto senso narrativo. Forse il capo indiano interpretato da Dan Chadler ha più di un punto d’interesse e il personaggio, quando è in action, risulta molto divertente.

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Lo spirito del film è ben rappresentato dai primi 5 minuti dove le nostre matricole dei Deltas percorrono il campus mostrando le natiche a qualunque essere umano incontrino, causando la morte per infarto del preside mentre fa jogging. Crudele? Si come tutte le barzellette e come tutte le barzellette non ha bisogno di avere una chiave di lettura diversa dal “Ah ah ah che coglione che sei!” detto all’amico burlone.

Sul piano delle tette si segnala soprattutto le due incredibili bocce dell’attrice Teri Kelso impegnata in una scena che non ci credi possa esistere: sesso con un uomo vestito da gorilla (momento che anticipa una sequenza di Una poltrona per due di Landis) su un’ambulanza con la conseguenza dolorosa di restare incastrata nell’amplesso. Si quelle cose che leggi in Cronaca vera e che speri di non accadano mai a te!

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La stessa Teri Kelso poco prima, vestita da Wonder Woman, era apparsa con un pene finto in mano davanti ad un prestigiatore: “Cos’è che ha due palle?” “Stocazzo!“. A suo modo una martire del film scorreggione di cui King Frat ne è il massimo esponente.

C’è da dire che questo film, almeno in una sequenza, le fiamme create dalle flatulenze, anticipa l’altrettanto folle e scorretto Scemo & più scemo (Dumb and Dumber)di Peter Farrelly con Jim Carrey.

I paraculissimi arrivò in Italia nel 1982, fu spacciato per un seguito finto di Porky’s – Questi pazzi pazzi porcelloni con il titolo Porki’s numero 2 su distribuzione DRAI e uscì in videocassetta per la Avo film col divieto ai 14. Il doppiaggio lo denaturalizza un po’ inventando intere battute in derive regionali che non esistevano (il presentatore della gara delle scoregge. la scena clou del film, che parla con accento campano).

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Su  imdb si racconta un aneddoto divertente: un utente aveva fatto un’apparizione nel film come membro della band che suonava alla festa della confraternita. Lui e i suoi compagni  andarono a vedere I paraculissimi quando uscì nella loro zona, e la reazione del pubblico fu incredibile: popcorn gettato, soda rovesciata, pomodori contro lo schermo. Un usciere  riconobbe i ragazzi e, temendo per la loro incolumità, li scortò fuori  dal cinema con delle borse in faccia per paura fossero aggrediti.

Difficile dare un giudizio a questo film, ma, come scritto prima, non saranno certo gli 80 minuti peggiori della vostra vita, forse i più incredibili come cinefili più di un Kubrick o un Tarkovskij scassa palle. Viva la figa e chi la ama tiri una riga!

Andrea Lanza

Qui, grazie al sempre benedetto sito di streeaming cinemazoo, il film completo:

http://www.cinemazoo.it/2018/04/05/i-paraculissimi/

I paraculissimi

Titolo originale: King Frat

Anno: 1979

Regia: Ken Wiederhorn (in alcuni Paesi come Reginal Rheigold)

Interpreti: John DiSanti, Charles Pitt, Roy Sekoff, Robert Small, Dan Chandler, Mike Grabow, Ray Mann, Suzina Volpina, Dan Fitzgerald, Tom Tully, Glenn Scherer, Lee Krug, Taryn Hagey, Teri Kelso, Karen Gold, Sally Ricca, Rahnee Reiland, Lee Sandman, Jean Jarvis, Bette Shoor, Bruce McLaughlin, Wolfie Udikoff, Ted Richert, Michael Sandler, Joel Kolker, Joanne Marsic, Bobby Gale, Herb Goldstein, Sonia Zomina, Lee Willis, Tommie Grimstad, Reuben Trane, Ken Wiederhorn, Starr Dey, Tom Chatlos, Joseph Reed, Vincent Agostino, Pat Fendley, Bill Hendrickson, Neil Fleischer, Floyd Schneider, Kent Levack, Vinny Quaranta, Bob Norris

Durata: 80 min.

VHS: AVO FILM

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Savage Streets

09 venerdì Feb 2018

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, capolavori, drammatici, linda blair, Recensioni di Andrea Lanza, S, starlette, tette gratuite, tette vintage

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cinema, danny steinmann, Debra Blee, film, Ina Romeo, John Vernon, Johnny Venocur, linda blair, linnea quigley, Lisa Freeman, Marcia Karr, recensione, recensioni, Robert Dryer, Sal Landi, savage streets, Scott Mayer

Un blog americano, nel parlare di Savage streets, fa presente che è un film che vive di tre B, almeno se si parla inglese perché in italiano la cosa ha meno senso: BEAR (orsi, anzi trappole per orsi, e capirete presto perché), BOOBS (tette) e BLOOD (sangue).

Niente di più vero ed è ironico che il critico parli costantemente, in maniera ossessiva, delle (incredibili) bocce di Linda Blair, aggiungendo alla fine: “And yes, I am gay. Very gay. But Linda Blair and her boobies make me VERY happy, as they should the whole world“. Cioè questo fa capire che Linda Blair e le sue tette sono strepitose, o almeno lo sono state negli anni 80, e solo a guardarle possono metterti di buonumore, l’Ovomaltina sparata in vena col latte, l’Orzobimbo o il Nesquik che da ragazzino fungeva da caffè, e sono universali che tu sia gay, etero o Korang, la terrificante bestia umana!

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Savage Streets è un film che, spero qualcuno mi smentisca, non è mai uscito in Italia, come l’altro Linda Blair movie che abbiamo affrontato in questi giorni, Hell night, e come Hell night doveva essere un thriller violento diretto da Tom DeSimone.

Così non è stato e presto la produzione licenziò il primo regista assumendo Danny Steinmann che aveva nel curriculum un divertente porno, High Rise, girato sotto lo pseudonimo di Danny Stone, e un horror di buona fattura, Unseen con Barbara Bach, firmato anche questo con un nom de plume, Peter Foleg.

Strano il destino di Steinmann: discreto regista, ha firmato un ottimo Venerdì 13, uno dei meno amati dai fan, il 5, narrativamente sorprendente per come ribalta le premesse di una serie tutto sommato godibile ma prevedibile. La sua carriera sembrava essere pronta per decollare quando un terribile incidente in bicicletta l’ha costretto a ritirarsi dalle scene per dedicarsi alle cure, molte e dolorose, senza più poter tornare a girare un altro film.

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Uno dei pochi ritratti, commoventi e sinceri del regista, lo potete trovare su dreadcentral, quello di un artista sfortunato ma talentuoso, sconosciuto ai più, ma che sembrava dovesse girare grandi cose come il mai concretizzato L’ultima casa a sinistra 2.

Su Savage Streets il defenestrato Tom DeSimone dichiarò:

“Sono stato effettivamente assunto per dirigere Savage Streets e mi sono portato dietro Linda Blair che era una mia amica dopo Hell night. Tuttavia, anche in produzione, la sceneggiatura continuava a essere rielaborata da uno degli investitori che si immaginava uno scrittore. Ben presto mi è stato chiaro che il progetto si stava muovendo in una direzione diversa da quella in cui avevamo iniziato e non ero contento di questo. Frustrato da tutti i cambiamenti che giudicavo orribili, sono uscito dal progetto ed è qui che entra in gioco Danny“.

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Dal canto suo Steinmann invece racconta:

” Stavo lavorando ad una miniserie per Playboy Television con Britt Ekland, quando ho ricevuto una chiamata da un mio buon amico, Billy Fine. Era nei guai perché stava producendo un thriller con Linda Blair, le riprese dovevano iniziare letteralmente l’indomani, il problema era che aveva appena licenziato il regista. Verso mezzogiorno, sono andato nell’ufficio di Billy e mi è stata data la sceneggiatura di Savage Streets e, dopo averla letta, ho accettato. Playboy mi diede il permesso di occuparmi di questo lavoro. La notte prima di girare feci tagli seri alla storia e alcune aggiunte, ma non sapevo che lo script sarebbe cambiato più volte nel tempo. Mi sono sbarazzato di intere scene, dialoghi e personaggi. C’era una storia d’amore che coinvolgeva Linda, una sotto trama riguardante la polizia, un sacco di gag che pensavo non avrebbero funzionato, scene che avrebbero rallentato il film. Il mio obiettivo principale era quello di mantenere il pubblico coinvolto e interessato davanti ad un film tutto sommato sciocco e lo feci eliminando dialoghi cretini e molti cliché. A difesa del primo script, bisogna dire che Savage Streets è stato uno dei primi film con protagonista una giovane donna sulla falsariga di Charles Bronson. Il problema era che, se da una parte avevi una banda che violentava brutalmente un’innocente ragazza sordomuta e gettava un’altra ragazza da un ponte, non potevi mantenere un’approccio troppo superficiale e allegro“.

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La produzione di Savage Streets, a sentire le persone coinvolte, doveva essere un film nel film: attori che se ne sono andati, registi licenziati e ad un certo punto i soldi finiti.

“Non appena ho iniziato le riprese, le cose stavano, sorprendentemente, andando molto bene. – racconta ancora Steinmann – Linda Blair stava dando una buona prestazione e le cose sembravano buone. Mi stavo divertendo! Poi, dopo due settimane e mezzo di riprese, nessuno pagava nessuno. Le riprese si sono interrotte. Non c’erano più soldi”.

Fatto sta che uno dei produttori, il già citato Billy Fine, entra in conflitto con gli altri soci, esce dal progetto non in maniera felice (qualcuno gli mette una testa di pesce davanti al suo appartamento) ed entra John Strong, un investitore con probabile affiliazione mafiosa. Tant’è però che il film viene terminato anche se il nuovo arrivato aveva non poche velleità artistiche.

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“John Strong ha scritto due scene e le ha girate. – precisa Steinmann–  La prima è quando i membri della gang vanno a casa di Johnny Venocur per prenderlo. Esce, cambia i vestiti e sale in macchina. La seconda scena è quando Linda va da Johnny Venocur e parla con il padre. Erano comunque entrambe scene fantastiche e sono uscite bene. Il problema è che, poco dopo l’inizio delle riprese, John ha iniziato a far sentire la sua presenza. Il suo ego è stato monumentale e ho faticato a finire il film. Voleva modificare il film con me al suo fianco. Penso che se John fosse stato in grado di scrivere, dirigere, produrre e recitare in un film tutto suo, tutti i suoi sogni si sarebbero avverati“.

Tom DeSimone comunque sembra abbia diretto qualcosa, anche se è difficile capire cosa, ma la sua dipartita dal progetto causa l’uscita dalle scene di almeno un’attrice che lo seguirà, la graziosa Debra Blee, qui una delle amiche della protagonista, Rachel, che da metà film scompare letteralmente.

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C’è da dire che Savage Streets è un film costruito per Linda Blair e nessun altro personaggio femminile ha il suo carisma, la sua forza o la stessa importanza. Se i ragazzi, i pervertiti stupratori, gli Scars, sono delineati tutti con una certa importanza e un ruolo ben preponderante all’interno della loro gang, lo stesso non si può dire della banda delle teppiste, le Satans. Se provate ad isolare Linda Blair dal gruppo il film funziona comunque perché è Linda a fare le cose migliori, a pronunciare le battute più epiche, il resto, come in un horror, è carne da macello o comunque corollario.

Savage streets andò incontro a censure soprattutto per il brutale stupro ai danni di Linnea Quigley, futura scream queen di tanti horror a partire dal Ritorno dei morti viventi, l’idolo di tanti adolescenti in preda al testosterone più selvaggio.

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Il momento dove gli Scars violentano l’attrice è uno dei più duri della pellicola perché si tratta di una minorenne muta, quindi la scena appare più insostenibile in quanto la poverina cerca di urlare ma le escono soltanto dei gridi strozzati. Certo la censura ammorbidisce la scena soprattutto quando il capo della gang, Robert Dryer, la finisce con un solo calcio sulla testa e non con tre, come nel girato non vulgato.

Linnea Quigley è molto brava nella parte della fragile vittima, un personaggio distante anni luce dalle donne forti e un po’ bitchies che sarà solito interpretare. La Blair, in un’intervista sul film, dichiarerà che sono stati tagliati in fase di montaggio tantissimi momenti che vedono le due sorelle condividere momenti banali di vita quotidiana come ridere appena sveglie o prepararsi per andare a scuola, situazioni che avrebbero ampliato, se è possibile, ancora di più la brutalità dello stupro.

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Bisogna dire che Savage streets è un film exploitation nel senso più buono esistente: è intrattenimento popolare a base di sesso e violenza come ogni buon B movie richiede. Ci sono un sacco di momenti frivoli e gratuiti nella pellicola a cominciare da un’incredibile lotta tra ragazze in una doccia fino ad un momento alla Porky’s dove la Blair strappa la maglietta all’antipatica Rebecca Perle. Capisci oltretutto che stai guardando un ottimo film di basso profilo quando nel bagno non si picchiano solo le contendenti, ma pure le nudissime comparse, senza ragione, neanche fossimo in un WIP di Jesus Franco.

In più si cerca di sporcare il personaggio della Blair e portare sullo schermo un personaggio forte come andava di moda al cinema di quell’epoca, sulla falsariga dei vari Stallone o Charles Bronson, declinando lo stereotipo macho in una donna dalla parlata non proprio da cherubino. Sue frasi come “Non lo scoperei neanche se fosse l’ultimo cazzo sulla terra!” o “Fottiti cagna” o ancora il meraviglioso monologo con Robert Dryer “Ti chiedi mai come deve essere un maiale, prima che gli taglino la gola? O quando gli hanno tagliato le palle? Non potrebbe essere peggio di come mia sorella si sia sentita. O Francine. L’avete ammazzata che era incinta. Se pensi che sarà veloce, sappilo, non sarà veloce, Jake“.

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Anche se la battuta più becera ed epica spetta al preside Underwood, John Vernon, altro personaggio ridotto dopo l’arrivo di Danny Steinmann, che, rivolto agli Scars, li invita a “scoparsi un iceberg“. Questa battuta fu improvvisata dallo stesso attore e non faceva parte del copione.

In anticipo di un anno su Rambo 2 la vendetta, Linda Blair si prepara alla guerra vestendosi di latex scuro con una cura dei dettagli che riporta allo Stallone che indossa la famosa benda rossa e infila il coltello nella cintura. Entrambi d’altronde stanno partendo per il proprio inferno, un Vietnam violento nel quale si muovono come fosse la propria casa.

La scena più bella, quella più voyeuristica, precede questa sequenza: mentre la musica rock è al massimo volume, Linda è immersa in un bagno caldo con il suo magnifico corpo in pasto agli spettatori. Un momento forse gratuito, ma chi se ne frega: siamo in una  pellicola a suo modo epica ed epocale.

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La band di stupratori, come detto, è ben bilanciata in caratteri diversi e in ottime interpretazioni, ma vengono tutte offuscate dalla prova di Robert Dryer, un cattivo a tutto tondo, una sorta di trasfigurazione attoriale tra reale e finzione al pari dell’altrettanto grande prova di David Hess in L’ultima casa a sinistra.

Oltretutto, durante lo stupro di Linnea Quigley, un sottotesto omoerotico fa capolino quando, esaltati dai baccanali di sesso, due membri della gang (Dryer e Sal Landi) si baciano appassionatamente neanche fossimo in una scena di Cruising di William Friedkin.

A proposito di questa sequenza Danny Steinmann ha dichiarato: “La scena non era nella sceneggiatura o durante le prove. Era un momento totalmente inaspettato ed ero elettrizzato. Dava un certo qualcosa in più alla sequenza e ha funzionato perfettamente. Sono rimasto molto colpito“.

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Linda Blair, novella Giustiziere della notte, non usa pistole, ma balestre, vernice infiammabile e… trappole per orsi. Bisogna dire che la violenza non ha mai quell’impennata che ci sia aspetta, stupro a parte, ma sia la performance dell’attrice nel finale, occhi spiritati e dialoghi deliranti, sia l’inventiva delle macchine di morte, da al film quella dimensione di assoluto cult ignorante che diventa nei ricordi un cult in senso lato.

In più Savage streeets è anche una versione alternativa e deviata di Grease dove i momenti musicali lasciano il passo alla grandissima colonna sonora, le coreografie alle lotte di femmine nude e incazzate, e la liaison amorosa tra Sandy e Danny è la lotta fino all’omicidio tra Brenda e Jake, la faccia violenta delle Pink Ladies e dei Tbirds.

Danny Steinmann morì a 70 anni nel 2012, come detto non fece più niente al cinema dopo il successivo Venerdì 13 parte V, un peccato perché il suo cinema scorretto, sporco e violento poteva lasciarci altre perle al pari di Savage streets, un film che malgrado i mille problemi, o forse anche per quelli, ci continua a piacere come un divertimento vietato che, fanculo tutto, vale più di cento pellicole meglio scritte o dirette.

Linda Blair e le sue tette sono invece leggenda, ma questa, come in Conan di Milius, è un’altra storia che rende meravigliosi anche i suoi (tanti) passi falsi successivi.

Andrea Lanza

Savage Streets

Anno: 1984

Regia: Danny Steinmann

Interpreti: Linda Blair, John Vernon, Robert Dryer, Johnny Venocur, Sal Landi, Scott Mayer, Debra Blee, Lisa Freeman, Marcia Karr, Linnea Quigley, Ina Romeo

Durata: 105 min.

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Tette vintage: Anna Falchi

30 domenica Lug 2017

Posted by andreaklanza in starlette, tette gratuite, tette vintage

≈ 4 commenti

Tag

Anna Falchi, bava, boldi, carlo lizzani, dellamorte dellamore, dylan dog, fellini, motoscafo, piroscafo, tette vintage, vanzina

L’estate riporta a Malastrana sempre la sua rubrica storica, Tette vintage, la stessa che l’Umberto Eco di Terra 2 aveva definito “La cosa migliore da leggere dopo Dylan Dog”. E noi a Dylan Dog vogliamo bene, che sia quello di Terra 2, 7 o 2000, perchè l’Old Boy è cresciuto con noi, lui già grande e noi bambini delle elementari/medie e ora lui ancora grande e noi ahimè più grandi di lui, Giuda Ballerino, mi sa che ci seppellirà! E poi Dylan Dog condivide un segreto con noi: ama le tette di Anna Falchi. Cioè non proprio lui ma il suo cugino italiano, Francesco Dellamorte, ma va bene lo stesso. Me li immagino quei due bischeri, con la stessa faccia da Rupert Everett, davanti al camino, mangiando delle ottime castagne di Boffalora che si raccontano le proprie conquiste, poi ad un certo punto Francesco imita il motoscafo, faccia tra le tette, come un cazzo di Boldi dei bei tempi, e Dylan, più pacato, ride e in un italiano sdentato dice “Sei tremendo, Fra. Ma davvero questa Anna Falchi aveva le tette così?”.

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Motoscafo

Si, Dylan, Anna Falchi era negli anni 90 il must della stragnocca italiana, un’attrice mediocrissima che però si difendeva per l’innata simpatia e quelle due Bombastic, per tornare in campo Vanzina, che spaccavano lo schermo e ti rompevano i pantaloni neanche fossi diventato Hulk in incognito.

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Anna Falchi ha fatto alcuni film notevoli, il migliore è senza dubbio il poetico Dellamorte Dellamore di Michele Soavi con la sua scena cult di mega scopatona tra tombe e fuochi fatui, lei fresca fresca di vedovanza che cavalca il nostro Rupert Everett che sembrava tutto meno che frocio mentre veniva rapito da quelle tette che mi muovevano ipnotiche sopra di lui, la certezza che Dio esiste nel silicone.

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Piroscafo

Certo le tette di Anna erano cambiate da quel 1993 dove aveva interpretato il malinconico Nel continente nero di Marco Risi e aveva mostrato con orgoglio le sue belle tettine, ma pochi mesi dopo nel trucidissimo Anni 90 parte seconda, vestita con cuoio e armata di frustini, ecco che le tettine erano diventate monumenti ai caduti, una quinta abbondante, e fanculo Don Buro, wow.

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Bella e senza tette

Noi, i tanti cinefili rapiti dal ben di Dio di Anna, l’abbiamo seguita dappertutto sia che si trattasse del trucidissimo S.P.Q.R. dove interpretava Poppea perchè come diceva il sommo Max Cipollino “Ci ha le poppe a pera” sia che fosse il clone di Fantaghirò, Desideria, vestitissima ma non a prova della nostra fantasia. E poi via di Festival di Sanremo tra gaffe e doppi sensi pecorecci tra il finlandese, sua lingua madre, e l’italiano, con battute tra lei e Baudo del tipo “Come si dice in finlandese Buona fortuna” “Cazzo”, la televisione che amiamo, Iside fammi una pompa, e cica cica cica tonda!

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Anna è riuscita a a rapire pure Federico Fellini, uno che di donne formose ne aveva fatto una poetica, recitando per lui uno spot.

Della Falchi eravamo così innamorati che ci siamo subiti cazzate come il Dino Risi più rincoglionito di Giovani e Belli, ma lei i registi bravi li rincitrulliva, malafemmina, e così successe per Maurizio Nichetti e l’orribile Palla di Neve, il Lizzani che non avremmo mai voluto vedere con Celluloide fino alla disfatta di Sergio Rubini con il pallosissimo L’uomo nero, lui che aveva girato il capolavoro de La stazione.

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Però quel Bava lì… secondo me…

Anna Falchi era una sirena e così ammaliava i marinai, i registi, gli attori, la sua magia era la bellezza che partiva dagli occhi, bellissimi non dimentichiamolo, e sublimava in un corpo da dea amazzone che ti tramortiva e ti faceva innamorare.

Poi però siamo cresciuti e l’abbiamo persa di vista, quello che non è mai successo con Dylan Dog perché non dimentichiamolo che le donne vengono e passano, ma gli amici quelli veri sono per sempre.

Però davvero Anna noi ti abbiamo voluto bene quando i nostri capelli erano selvaggi.

Andrea K. Lanza

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Il culo è lo specchio dell’anima

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Ovunque la guardi un monumento

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La sua pubblicità

 

Tette vintage: Phoebe Cates

31 domenica Lug 2016

Posted by andreaklanza in Senza categoria, tette vintage

≈ 3 commenti

Tag

paradise, phoebe cates, tette belle, tette burrose, tette giocherellone, tette sballonzolanti, tette vintage

Saranno mille anni che non scrivo un Tette vintage ovvero la rubrica di Malastrana vhs dedicata alle star(lettes) che, nel passato, hanno usato le tette come sacra arma di battaglia per la loro carriera. Lo sanno anche i sassi che noi di Malastrana vhs siamo pro tette. Un film può essere scemo, brutto, ignobile, ma le tette possono essere quella polverina che trovi al supermercato che trasforma il tuo piatto malcucinato in un manicaretto che sembra fatto da mammà. Le tette sono l’ingannasapore, quello che anestetizza l’odore di merda facendoti credere che hai cagato violette e invece, amico mio, nonsei un minipony,è  spray preso al Tigotà. Ecco perchè Tette vintage è una rubrica della quale siamo fieri perchè le tette hanno addolcito per anni le visioni più brutte delle nostre notti insonni di cinefili mannari.

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Sembra violetta, ma ho fatto la cacca

E’ anche vero che, in questo sito, siamo pigri di natura, abbiamo nell’indole il DNA dei messicani, a noi piace la siesta e la pancia piena, quindi questa rubrica è stata più volte rimandata per via di una patologia, che noi abbiamo battezzato, “La sindrome di Rossella O’Hara”. ovvero del domani è un altro giorno. Peccato che il domani sia sempre il giorno dopo in un loop infinito. Sarà però che abbiamo finito le tortillas e la tv ha smessso di produrre il nostro telefilm preferito, Blue Montain State, quindi alle 4 del mattino, un po’ come Guccini ma senza vino, abbiamo deciso di resuscitare tette vintage.

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Ci manchi, Blue Montain State

E con quale attrice possiamo ricominciare meglio di Phoebe Cates?

Il cinema più mainstream la conosce per Gremlims, il capolavoro natalizio di Joe Dante, dove aiutava il tontolone Zack Galligan a combattere la minaccia di un gruppo pestiferi mostricciattoli, ma la sua carriera per noi catecumeni delle tette, non ci voglia il buon Dante, è focalizzata su tre film: American college, Paradise e Fuori di testa.

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Phoebe e la scimmia che si masturba

Paradise era un bieco rifacimento di Laguna Blu con più scene scollacciate, una scimmietta che si masturbava che avrebbe dovuto fare ridere e invece faceva solo senso, una canzone scema ma orecchiabile e la Brooke Shields della serie B ovvero la nostra Phoebe Cates.

Purtroppo, in Paradise, Phoebe fu configurata nelle scene più hot, ma volete spiegarlo ad un ragazzino che. in piena tempesta ormonale, ti trova questo filmaccio su Italia uno e può guardarlo impunito perchè tua mamma sta piangendo davanti alla storia d’amore?

Se le tette comunque non erano sue al cento per cento, la canzone scema ma orecchiabile, Paradise, era cantata al centodieci per cento dalla nostra Phoebe che, per farsi perdonare di aver distrutto i nostri timpani, mostrò le tette per davvero nei suoi lavori seguenti.

 

La scena di Fuori di Testa dove esce dalla piscina e si slaccia il reggiseno rosso al rallenti è a tutti gli effetti una delle sequenze  più da mano d’oro che ricordi nella mia adolescenza. Tanto bastò per promuovere Phoebe Cates ad attrice che da grande avrei sposato.

Dopo American college (più culi che tette) però ci fu l’oblio delle grandi produzioni e l’incontro un po’ canaglia con il futuro marito Kevin Kline che la allontanò dale scene, almeno quelle che interessano a noi.

Come avete immaginato, Phoebe Cates non me la sono sposata io, ma nel 1996 successe che io e lei… Scusatemi però, questa è un’altra storia.

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Questa è un’altra storia

Ma eccovi a voi Phoebe e le sue tette, mentre andiamo a fare la nanna, lettori di Malastrana, all’alba delle 5 e 30.

Ad una delle prossime domeniche per un altro Tette vintage.

Andrea Lanza

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L’assicuratrice di cazzi

02 mercoledì Dic 2015

Posted by andreaklanza in Recensioni di Andrea Lanza, Senza categoria, tette gratuite, tette vintage

≈ 14 commenti

Tag

assicuratrice di cazzi, deborah wells, film antisega, film porno, simona valli

Erano anni che non recensivo un porno, da quando da adolescente iniziai la mia carriera di critico cinematografico sulle pagine della rivista Videoimpulse. Erano anni meravigliosi quelli, alla stregua dei capelli selvaggi di un film di Wong Kar Wai anni 90, dove il mio zaino da universitario si riempiva di vhs hardcore piene di fighe, donne virtuali  pronte alla mia sega solitaria in onore della settima arte.

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Devo dire che è proprio negli anni 90 che mi sono fermato, il mio cumshot si è cristallizzato sulle magnifiche tette di Jenna Jameson, il suo viso perfetto non ancora sformato dalle protesi, dal silicone e dalla vecchiaia puttana. Dopo, il nulla e mi piace in fondo restare così, ignorante, perché le cose, che ho visto dopo, erano lontane dalla mia idea di porno, di arte estrema fatta di liquidi e carne. Il resto, autori che all’epoca mi piacevano pure, è diventata col tempo noia, un vuoto pneumatico quasi alla Brett Easton Ellis.

Il porno è un mondo che non mi affascina più come da ragazzo, maledizione alla volta che ho preso l’ultima stella a sinistra e fino al mattino, sono cresciuto, ho vissuto e mi sono ingrigito come le ragazze dell’hardcore. Probabilmente non sono neanche l’Andrea Lanza del 1999 o giù di lì, sono i suoi sogni interrotti, il terrore di essere quello che si diventerà. Cos’è il porno per me ora? Un video di youporn senza trama, il tempo di un orgasmo annoiato e via a farmi un panino. Che ci volete fare? Col tempo sono diventato un viziato della carne e odio i surrogati di essa.

Andrea Lanza è diventato un borghese vizioso.

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Comunque tempo fa cercavo una vhs da recensire, un horror americano sulla falsariga di Lucio Fulci, e sono incappato in questa videocassetta che neanche sapevo di avere, senza copertina, con gli adesivi strappati dal tempo, una copia di una copia di una copia forse, e ho scoperto essere un porno dal titolo romantico, L’assicuratrice di cazzi.

Faccio partire la vhs e mi si apre un mondo di squallore quasi divino, ridivento un adolescente tra le onde ipnotiche di questo film, osceno, ridicolo, dalla visione incerta e slabbrata che solo il nastro digitale può regalare.

Il film si apre come il peggior porno di Joe D’Amato con l’immagine fissa di una casa e i titoli di testa che scorrono su uno score rubato da chissà dove. Mi ricorda con nostalgia il mitico Robin Hood la storia mai raccontata dove un castello in fermo immagine tremolante scandiva l’intro dell’opera.

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L’assicuratrice di cazzi mi appare già per quello che sarà: miserabile e divertente.

La prima scena è una doccia hot dove la rossa Simona Valli si masturba con un doppiaggio allucinante e straniante. Una scena top della commediaccia italiana trasposta in chiave luci rosse, ma dal grado di erotismo simile ad una gara podistica di foche monache.

Ma ecco che bussa alla porta un assicuratore che propone alla donna, in rigoroso accappatoio post doccia, una nuova e moderna polizza: l’assicurazione del corpo. Segue una sequela di frasi sceme dove l’uomo si rivela palesemente un truffatore, almeno nel mondo reale, ma nel mondo del porno assicurare tette e culi è una prassi comune.

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Quindi ecco che il nostro assicuratore tira fuori un metro e scrupolosamente prende le misure dei seni della donna, poi non pago vuole farle un’assicurazione sui pompini e sulle chiavate. Chiamatelo scemo!

Quello che noi non sappiamo però è che gli assicuratori di cazzi se si scopano una donna la rendono un’assicuratrice di cazzi. Eh sì, non servono scuole, diplomi, basta una scopata! Gli assicuratori di cazzi sono come i vampiri o gli zombi, ti infettano e ti rendono come loro!

Seguono lunghissimi minuti dove l’assicuratore viene lasciato da solo e mangia una mela, non un morso, ma lentamente tutta, e dove parla da solo in lunghi monologhi dal sapore di un film girato da Michelangelo Antonioni.

Ecco che senza motivo ci spostiamo all’interno di una macchina dove una delle pornostar più strafighe degli anni 90, Deborah Wells, parla fuori sincrono con un primate parzialmente pelato e dalla fronte scimmiesca. Discutono di cose senza senso, finché non capiamo che stanno andando a casa dell’assicuratore di cazzi che è anche casa della rossa Simona Valli. Quindi facendo uno più uno, oltre ad avere reso la donna un’assicuratrice di cazzi, le ha rubato pure la casa.

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Deborah è triste perché non sa se sarà all’altezza di fare l’assicuratrice di cazzi, ma il primate la ferma subito: la testerà prima lui. Quindi via di musica a cazzo e oh yeah si fottimi, quanto ce l’hai grosso, posso farcela anch’io.

Ma ecco che, a casa di Simona e dell’assicuratore, oltre a Deborah e al suo manzo, c’è un’altra coppia mai vista, lei dall’aspetto di un troione da strada, lui di un sgozzapreti stupra bambini. Parte una lezione e l’orgia è servita.

Il film finisce improvvisamente. Sarà stato così il cut? Si è smagnetizzato il nastro? Un bo grande come una casa insieme a un chi se ne frega.

Cercando su internet scopro che il regista è un certo Carlo Vallone, che non credo di avere mai sentito nominare, ed esiste pure un dvd, incredibilmente, di questo porno, venduto in alcuni siti a prezzi da criminali.

Se dovessi tornare ai miei anni 90 su Videoimpulse direi che il film è girato malissimo, interpretato da cani ed è impossibile anche solo avere un’erezione per una sega, a meno di avere fantasie verso la vostra nonna novantenne.

Le attrici, almeno le principali, sono comunque strafighe e ho paura a cercare sul web come si sono conciate negli anni. Tanto so che il tempo rende tutti diversi, il segreto sta accettarlo e non cercare l’eterna giovinezza in chirurgie plastiche, perché alla fine, anche con mille barbatrucchi, se si è vecchi si resta sempre vecchi. Non voglio vedere Simona Valli o Deborah Wells palesarsi come comparse di Society di Brian Yuzna, il viso sformato in maschere grottesche. Voglio ricordarle con le tette e il culo talmente perfetti da essere degni di un’assicurazione.

Il dubbio però che mi resta è perché si chiama l’Assicuratrice di cazzi se non la vediamo mai all’opera?

Scommetto che nella risposta c’è l’essenza di Dio.

Andrea Lanza

 

 

La necrofila (Love me Deadly)

01 mercoledì Lug 2015

Posted by andreaklanza in drammatici, N, Recensioni Francesco Ceccamea, tette gratuite, tette vintage

≈ 1 Commento

Tag

amami mortalmente, fare sesso coi cadaveri, la regina del male, love me deadly, necrofila

La Necrofila (1972), non è un capolavoro misconosciuto ma un filmetto tecnicamente mediocre, recitato con l’istrionismo tipico di una telenovelas caraibica e voragini di sceneggiatura quasi in territorio Seirlingiano (inteso come il papà de Ai confini della realtà, esatto). Di contro è una perlina sozza, uno schiaffo audace alle buone maniere della perversità d’autore e forse il più genuino trattato sulla necrofilia pre-Buttgereit. Non c’è molta violenza, non ci sono secchiate di sangue e tanto meno la lascivia porno soft di certo cinemino border-line con il piede nelle staffe di più generi. In un certo modo è un ritratto toccante, discreto e sentito di una bella ragazza in fissa con i cadaveri. Punto. Lindsey Finch, (interpretata da Mary Charlotte Wilcox) ha un grosso trauma da manuale psichiatrico che la riduce a bighellonare tra vecchi cimiteri e Funeral Homes fin quando una setta segreta con gusti assai simili ai suoi non le mette gli occhi addosso e un marito (Lyle Waggoner) esasperato e sospettoso non la sgama.

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Gli amplessi orali e gli sfregamenti epifanici non mancano ma tutto è gestito mantenendo una decorosa patina anni 70 da rivista di moda, tra rolls royce e cappellini con velo, ristoranti etnici e mostre d’arte elegantone. Tutto il bric a brac da catalogo Vanity Fashion è scandito da un motivo musicale talmente vetusto da scatenare la necrofilia degli appassionati musicali di colonne sonore da archivio. Il brano composto da tale Phil Moody (che non è come Wikipedia linka il leader della pop band Cowabanga ma un dimesso e forse mai esistito compositore sinfo-jazz) si intitola come lo stesso film in originale: Love Me Deadly. Si tratta di una ballata in stile Artie Kane (Looking For Mr.Goodbar) se avete presente, dove una voce femminile pregna di solitudine e scotch di classe lagna verso il sesso maschile il gran bisogno di amore che ha. Quel deadly reiterato è facilmente ribaltabile con daddy, (il babbo), unico grande amore e ossessione d(‘)annata per la povera necrofila donna/bimba.

Il film inizia proprio con una serie di flashback giallo diarrea colerica al rallentatore e ricchi di zoom indiavolati dove vediamo il perpetrarsi innocuo del rapporto incestuosamente paposo all’origine di ogni casino narrato della piccola Lindsey. Il bel papà è divertito e forse un tantino consapevole della cotta di sua figlia e magari la disgrazia che seguirà è solo la provvidenziale e moralistica punizione di lui, vero colpevole di questa devianza letale (ma è solo una supposizione modesta di chi sta scrivendo, intendiamoci.)

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Probabilmente l’autore Jacque Lacerte, che dopo un esordio così entusiasta non sembra aver dato il via a una schiva carriera al servizio del male in pellicola o delle pubblicità Amaro Ramazzotti, non era molto fiducioso nelle proprie capacità di dialoghista (ha scritto anche la sceneggiatura, sì), ecco perché una metà del film sembra quasi un vecchio muto. I personaggi si muovono, parlano e agiscono per lunghi tratti sommersi da una colonna sonora birichina e dal sapore latineggiante. Bisogna ammettere che su un piano del linguaggio filmico è anche interessante: non è frequente veder sbrogliare ettari di trama con una specie di balletto di sguardi, abbracci e passeggi consumati nell’arco di pochi minuti in cui i personaggi muovono le labbra senza dir nulla e nel mentre si seducono, familiarizzano, si lasciano, si sposano… Peccato che Jacque si faccia prendere la mano e quello che avrebbe potuto essere un modo intelligente e umile di trasformare la necessità in virtù diviene un istrionico tentativo di attirare l’attenzione su di sé.

La povera “signorabbene” finisce per sposare un uomo assai simile fisicamente al povero padre perduto ma deve concedersi sovente una cavalcata di carne cruda per sfoderare i sorrisi da perfetta mogliettina. Questo la costringe come prima del matrimonio, a una doppia vita. Il suo reale problema però non è la pratica di una mania inaccettibile per il mondo civile di cui lei dopotutto vuole essere parte (organizzando feste chic e promettendola a destra e a manca di continuo) ma la distrazione cronica! La signora Lindsey Finch infatti è davvero un disastro di rincoglionitaggine! In più di un’occasione si lascia sgamare e seguire, dimentica sinistre lettere d’invito alla sospettosa mercé del marito; si scopa un cadavere sotto gli occhi di uno sconosciuto nascosto dietro un velo trasparente; si fa sorprendere dal tipo con cui esce, di notte, mentre vaga in città a orari inscusabili verso i suoi amici cadaveri e di giorno mentre balla con un orsacchiotto tra le braccia e due dementi treccine, sulla tomba del papà defunto.

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In parte è un po’ sfigata, per carità, ma forse è tutto un inconsapevole meccanismo di seduzione da vedova nera, forse… Non è un caso che gli uomini, invaghiti di lei finiscano per seguirla fino a trovarsi poi infallibilmente su un lettino d’acciaio con dei tubi nella giugulare, davanti agli sguardi inorriditi, disperati ed eccitati della protagonista e quelli malignamente arraposi della congrega necrofila di cui, dopo un iniziale fase di dubbio ed esitazione, Lindsey diventa parte attiva.

Ovviamente, in realtà la signora Finch è così sbadona, sfiga e puttana più che altro perché Lacerte è un pessimo sceneggiatore e risolve tutti gli inghippi della trama a spese della concentrazione della sua protagonista, ma in fondo poco importa come proceda la storia. Quello che davvero vale la riscoperta di La necrofila è il garbo e la sobrietà con cui un tema sordido oltre ogni canone venga trattato in un’epoca ancora troppo lontana per simili aperture mentali alternative. Non c’è sensazionalismo e per quanto in modo terribilmente scolastico, il film è incentrato sul tentativo genuino di restituire umanità a chi fa sesso con i morti senza giudicarlo.

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Da parte della signora Finch infatti non c’è la voglia di trattenere o esaurire una simile pazzia ma soddisfarla e tenerla segreta. Questo non la conduce a una morte orribile ma al soddisfacimento assoluto di ogni suo desiderio.

Il cuore del suo papà è ancora vivo dietro la rigida coltre cicciuta di anonimi corpi e per lei è semplicemente impossibile rinunciarvi. L’inferno però è pieno di gente che amò oltre ogni ragionevolezza e a qualsiasi costo, sembra dirci Lacerte, quindi non schifate la signora Finch, vuole solo essere felice e rassicurata, come tutti noi.

La donna, nonostante i casini mentali in cui si trova, finisce per rivestire il ruolo di una moglie (ma non di una madre) solo perché la realtà è scesa a patti con lei, restituendole un clone fisico del padre che però è troppo vivo per scatenarne la libido. Lei infatti è apparentemente frigida e non si concede. E tutti gli uomini che provano a farle cambiare idea non vanno mai molto avanti nell’approccio. Anche l’amico (interpretato dall’indimenticabile mannaro Christopher Stone de L’ululato) donnaiolo brutale finisce per desistere dopo una specie di stupro estemporaneo a inizio film. Eppure la signora Finch con i cadaveri è sessualmente scatenata, di gran fame e imprevedibile. Colpisce per esempio il bacio prolungato al pizzetto barbuto di un morto, al culmine della prima scena. Ci si aspetterebbe una rapida salita verso le labbra violacee ma lei si ferma a lungo sul punto che molte donne amanti dei vivi detesterebbero: il pelame pizzicoso.

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La congrega di necrofili-satanisti (capeggiati dal becchino spregevole interpretato dall’attore) in fondo è messa lì per dare azione (il film è più un dramma puro che un horror di genere) e ribadire che in certi termini violenti anche la necrofilia va condannata e deve morire. Però rappresenta la componente retrò più figa del film, quella che farà la gioia dei malati di horror anni 70, con orge liturgiche teneramente stroboscopiche e rallentate alla uomo da seimilionididollari.

La parte che invece incute sul serio paura è quando, nel finale, tra droghe e shock vari, la protagonista è lasciata libera di vagare nel buio della propria dimora mentale, accecata dai flash della morte di suo padre e con il vecchio orsacchiotto sottobraccio, custode esoterico del segreto incestuoso, assassino e mortifero della donna/bimba. Lei cammina languida verso l’alcova nuziale mentre la colonna sonora smette di essere fracassona e melensa e fa il suo porco lavoro d’atmosfera riducendosi quasi al silenzio, se escludiamo i rimbrotti vaghi di un carillion in lontananza; ma funziona e rende le immagini ancora più sinistre. Avvertiamo, oltre l’inquietudine, un senso di pietà e immaginiamo quanto quei piedi femminili, una volta tanto, si stringano intorno a due fette maschili ancora più fredde e inerti.

Francesco Ceccamea

La necrofila

Titolo originale: Love me deadly

Anno: 1972

Regia: Jacques Lacerte

Interpreti: Mary Charlotte Wilcox, Lyle Waggoner, Christopher Stone, Timothy Scott, Michael Pardue, Dassa Cates, Terri Anne Duvalis, Louis Joeffred

Noto anche come “Amami mortalmente” o “La regina del male” (aka “Queen of evil”). 

Durata: 90 min.

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