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Malastrana VHS

~ i film più oscuri e dimenticati

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Vivere nel terrore

09 martedì Lug 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, V

≈ 19 commenti

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andrew fleming, Ben Kronen, Bruce Abbott, bruce dern, Damita Jo Freeman, Dean Cameron, Elizabeth Daily, Harris Yulin, Jennifer Rubin, John Scott Clough, Louis Giambalvo, Missy Francis, notte horror, Richard Lynch, Sheila Scott-Wilkenson, Susan Barnes, Susan Ruttan, Sy Richardson, vivere nel terrore

Una premessa prima di questa recensione: da stasera Malastrana vhs insieme ai blog più fighi del mondo, roba che Jerry Calà ce li invidia, affronterà uno dei momenti più iconici della tv italiana, almeno per noi appassionati di horror, ovvero La notte horror di Italia Uno. Da quel lontano e afoso 1989 ne sono passati di titoli importanti, curiosi o, perché no, deliziosamente bruttini, in un’epoca senza internet, quindi senza poter attingere a qualsiasi film e affidandosi soltanto alle vhs, molte fuori catalogo, o ai ricordi da grande schermo. Erano gli anni dove Notte horror veniva introdotta da un pupazzo sardonico dalle fattezze del Creepy americano, prima con uno show che fungeva da Blob splatter, poi con una serie di titoli che spaziavano dal classico moderno (Ammazzavampiri, La cosa, Creepshow) per poi toccare i curiosi inediti come il disgustoso Ticks – larve di sangue o il gagliardo Waxwork – Benvenuti al museo delle cere. Con gli anni il simpatico Zio Tibia è scomparso e anche la qualità dei film è scemata, ma il ricordo di quelle notti rosso sangue al ritmo di Una rotonda di bare è sempre vivido e presente nel nostro cuoricino nostalgico.

Abbiamo deciso perciò di recensire quei film visti proprio durante quelle serate horror. Ogni blog ha scelto uno o più titoli.

Comincia il fratello Raptor Cassidy alle 21 con il bizzarro Stuff – il gelato che uccide del compianto Larry Cohen e alle 23 arriviamo noi con un classico non classico, Vivere nel terrore di Andrew Fleming, anno domini 1988. Si spengano le luci: lo spettacolo è dei più emozionanti.

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Il calendario con le uscite di tutte le recensioni dei film

Bad dreams è uno strano prodotto anni 80, dimenticato dai più ma che avrebbe meritato maggiore fama. Certo non si sta parlando di un film perfetto, ora come allora, nel 1988, ma di un horror dalla buona fattura, pieno di idee e di spunti interessanti. La pellicola inizia negli anni 70, nel periodo d’oro delle sette pacifiste, degli hippies e dell’amore libero. Una di queste, la Unity, predica la bellezza della morte, intesa come liberazione dalla prigionia della vita. Vediamo, nell’intro, i membri del gruppo sorridere, parlare di felicità eterna mentre stringono a loro i propri figli, in quella che sembra una cerimonia di battesimo. Non abbiamo idea però che il loro leader, il reverendo Franklyn Harris, stia usando non acqua ma benzina per benedirli. La strage è delle più crudeli: le fiamme devastano i volti, le persone urlano, ma una di loro, la giovane Cynthia, all’ultimo, cerca di scappare. La fortuna la premia, la cenere la ricopre, è viva. Solo che, dopo 13 anni di coma, si sveglia e non è sola: lo spirito del reverendo Franklyn Harris è tornato per lei.

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Gli echi al famoso massacro della Guyana che vide, a Jonestown, il pastore Jim Jones spingere al suicidio, nel 1978, ben 909 membri della sua setta, sono evidenti ma l’esordiente Andrew Fleming, all’epoca 23enne, non si limita a questo, ad una riproposta fantasy di un fatto di cronaca.

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Jim Jones, quello vero in carne e follia

Il modello per Bad dreams è senza dubbio il famigerato Nightmare on elm street che, in quello stesso 1988, celebrava il quarto fortunatissimo capitolo, diretto dal finlandese Renny Harlin, The Dream Master. La bellissima modella Jennifer Rubin non venne scelta ovviamente per caso: era stata un anno prima nel cast del precedente Freddy Krueger movie, interpretando efficacemente la tossica Taryn White. Se però il marchio della creatura di Wes Craven era un marcato umorismo, lo stesso non succedeva con Bad dreams, tesissimo e senza mai cedere alla parodia modaiola tanto cara agli adolescenti dell’epoca.

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E’ anche vero purtroppo che la pellicola di Fleming presenta delle coreografie di morte non molto ispirate, alcune persino fuori campo, un po’ poco per una pellicola che prometteva, fin dal titolo, “sogni cattivi”. Quello che però fa Bad dreams è concentrarsi sui personaggi, trasformando un canovaccio troppo simile a Nightmare 3 in qualcos’altro, una sorta di Qualcuno volò sul nido del cuculo in salsa splatter. Merito della sceneggiatura di Steven E. Souza, sceneggiatore del cult movie Die Hard ma anche regista dello sciagurato Street fighter, che rende la follia delle varie vittime, pazienti di un manicomio, più accurata psicologicamente della media del genere, distaccandosi anche, dai vari horror teen del periodo, nel presentare un cast di adulti e non solo ragazzini. D’altronde Bad dreams è un film interessante anche perché non si limita a sparare le sue cartucce con il solito body count, ma tenta di sorprendere il suo pubblico con un ribaltone alla M. Night Shyamalan prima che Shyamalah fosse probabilmente svezzato.

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Anche il cast di attori è eccellente, a partire dall’astro nascente dell’epoca Bruce Abbott (Re-animator), ma la parte del leone spetta ad un incredibile Dean Cameron, pazzo, autolesionista e dalla recitazione travolgente. Senza ovviamente dimenticare un mellifluo Richard Lynch nei panni bruciacchiati del reverendo malvagio. In bilico tra horror e thriller, più a suo agio con una violenza carnale alla Clive Barker, fatta di carne martoriata, che con coreografie estetizzanti alla Wes Craven, il film di Andrew Fleming è un prodotto che rivisto anche oggi non annoia. Ad accrescere poi il suo valore è una strepitosa colonna sonora di pezzi heavy metal (ma ad un certo punto si ascolta La Donna è Mobile di Giuseppe Verdi durante un cruento omicidio con un’auto). Nei titoli di coda, poi fa la sua potente figura il capolavoro dei Guns N’ Roses, Sweet child ‘o mine. A tal proposito sembra che il gruppo di Axl Rose e Slash, all’epoca non ancora così famosi, dovessero girare proprio un videoclip sul set di Bad dreams, ma la fidanzata del frontman della band si oppose: la canzone, scritta per lei, era romantica e non adatta ad essere imbruttita con le immagini di un horror splatter.

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Axl e una stronza, Erin Everly

Dopo questo film Fleming non ebbe una carriera importante ma diresse negli anni 90 almeno un cult movie generazionale, Giovani streghe. In Italia Bad dreams uscì al cinema con il titolo Vivere nel terrore ma non fu mai un cult movie, troppo strano forse e poco incline a fare l’occhiolino al pubblico teen. In più di solito viene confuso, per il titolo simile, con Dimensione terrore di Fred Dekker. A questo si aggiunga che non arrivò mai in dvd e morì solo nelle sue uscite in vendita e noleggio per la CBS FOX. Peccato.

NB Della pellicola esiste pure un finale scartato, molto efficace, che vede lo scontro finale tra Cynthia e il reverendo, spostando l’ago della bilancia dal thriller con venature horror all’horror puro. La produzione però optò solo per il finale vulgato.

Andrea Lanza

Vivere nel terrore

Titolo originale: Bad Dreams

Anno: 1988

Regia: Andrew Fleming

Interpreti: Jennifer Rubin, Bruce Abbott, Richard Lynch, Dean Cameron, Harris Yulin, Susan Barnes, John Scott Clough, Elizabeth Daily, Damita Jo Freeman, Louis Giambalvo, Susan Ruttan, Sy Richardson, Missy Francis, Sheila Scott-Wilkenson, Ben Kronen

Durata: 80 min.

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Il voodoo dei morti viventi (I Eat Your Skin)

23 domenica Giu 2019

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, V, zombi

≈ 3 commenti

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Bela Lugosi, Bela Lugosi Meets a Brooklyn Gorilla, Betty Hyatt Linton, bugs bunny, Dan Stapleton, del tenney, Don Strawn, ed wood, george romero, George-Ann Williamson, Heather Hewitt, I Drink Your Blood, I Eat The Skin, il cacciatore di uomini, Il voodoo dei morti viventi, jesus franco, la rabbia dei morti viventi, mangiatori di pelle, Matt King, Rebecca Oliver, Robert Stanton, Vanoye Aikens, Walter Coy, William Joyce, william katt

Nel 1971, negli States, uscirono, nel circuito dei drive-in, il truce La rabbia dei morti viventi (I Drink Your Blood) e I Eat Your Skin. Era prassi per le pellicole più infime di usare la formula un biglietto/due spettacoli; così successe sia per i bevitori di sangue che per i mangiatori di pelle, lanciati dall’accattivante strillo sulla locandina, “Two Great Blood-Horrors to Rip Out Your Guts!”, quindi lo spettatore era avvertito, si trattava un doppio show che prometteva di strappare le budella allo spettatore.

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Nessuno arrapato teenager da drive-in venne ovviamente eviscerato, ma la cosa più buffa era che, se La rabbia dei morti viventi soddisfaceva la voglia di zombi e budello, così non faceva I Eat Your Skin, una pellicola spensierata in bianco e nero, poco violenta e senza neppure la sequenza tanto attesa dal pubblico: il pasto orribile a base di pelle umana.

C’erano voluti ben 7 anni prima che questo film potesse trovare la via della sala cinematografica, snobbato un po’ da tutti, non troppo estremo per essere venduto, e troppo sciocco per diventare un cult tra il pubblico. In più non lo aiutava il bianco e nero, una follia nel 1971.

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lntervistato dal critico cinematografico Bryan Senn, il regista Del Tenney ammise candidamente che I Eat Your Skin non era un buon film (” Non mi piaceva molto, ho sempre pensato che fosse una cazzata“). Non fu comunque un horror facile da girare: i problemi incominciarono quando la  Twentieth Century-Fox, interessata a distribuire l’opera, impose categoricamente alla produzione di assoldare persone iscritte al sindacato, pena l’abbandono del film. Del Tenney, infiammato dal sacro fuoco dell’arte pura, non accettò e il film andò incontro, da vero kamikazen, al suo olocausto personale (“Tutta quella gente era lenta e poco collaborativa perciò mi sono impuntato“). Si sforarono le due settimane di rito per le riprese a causa di un terribile uragano, un presagio da vero film maledetto. A questo si aggiunsero altri problemini, malattie contratte e vari serpenti che avvelenarono diversi membri del cast. Forse era un segnale dal cielo: Dio non amava i mangiatori di pelle.

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Quando le riprese terminarono, senza più nessuno interessato a distribuire I Eat Your Skin, Del Tenney aveva buttato via circa 120000 dollari. A nulla era servito ingannare alcuni investitori, poco propensi al cinema horror, vendendo il film come Caribbean adventures, quasi fosse un avventuroso esotico, e non col vero titolo di lavorazione, Voodoo Blood Bath. In qualsiasi caso la troupe non si spostò mai ai Caraibi ma girò il tutto a Miami Beach e Key Biscayne in Florida. Alla fine, quando visse la sua prima nei drive-in, Del Tenney lo vendette al distributore Jerry Gross ad appena 40000 dollari perdendoci moltissimo. Per tornare alla regia poi il nostro, da quel lontano 1964, dovette attendere quasi 40 anni quando nel 2003 firmò assieme allo sceneggiatore Kermit Christman il brutto Descendant con William Katt.

C’è da dire che il film, nel 1971, era non solo vecchio, ma praticamente un reperto storico: grazie, o in questo caso per colpa, di George Romero e del suo The night of living dead, la figura dello zombi era stata completamente ripensata. Il pubblico aveva dimenticato, o comunque non li ricercava in sala, i morti viventi classici, quelli della tradizione haitiana, schiavi lobotomizzati usati per lavorare senza sosta nei campi o diventare lo strumento di vendetta di uno stregone. A questi guardava I Eat Your Skin, ai cult anni 30/40 di Victor Halperin e Jacques Torneau, capolavori datati come Ho camminato con uno zombi e White Zombi. Il pubblico invece chiedeva ad alta voce cadaveri affamati di carne umana, film shockanti e color sangue anche nel bianco e nero più freddo di La notte dei morti viventi.

I Eat Your Skin partiva poi come il classico clone di James Bond con persino lo stesso albergo, il Fountainbleu Hotel di Miami di Agente 007: missione Goldfinger, per poi ovviamente trasformarsi in altro, un’avventura horror con voodoo e zombi.

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Il protagonista Tom Harris, interpretato da William Joyce al suo unico ruolo da protagonista in una carriera iniziata nel 1954, uno scrittore donnaiolo dalla camicia perennemente sbottonata (quando non è a petto nudo), incarna lo spirito di un’opera un po’ frivola, veloce, a suo modo divertente.

D’altronde, non dimentichiamo, che il nostro eroe dalla patta sbarazzina sull’isola voodoo non vuole andarci. Come dargli torto? Storie sanguinarie, morti viventi, pericoli, poi il suo agente letterario gli confida “Un tornado ha ucciso quasi tutti gli uomini. Le donne sono tantissime e aspettano solo te”. Il nostro alla parola donne è già con la valigia in mano. “Si parte allora?”. Diavolo di un Tom Harris!

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C’è da dire che il film ha un paio di sequenze di un certo pregio, non ultima la scena di apertura con un’ipnotica danza tribale e una mora ballerina, in azzardata lingerie, pronta ad essere sacrificata insieme ad una capra.

Certo I Eat the Skin ha un certo nonsense di fondo che lo rende oltre il cretinismo, ma non sfocia mai fortunatamente nel demenziale sciocco e molesto come per esempio capitava in un altra pellicola non dissimile, Bela Lugosi Meets a Brooklyn Gorilla, con però uno scimmione canterino al posto degli zombi.

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Cobra atomici

Il territorio è quello dei classici low budget del terrore: un luogo esotico, un dottore artefice di terribili esperimenti, una bella in pericolo e l’eroe pronto a salvare la situazione. Potremmo imbatterci, nella peggiore dell’ipotesi in Bride of the Monster di Ed Wood, un B movie, anzi uno Z movie inconsapevolmente sublime, ma per fortuna siamo davanti ad un’opera modesta ma divertente, non un cult movie certo ma che merita un’occhiata.

Il punto forte poi sono gli zombi: armati di machete, implacabili, altissimi colossi di colore, anticipano, ben 26 anni prima, nel make up, il delirante Il cacciatore di  uomini di  Jesús Franco del 1980. Del Tenney azzarda persino una scena di decapitazione senza stacchi, nulla di che secondo gli standard moderni ma si apprezza, per l’epoca, lo sforzo di osare in campo shock.

Il trucco dei non morti è semplicissimo: farina d’avena spalmata e due uova al posto degli occhi. Molti hanno storto il naso, ma quando I Eat The Skin ci mostra una trasformazione live di un povero sventurato, creata ovviamente con modeste dissolvenze, l’effetto non è dei più disprezzabili, anzi.

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Jess Franco e gli zombi di I Eat The Skin

A creare questi cadaveri viventi, come prassi vuole, è un dottore, Robert Stanton al suo unico ruolo, che, nel tentativo di curare il cancro grazie a degli esperimenti su dei cobra atomici, ottiene come effetto secondario la creazione degli zombi. Se pensiate che sia abbastanza cretina l’idea dei serpentoni radiottivi, in perfetto clima di paranoia americana da atomica, dovete sapere che sulla Voodoo island si balla, ci si diverte, si tromba, a patto che non ci siano bionde sennò voodoo, macheti assassini e sacrifici umani. Indovinate di che colore ha i capelli la figlia del dottore interpreta da Heather Hewitt?

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Miss Vermont 1957

Il vero cattivo del film però è un aristocratico che, come tutti i B movie un po’ cretini, vuole conquistare il mondo grazie agli zombi del Dottor Biladeau, un piano che prevede la marcia dei non morti con casse di esplosivo in mano verso non si sa dove, Washington, la casa bianca, boh. Non chiedetelo al malvagio Duncan Fairchild, interpretato da Dan Stapleton nelle duplici vesti di produttore e attore per la prima e unica volta nella vita, perché sicuro vi risponderà con una risata malvagia. Questi cattivi sono così geniali e criptici nelle loro bieche intenzioni.

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L’idea della cassa di esplosivo è la scusa per forse l’unica scena davvero memorabile della pellicola, quella che potrebbe far smascellare lo spettatore sonnacchioso: con un baule in mano con scritto a lettere cubitali, come nei cartoni Warner di Bugs Bunny, Explosive, uno zombi marcia alla cieca sulla spiaggia, trova davanti  a lui un elicottero, ma sapendo andare solo in linea retta, come un brutto gioco per cellulare, viene fatto a pezzi. Vi immaginate questo piano così perfetto ed elaborato nella testa del cattivissimo Duncan Fairchild che viene sputtanato da un gruppo di zombi un po’ pasticcioni che deflagrano davanti a qualsiasi ostacolo sulla loro strada? La via per Washington è lunga, my friend, e io la vedo dura.

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Gli attori sono quello che sono, ma spicca per bellezza Heather Hewitt, Miss Vermont 1957 ad un passo da essere Miss America. Dopo questo film passeranno ben 15 anni prima che la ragazza ormai donna torni a calcare le scene, stavolta del piccolo schermo, con il primo episodio di Un uomo chiamato Sloane, spy story di scarso successo dalla vita breve.

I Eat Your Skin non è certo una visione imprescindibile, ma è un film che sa intrattenere e non annoiare.

Da noi è arrivato grazie alla Freak video col titolo Il voodoo dei morti viventi in un’edizione ottima, sottotitoli e video sfavillante, forse un po’ troppo per un film scacciapensieri, ma, che diavolo, non di solo buon cinema può vivere il cinefilo!

Andrea Lanza

Il voodoo dei morti viventi (I Eat The Skin)

Titolo originale: Zombie Aka “Zombies”, “Zombie Bloodbath”, “Caribbean Adventure”, “Voodoo Blood Bath”

Anno: 1964 (uscito però nel 1971)

Regia: Del Tenney

Interpreti: William Joyce, Heather Hewitt, Walter Coy, Dan Stapleton, Betty Hyatt Linton, Robert Stanton, Vanoye Aikens, Rebecca Oliver, Matt King, George-Ann Williamson, Don Strawn 

Durata: 92 min. 

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Una vita spericolata

18 giovedì Ott 2018

Posted by andreaklanza in action comedy, commedia, V

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Antonio Gerardi, Eugenio Franceschini, Lorenzo Richelmy, marco ponti, Massimiliano Gallo, Matilda De Angelis, tette da oscar, una vita spericolata

Roberto è un meccanico trentenne sull’orlo del fallimento che si reca in banca per ottenere un prestito per salvare la sua attività. Ma quello che doveva essere un semplice prestito si trasforma grottescamente in una rapina con tanto di ostaggio. Quando si scopre che i soldi portati via non sono della banca ma di un gruppo di malviventi, Rossi, assieme al suo migliore amico BB, ex pilota di rally, e l’ostaggio Soledad, famoso idolo per adolescenti, si danno alla fuga attraversando tutta l’Italia. La rocambolesca fuga dei tre ragazzi, tra inseguimenti e sparatorie, attirerà l’attenzione dell’opinione pubblica che li farà diventare dei piccoli eroi moderni.

Maurizio Ponti per noi della Generazione X, ovvero quelli che adesso hanno dai 40 ai 50 anni, è stato un vero mito: il suo Santa Maradona era la risposta, fresca, spiritosa, travolgente, al successo di Clerks – Commessi di Kevin Smith, uno di quei miracoli che non ti aspetti, ma accade, anche in Italia.

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Un altro mondo, il 2002

Per chi non lo vide al cinema, come il sottoscritto, fu una sorpresa incredibile recuperarlo poi in videocassetta: battute scatenate, due attori affiatatissimi, Accorsi e De Rienzo, ma soprattutto, nei tuoi vent’anni che lentamente andavano ai trenta, con l’università e gli esami perenni, le ragazze che non ti filavano come avresti voluto, i soldi sempre pochi, era impossibile non immedesimarsi totalmente nei protagonisti. Non male per quello che sembrava un sotto Muccino e che invece era l’equivalente, per te, di un John Woo in un cinema americano tutto perfettino, pulito ed esangue.

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Naturalmente come molte promesse non mantenute, la carriera di Ponti non bissò il successo di quel primo film: a partire dall’indigesto A/R Andata + Ritorno del 2004 con il solo, bravo Libero De Rienzo a sostenere il peso di un film intero, lui più adatto ad essere una spalla. Il resto, in due decenni, è tra il dimenticabile e l’anonimo, quasi una condanna divina per chi era sembrato una sorta di Messia nello sterile panorama italico dell’epoca.

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Se non si è Oliver Stone si punta all’imitazione scema, Love and 45

Ora, a distanza di quasi vent’anni da quell’esordio che fece guadagnare al suo autore un David di Donatello per il miglior regista esordiente 2002,  Ponti ci riprova: resetta tutto e, come allora, scrive, sceneggia, firma il soggetto di una nuova commedia schizzata, Una vita spericolata, figlia, a partire dal titolo, di True Romance (Una vita al massimo) di Tony Scott.

Ovviamente è un disastro totale.

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Quanti danni, Quentin!

Negli anni la regia di Ponti è diventata davvero anonima: cerca di guardare stavolta non al Danny Boyle di Trainspotting, come in Santa Maradona, ma a Le belve, figlio degenere di un Oliver Stone che non esiste più, quello inventivo e schizofrenico di U-Turn. A livello visivo Una vita spericolata è risaputo, vecchio, si è visto di meglio, in un cinema ormai, nell’era Netflix, che non può essere più televisivo senza essere anche cinematografico. Ecco il film di Ponti è per assurdo quasi suicida nel suo voler essere Natural Born Killer quando invece non raggiunge neppure l’estetica derivata di un Love & una 45. Per dirla in parole povere: è televisivo nell’asserzione più deprimente, quella di un prodotto anni 90 da Canale 5, tutto preciso, perfetto secondo il manuale delle giovani Marmotte del cinema, ma così privo di anima, al pari di un Lamberto Bava che da Demoni è finito per filmare le poppe della Falchi a bordo di un galeone pirata.

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La cosa più micidiale però non è tanto la regia ma la storia che non  funziona mai, che presenta personaggi stupidi, che piuttosto che scegliere la verosimiglianza si butta in situazioni assurde, nonsense, impossibili anche se fossimo dentro Tiramolla special. Così abbiamo poliziotti che non rispondono mai al fuoco dei rapinatori, inseguimenti, un po’ alla Cinque matti contro Dracula, senza sirene ululanti, senza spari alle gomme, la variante di una gita tra guardie e ladri in un utopico mondo di Teletubbies, ma sopratutto tre personaggi che non crescono mai realmente e fanno cose solo perché lo dice il copione demente.

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Matilda e le tette da Oscar in Youtopia

Se tutto questo fosse accompagnato da una storia potente e da attori per lo meno decenti, forse sorvoleremmo, ma i due protagonisti maschili, Lorenzo Richelmy e Eugenio Franceschini, anche se possono vantare, nel loro curriculum vitae, interpretazioni in produzioni internazionali del calibro di Marco Polo e I medici, sono cagnacci come pochi, belli, vuoti e privi di talento come un Big Jim Mattel.

Diverso discorso per la giovane Matilda De Angelis, generosa in una scena di sesso dove mostra delle inaspettate tette da oscar delle seghe, che urla e biascica sì come ogni giovane attore che non sa recitare ancora perfettamente, ma ha carisma, grinta e un physique du rôle che la poterà in altri lidi migliori. D’altronde soltanto aver dato il due di picche al borioso youtuber Yotobi le rende un onore da parata spartana dopo una battaglia di saccheggi e razzie.

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Due di picche, Karim, non ci sono cazzi.

Un disastro come detto, ma un disastro che, man mano che il film prosegue, alla fine ti diverte. Certo quello di Ponti è un veicolo scassato, arrugginito e che puzza da paura, ma che riesce ad assestare inaspettatamente almeno una sequenza azzeccata come quella della sparatoria western all’interno del bar, che mischia in un sol botto Sergio Leone, Antoine Fuqua e Red dead redemption.

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Così come meritevole di lode è l’interpretazione di Massimiliano Gallo, nei panni di uno schizofrenico commissario di polizia, che non può non ricordare, deliziosamente, quella analoga di Tchéky Karyo nell’immenso Dobermann del compianto Jan Kounen.

Poca roba direte voi e non possiamo darvi torto, ma questo non esclude che il film sia veloce, mai noioso e che, quando ci si mette, ti fa ridere, talmente, in quelle sequenze, da non rimpiangere Santa Maradona.

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Si dice d’altronde che i tempi cambiano, ma che tristezza quando ipotizzi un film che non esiste, con magari Stefano Accorsi e Libero De Rienzo (inutile il suo cameo qui),  cresciuti e allo sbando in un mondo che, ora come nel 2002, non sentono più loro. Di quell’idea, magari neanche mai accarezzata da Ponti, qui restano le briciole in un film che magari la seconda volta crescerà, ma che alla prima visione sembra un camposanto di idee e intenzioni.

Andrea Lanza

Una vita spericolata

Regia: Marco Ponti

Interpreti: Lorenzo Richelmy, Matilda De Angelis, Eugenio Franceschini, Antonio Gerardi, Massimiliano Gallo

Italia, 2018, durata 102 minuti

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I vendicatori della notte

21 mercoledì Mar 2018

Posted by andreaklanza in action, azione, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, V

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Anne Lockhart, April Dawn, Britt Helfer, Dick Shawn, Don Hepner, Ed De Stefane, ernest borgnine, James Van Patten, John Alden, Lawrence David Foldes, linnea quigley, Lynda Day George, Mike Norris, Nels Van Patten, Richard Roundtree, The Graduates of Malibu High, Tom Reilly, vendicatori della notte, young warriors

Kevin, Scott, Stan, Fred sono quattro amici, che hanno fatto insieme il liceo e, sempre insieme, vivono la vita goliardica, spensierata e lontana da ogni problema che non sia di divertimento. Finché un giorno la sorella minore di Kevin, Tiffany, resta vittima insieme con il suo accompagnatore di una banda di teppisti; il giovane muore, Tiffany viene brutalmente seviziata e violentata, per morire anche lei dopo un breve quanto inutile ricovero in ospedale, Kevin sembra impazzire, tanto più perché non riesce a giustificare l’atteggiamento di suo padre, poliziotto, che sembra starsene con le mani in mano. Con i suoi tre amici, ai quali si aggiunge George, comincia una serie di indagini private, durante le quali riesce a sapere quale sia la “banda” responsabile del massacro. Di fronte a quella che lui giudica inerzia da parte della polizia, Kevin convince gli amici che è necessario fare giustizia da soli: così i cinque ragazzi cominciano a battere di notte le strade della cittadina, alla ricerca dei teppisti.

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Lawrence David Foldes è stato un carneade del cinema di genere americano. I suoi lavori passano con disinvoltura dall’horror (La collina dei morti viventi) all’action (Tuono rosso e Nightforce) fino a toccare la commedia sentimentale e il dramma (Non dite a mamma che lo sposo e Finding Home), quasi sempre con risultati tra il mediocre e il pessimo. Dal 2003 fortunatamente si ritira dalle scene: un sospiro di sollievo per tutti gli amanti del cinema.

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I vendicatori della notte è sicuramente la sua opera migliore, non esente però da tutta quella superficialità registica e dalla  pochezza narrativa che i lavori di Foldes posseggono come firma d’autore.

Si parte bene, non benissimo, ma i toni cupi ci sono: una ragazza viene brutalmente violentata da un branco di assassini stupratori (il suo ragazzo, o quasi, è stato bruciato vivo dagli stessi) mentre il capobranco ordina serioso “Riempitela di carne”. Trucidissimo e abbastanza efficace con dei cattivi che sono figure archetipiche, avanzi di galera senza sfumature, che fanno male solo perché sono malvagi. Peccato però: se I vendicatori della notte fosse stato diretto da un Winner o da un Lusting sarebbe scattato l’applauso a scena aperta, ma la regia di Foldes è terribilmente distratta. In più lo stupro della ragazza, anche per colpa della pessima performance dell’attrice, è senza quei picchi drammatici che ci aspetteremmo.

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L’eroe

Ma vi ricordate la violenza ai danni di Linnea Quigley nel magnifico Savage streets? O ancora quando la figlia autistica di Charlie Bronson viene abusata nell’immenso Death wish II? Lì ti faceva incazzare, magari distoglievi lo sguardo e quindi, quando avveniva la giusta vendetta, eri dalla parte del protagonista o della Linda Blair dagli occhi di brace.

In più I violentatori della notte, in originale Young warriors o The Graduates of Malibu High, è una tra le più sconosciute produzioni Canon, la casa che noi, amanti del B movie action, amiamo come il Vangelo per un chierichetto. D’altronde come si può voler male a chi ha infiammato i nostri animi adolescenziali con strafigate uniche al pari di Rombo di tuono, I cacciatori della notte, Cobra o American ninja?

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chi si mette degli occhiali da sole
per avere più carisma e sintomatico mistero

Qui si tenta il matrimonio impossibile tra la commedia goliardica maliziosa alla Porky’s con il filone de Il giustiziere della notte: una follia suicida sulla carta. Appunto.

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Quello che non convince assolutamente nella sceneggiatura di Lawrence David Foldes e Russell W. Colgin è il concentrarsi solo sul protagonista, i suoi drammi interiori e la rabbia repressa, rendendo tutto il resto, dagli amici, alla ragazza, ai professori, agli stessi villain, solo meri comprimari a fare da corollario alla vicenda, carne da macellare, da sacrificare o da dimenticare. Il problema è che la psicologia del nostro Kevin Carrigan, interpretato dal terribile James Van Patten, è trattata con troppa superficialità: sbraita, si incazza, picchia i piedi per terra manco fosse un bambino di tre anni al quale hanno negato le caramelle. I professori lo chiamano “psicopatico”, i compagni di università lo trattano come un picchiatello quando presenta i suoi atroci lavori di velleità artistica, cartoni animati psichedelici, la sua ragazza, fighissima, vorrebbe farselo ma lui no, lui si fa le prostitute chiamandole però come la fidanzata: i segnali che non sia giusto “di capa” ci sono tutti, quindi che ci sorprendiamo a fare quando prende in mano un uzi e, con la scusa della giustizia, massacra due ragazzine che stavano svaligiando, con pistole giocattolo, un drugstore?

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I vendicatori della notte inizia anche bene, la parte da college movie è spigliata, quella di vendetta carina, ma poi, ad un certo punto, Foldes, mannaggia a lui, si mette a fare la morale, come un vecchio rompicoglioni, perché non ci sta a girare il solito action fascista e quindi giù di frasi come “La violenza genera altra violenza” quasi fossimo in Roma violenta di Martinelli. Ecco che Lawrence nostro deve farci vedere che le azioni di questi giovani giustizieri non sono fighe, ragazzi non emulatele, perché questi bamboccioni uccidono innoncenti, le vittime non li ringraziano nemmeno, vestono come un coglione un povero cane per poi farlo trucidare, altro che mascotte, e alla fine o finiscono uccisi male rimpiangendo i giorni del liceo o si fanno saltare in aria. Foldes non è un festaiolo, lui è il rompicazzo che, quando tutti fanno baldoria e forse si scopa, dice “Intanto i bambini del Biafra muoiono di fame“, checcazzo, Lawrence, mi sa che torno a casa.

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I bambini del Biafra perdioooooooooooooooooo

I vendicatori della notte è un film detestabile, pedante, poco divertente e con il peggior cast di attori che un B movie d’azione potrebbe avere: interpreti poco carismatici, cagneschi, che quasi quasi parteggi quando muoiono sputando sangue. Oltretutto la maggior parte di loro sono parenti, figli, fratelli di qualcuno di più famoso: da Mike Norris a James Van Patten, una ciurma di perdigiorno infilati a forza con raccomandazioni in un film.

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Lo faremo quel viaggio, amico?

Per fortuna però fanno capolino l’immenso Ernest Borgnine che, sarà anche a fine carriera, ma fa la figura del leone, e il sempre mitico Richard Roundtree, lo Shaft del nostro cuore, l’unico tra l’altro che continua a ripetere che il picchiatello giustiziere sarebbe un buon poliziotto mentre tutta la gente lo guarda atterrita “Ma che cazzo dici?”.

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Sul piano voyeristico poco o nulla, ma almeno abbiamo una bellissima Anne Lockhart che si che spoglia mostrando un sedere da urlo e due tette da Osanna nell’alto dei cieli. Fa capolino anche una sobrissima Linnea Quigley  in un ruolo di poco conto e per di più senza mostrarsi né nuda né urlante, quindi uno spreco, la cifra stilistica di questo action.

Che dire di un film d’azione che conta oltretutto un inseguimento insulso e alcune tra le peggiori sparatorie del cinema di serie B americano? Nulla se non ringraziare che in dvd non sia mai uscito e presto le vhs ammuffiranno.

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Buuuuucio de culo!

In America, ricorda il New York Times, sembra essere comunque piaciuto alla sua uscita, nel Novembre del 1983:

“Il pubblico al teatro Rivoli ha salutato questa pellicola con grandi applausi“.

Stendiamo un velo sulla pretestuosa dedica iniziale a King Vidor.

Andrea Lanza

I vendicatori della notte

Titolo originale: Young Warriors

Anno: 1983

Regia: Lawrence David Foldes

Interpreti: Ernest Borgnine, Richard Roundtree, Lynda Day George, James Van Patten, Anne Lockhart, Tom Reilly, Ed De Stefane, Mike Norris, Dick Shawn, Linnea Quigley, John Alden, Britt Helfer, Don Hepner, April Dawn, Nels Van Patten 

Conosciuto anche come The Graduates of Malibu High

VHS: MULTIVISION

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I vizi morbosi di una giovane infermiera

19 lunedì Mar 2018

Posted by andreaklanza in capolavori, fantascienza, Recensioni di Andrea Lanza, thriller, V

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arancia meccanica, christopher mitchum, clockwork terror, eloy de la iglesia, futuro distopico, i vizi proibiti di una giovane infermiera, jean sorel, kubrick, sue lyon, una gota de sangre para morir amando

La dilagante criminalità urbana ha trasformato una grande metropoli nel regno del sospetto, della paura e del terrore. Bande di malviventi motorizzati, riconoscibili dalle sinistre tute nere e dai caschi rossi che indossano, spadroneggiano per le strade ed aggrediscono pacifiche famiglie borghesi penetrando nelle abitazioni e abbandonandosi ad ogni sorta di violenza. Nel laboratorio di un ospedale, il dottor Victor Sender (Jean Sorel) crede di aver trovato la soluzione del problema avviando la sperimentazione di un programma di riabilitazione su alcuni teppisti catturati dalla polizia, basandosi sull’impiego di elettroshock e tecniche di inibizione psichica. Ma agli ormai quotidiani delitti se ne aggiungono improvvisamente altri, dovuti alla mano di un fantomatico killer armato di bisturi, che disorientano ulteriormente le forze dell’ordine e finiscono per insanguinare le stesse corsie dell’ospedale. Come riuscirà a scoprire David (Chris Mitchum), un giovane criminale in rotta con la sua banda, responsabile degli assassinii è l’insospettabile Ana Vernia (Sue Lyon), una infermiera dal viso angelico traumatizzata fin dall’infanzia da una infelice esperienza, che adesca giovani emarginati – omosessuali e piccoli ladruncoli – nelle zone malfamate della periferia per dar loro morte pietosa prima di vederli cadere nelle mani del dottor Sender.

Il titolo italiano, I vizi morbosi di una giovane infermiera, qualcosa che ti fa pensare più al porno che al thriller distopico, è una vera lanterna per lucciole: c’è un’infermiera ma i suoi vizi, alla fine, non sono poi tanto morbosi. D’altronde ai titolisti doveva piacere infilarci dentro la parola vizio ai film che venivano distribuiti, forse perché faceva tanto  pellicola a luci rossa e quindi sicuramente più abbordabile di un qualsiasi giallo o horror. Così, per veri misteri della fede, Daddy Darling di Joseph W. S. Sarno era diventato magicamente I vizi proibiti delle giovani svedesi perché non dimentichiamolo, nell’immaginario, le svedesi erano birichine anche quando erano sataniste come dimostra Virgin Witch di Ray Austin tradotto in Messe nere per le vergini svedesi. Senza dimenticare, per onor di cronaca, I vizi di una vergine del 1972 di Klaus Überall (titolo originale: Schmetterlinge weinen nicht ovvero Le farfalle non piangono) o Hausfrauen Report international del 1973 di Ernst Hofbauer, Report internazionale sulle casalinghe, trasmutato in  Vizi e peccati delle donne nel mondo. Quindi non importava molto di cosa parlasse il film, molte volte, l’elemento essenziale era il cotè morboso, sempre e comunque, perché si sa che un libro vende già dalla copertina.

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Da noi il film di Eloy De La Iglesia uscì anche con il titolo più sobrio e attinente di Blu notte: appuntamento shock, ma non che all’estero ci andarono molto meno pesante con la fantasia. In Belgio fu distribuito come La clinique des horreurs, La clinica degli orrori, in Francia come Le bal du vaudou, Il ballo del voodoo, in Russia Убийство в голубом мире, Omicidio nel mondo blu, titolo tutto sommato attinente, così come quello tedesco Einbahnstraße in den Tod, Strada a senso unico fino alla morte, e quelli americani, To Love, Perhaps to Die, Amare, forse morire, e soprattutto Clockwork terror come verso al modello Arancia meccanica presente fortemente nell’opera. Inutile dire che di voodoo o di cliniche sanguinarie, nel film, non c’è neanche l’ombra.

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Meglio su tutti il titolo originale, romantico e un po’ triste come d’altronde la pellicola era, Una gota de sangre para morir amando, Una goccia di sangue per morire amando.

Mondo blu invece deriva da una pubblicità fittizia di un liquore, presente all’inizio del film, che compie un parallelismo tra il colore di un cordiale e la purezza di un mondo incontaminato, appunto un mondo blu.

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Siamo comunque davanti ad un’opera che presenta un futuro alternativo, non troppo diverso dal nostro, dominato però dalla tecnologia, da una pubblicità grottesca e perenne e da una violenza incontrollata. Qui si inserisce senza dubbio l’influenza kubrickiana che viene contaminata, non senza abilità, con un intreccio thriller atipico, tanto da palesare l’assassino nei primi minuti, una giovane infermiera omicida.

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In Spagna Arancia meccanica, del 1971, uscì solo nel 1975 per via della forte censura franchista. Si può dire che questo film di Eloy De La Iglesia ne è senza dubbio la risposta, almeno nelle intenzioni politiche, ma, come detto, riesce a prendere subito una sua dimensione originale.

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Le scorribande dei giovani drughi spagnoli si limitano ad un episodio di violenza ai danni di una famiglia che guarda in tv Clockwork Orange di Kubrick con il corollario dovuto di violenza, umiliazioni e stupri ai danni dei genitori davanti gli occhi attoniti di un bambino. Anche il metodo di rieducazione del Dottor Sender ha lo stesso modus operante di quello imposto dal governo al giovane Alex/Malcolm McDowell.

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L’altra chiara citazione a Kubrick, ma stavolta al suo Lolita, è la scelta della medesima protagonista, la bellissima Sue Lyon, qui nei panni dell’infermiera killer. In una sequenza la vediamo leggere persino il libro omonimo di Vladimir Vladimirovič Nabokov.

Non si pensi però che l’opera di De La Iglesia sia un banale plagio anche perché porta avanti un personale discorso sulla solitudine che non era presente nell’opera kubrickiana e, se è possibile, riesce a spingersi, ancora di più del modello, in un finale plumbeo, disperato e senza speranza.

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La regia è elegante, i movimenti di macchina sono perfetti e la fotografia di Francisco Fraile è fantastica nel suo innaturale cromatismo. Anche gli interpreti, a parte uno svogliato Jean Sorel, sono tutti in parte con, soprattutto, una Sue Lyon bella e brava come mai lo sarà mai più, in un ruolo che gioca hitchcockianamente anche sul suo trasformismo di predatrice sessuale.

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Siamo in un cinema fantastico elegantissimo, studiato al minimo dettaglio nei particolari, un cinema così avanguardista da risultare per l’epoca forse eccessivo e indigesto, ma che oggi andrebbe studiato e divulgato non soltanto in qualche proiezione corsara da tv privata.

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Eloy De La Inglesia si era fatto conoscere con L’appartamento del 13° piano dell’anno precedente, anomalo thriller su un assassino per caso, violento e disperato, e continuerà la sua carriera tra film il più delle volte ottimi, sempre e comunque particolari, fino alla sua morte nel 2006. Era sicuramente un personaggio scomodo per il regime di Franco: comunista, omosessuale dichiarato, sempre polemico verso il fascismo e le istituzioni.

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Di questo  Una gota de sangre para morir amando resta vivido nella memoria soprattutto il delicatissimo ritratto di un’assassina che uccide per scelta solo persone disperate e sole. Quando la vediamo aggirarsi per la casa e poi nel parco della sua villa, quasi una figura spettrale, vestaglia di seta bianca macchiata di rosso, capiamo che siamo davanti ad un film che è exploitation solo per il titolo italiano. Ancor di più quando, nello struggente scena finale, luce rossa violentissima che si contrappone con il bianco dell’ospedale, la ragazza uccide questa volta, la prima volta, per amore. Le sue ultime parole sono: “Mi sono suicidata come mio padre, per quelli come noi non c’è salvezza”, almeno nella versione italiana, e ora, grazie al preziosissimo sito di Capitan Trash, al quale vi rimandiamo, vi spieghiamo perché.

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Le nostre due vhs GVR e AVO tagliano intere scene e modificano persino i dialoghi: per esempio, nel finale, la dichiarazione della killer al ragazzo in ospedale è, nella versione nostrana, “”Senti devo dirti una cosa: quando ti ho visto l’ultima volta in chiesa ho avuto la sensazione che tu avresti potuto essere il mio uomo, ma ormai e’ troppo tardi, tu non sarai più’ un uomo” mentre in originale era “”Non chiudere gli occhi ” seguita da una lirica di Edgar Allan Poe “Come stelle differenti, stelle molto cattive e stelle quiete…”. Così come l’ultima frase è più secca “Non vedi? Ho ucciso solo un uomo” con questo ribadendo il concetto di omicidio come moto rivoluzionario. Non per nulla Sue Lyon dice al giovane Christopher Mitchum ferito “Non permetterò che facciano esperimenti su di te, ti annienterebbero, cancellerebbero te e la tua personalità da ribelle”. Anche il violentissimo epilogo a base di coltellate e sgozzamenti è mancante nelle nostre versioni, peccato perché si tratta di una scena potentissima che ribadisce l’insuccesso di un mondo solo in pubblicità perfetto.

Andrea Lanza

I vizi morbosi di una giovane infermiera

Titolo originale: Una Gota de sangre para morir amando

Anno: 1973

Regia: Eloy de la Iglesia

Interpreti: Sue Lyon, Christopher Mitchum, Jean Sorel, Ramón Pons, Charly Bravo, Alfredo Alba, David Carpenter, Antonio del Real

Durata: 100 min.

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VIZI

 

… E anche questo Natale… se lo semo levato dalle palle!

07 domenica Gen 2018

Posted by andreaklanza in comico, commedia, I grandi saggi di Malastrana vhs, Recensioni di Andrea Lanza, V

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alberto sordi, andrea roncato, Anna Falchi, antonella interlenghi, carlo vanzina, connie nielsen, cristiana capotondi, de sica, diego abatantuono, enrico oldoini, ezio greggio, guido nicheli, jerry calà, luke perry, mario brega, massimo boldi, nadia rinaldi, neri parenti, nino frassica, stefania sandrelli, vacanze di natale

Il Natale è una festività che, se non sei rimasto orfano per la tragica natura del fato, te lo devi per forza subire con il corollario di parenti serpenti, cibo in quantità industriale, alla faccia dei bambini del Biafra, e l’orologio che scandisce un tempo che sembra infinito perché prima o poi la nonna non ci sarà più e tu, si proprio tu, prenderai il suo sonnacchioso posto nel divano del sonno, l’anticamera della morte, my only friend.

Cosa c’è quindi di più bello che festeggiare, in ritardo come troll ruba panettoni, uno dei generi che, in un certo momento un po’ noioso della nostra vita, abbiamo disprezzato, ma che sotto sotto ci facevano ridere per Iside e fammi una pompa, non ci do’ la mano ai froci, Africa esaltami col gas!, ovvero sua maestà il film di Natale nella sua epoca d’oro!

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Come direbbe il caro, vecchio Christian De Sica, con la sua faccia da simpatico guascone, “Facciamo simpatici contro antipatici?“, solo che molte volte il confine tra simpatia e antipatia è molto labile, un po’ come Jimmy detto il marachella che, nel mio paese, ti tirava la sua cacca addosso e rideva, povero scemo, felice come un bimbo. Ecco in quel caso lui si divertiva, ma tu sporco di merda no. Il cinepanettone era in fondo la stessa cosa: alla fine uscivi dal cinema che la tua anima puzzava di cacca, ma non potevi dirlo perché avevi pagato per quella sostanza maleodorante addosso e ridevi, forte, fuori dal cinema, a casa, mentre ti trombavi tua moglie, e ancora nell’ambulanza della neuro perché Anna Falchi/Poppea ci ha le poppe a pera!

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Niente poppe a pera, ma sticazzi!

Tutto questo, lo sanno anche i sassi, nasce dall’intuizione di De Laurentis che, fulminato dal successone di Sapore di mare, capì che una versione clone sulla neve sarebbe stata vincente. Cosa che effettivamente fu.

C’è da dire che anche il confronto tra Sapore di mare e Vacanze di Natale, entrambi del 1983, è impari: si percepisce che il secondo è un film d’imitazione, più di pancia che di cuore, senza quella vena malinconica che contraddistingueva il fratello estivo. Vacanze di Natale è il clone coatto, burino, più propenso alla battutaccia, figlio di quel Drive in che proprio lo stesso anno debutterà in tv.

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Non che Vacanze di Natale sia un brutto film, anzi, solo che è un film discount, narrativamente stanco, girato persino sotto lo standard dei Vanzina, costruito da scene che nascono e muoiono senza amalgamarsi mai. Lo salvano e lo erigono a cult i grandi caratteristi come Mario Brega e Guido Nicheli, le interpretazioni brillanti di tutto il cast da Jerry Calà, a Stefania Sandrelli fino ad un ottimo De Sica, e le canzoni, tante, giovani, orecchiabili. Senza dimenticare che Vacanze di Natale è un piatto di trippa fumante, il corrispettivo della trattoria dove magni tanto e ne esci soddisfatto, quindi battute a mille, scene razzistissime e omofobe ma chi se ne frega, un divertimento popolare che non fa male e che sarà declinato nel suo seme in maniera indegna.

In più, come in Vacanze in America, migliore e più frizzante, c’è lei, Antonella Interlenghi, star di una stagione, che attraversò il cinema dai folli film messicani di Renè Cardona allo splatter di Fulci passando attraverso il cinema popolare, non senza aver fatto persino innamorare, oltre che noi, persino lo Yeti, nella versione folle e povera del King Kong di De Laurentis. Ecco lei, per noi di Malastrana, è quel capolavoro che ti spinge a vedere un brutto film più volte mentre il cuore ti batte come un ragazzino. Maledetto schermo che ferma il tempo e inganna le emozioni.

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Antonella Interlenghi e ti piace il calcio anche quando non te ne frega nulla!

Per avere un  altro Vacanze di Natale però bisogna aspettare gli anni 90 e intanto vedere come il genere delle commedie natalizie ha preso sempre più forma da quel lontano 1983.

In primis si solidificano le coppie comiche: Boldi e De Sica diventano i nostri Gianni e Pinotto, il duo comico che si è rafforzato in un genere pieno di attori comici che nascono e muoiono alla velocità della luce. Le commedie italiane popolari di De Laurentis e concorrenti, più nobili delle commediacce di Banfi e Vitali ma solo per la confezione di lusso, sono i vari Yuppies, Montecarlo gran casinò, Scuola di ladri, quasi sempre campioni d’incasso, il più delle volte girate dai Vanzina che però, proprio a metà degli anni 80, sentono il desiderio di cinema alto. Nascono così gli esperimenti di Sotto il vestito niente, di Via Montenapoleone, de Le finte bionde e il tardo Miliardi che si alternano alle loro “facili” commedie. E’ proprio in quel cinema, oltre il loro genere famoso, che i fratelli Vanzina si sbizzarriscono con uno stile registico più sofisticato e storie meno abborracciate che però, salvo rari casi, non porteranno a casa gli incassi stellari dei vari cinepanettoni. Si può dire, tra l’altro, che il cinema vanziniano è un cinema che, a metà anni 90, ha affossato ogni velleità nella parodia inconsapevole di se’ stesso, sia con i thriller (Squillo e Sotto il vestito niente – l’ultima sfilata), sia nelle commedie, tra le peggiori della loro filmografia. Cambiano i tempi e così anche la comicità, le tendenze, i tormentoni televisivi che portano a riempire le sale.

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Non proprio il miglior Vanzina

Comunque Boldi e De Sica hanno alchimia, si completano, sono frizzanti e, nella coppia comica, riescono meglio che nei loro exploit solitari (Mia moglie è una bestia, Il conte Max) o abbinati ad altri comici (Boldi e Beruschi di Montecarlo Gran Casinò, De Sica e Banfi di  Bellifreschi).

Nel 1990 esce Vacanze di Natale 90, a distanza di 7 anni dal precedente film di Vanzina. A girarlo è Enrico Oldoini che già si era fatto un nome con il brillante Lui è peggio di me, il malinconico Una botta di vita e con il seguito di Yuppies. Bisogna dire che questa pellicola è probabilmente l’ultima decente girata da questo regista che, già l’anno dopo, sfornerà un terribile Vacanze di Natale 91, il tentativo, già fallimentare sulla carta, di unire la commedia scoreggiona delle feste con quella più sofisticata degli anni 50/60.

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Vacanze di Natale 90 è scoppiettante, molto divertente e con la totalità delle storie, chi più chi meno, che funziona. La formula è la stessa, cambia solo lo scenario rispetto al predecessore: non più Cortina D’Ampezzo ma St. Moritz. Via anche la patina sociale del film di Vanzina, e più spazio ai tormentoni da cabaret di matrice tv.

A fare la parte del leone è Diego Abatantuono che ripropone il personaggio del “terruncello” con l’intuizione geniale però di relegare le battute nella sua mente: infatti, dopo un urlo esagerato, il protagonista diventa afono. Consegue che le migliori gang vengono proprio dal suo presentarsi come una persona sofistica mentre noi ascoltiamo i suoi pensieri sgrammaticati e selvaggi. Ad accompagnare il nostro Abantantuono nell’episodio più riuscito ci sono la bellissima modella francese Colette Poupon che al cinema fece un altro exploit e poi nulla, e la sua spalla di sempre, Ugo Conti. Un segmento davvero potente che ci fa ritrovare un vecchio amico, un Diego Abantantuono comico in forma smagliante, per nulla snob anche dopo aver dimostrato la sua bravura attoriale recitando  per Comencini, Salvatores e Pupi Avati.

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Vacanze di Natale 90 è anche il film che ci regala una convincente prova di Ezio Greggio, sempre relegato nei territori di una macchietta è vero, ma con un personaggio interessante, quello dell’appassionato di cani che preferisce l’amicizia all’amore. Anche in questo caso ci sono battute riuscite, grazie soprattutto al supporto di una spalla efficace come il simpatico Isaac George, il nostro “negro” preferito delle commedie. Di poca importanza, se non scenica, la presenza di Maria Grazia Cucinotta, doppiata tra l’altro da Simona Izzo, una tra le nostri voci più belle con la sorella Giuppi.

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Anche l’episodio con De Sica e Boldi, alle prese con due mogli terribili, la sadica Moira Orfei per il primo e un’infedele moglie per il secondo, è divertente, pur se Boldi ha più battute divertenti del collega (“Bella fighetta dei grigioni” prima di baciare una vecchietta che lo scopre nudo sul balcone). Stendiamo un pietoso velo sull’intrigo hitchcockiano che vuole citare Delitto per delitto, velleitario e fallimentare, ma il segmento, come detto, divertente, volgarissimo e scatenato nel triviale, come ogni buona commediaccia dovrebbe essere, si fa perdonare tutto.

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Si può segnalare la presenza della bellissima Giovanna Pini, pedagogista, scrittrice italiana, presidente del Centro Nazionale Contro il Bullismo – Bulli Stop, e all’epoca attrice/caratterista fiorentina tra Enrico Oldoini e Lamberto Bava. La si ricorda per la sua spigliatezza e simpatia nel recitare la parte della sfortunata amante di De Sica.

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Meno riuscito l’episodio con Andrea Roncato, uno che ha dato il meglio soprattutto con le commedie sgarruppate di Sergio Martino in coppia con Gigi Sammarchi, ma comunque non disprezzabile nel suo retrogusto agrodolce. Ci sono poi quelle due fighe svestite che taaaaac alzano il livello dell’attenzione da La notte dei morti viventi a Il Grande caldo. Cosa non disprezzabile nel genere.

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Peggio, anzi a livello siderale, si va con Vacanze di Natale 91 dove niente o quasi sembra funzionare. Sempre Oldoini alla regia, un cast che, a parte Abantantuono, è rinnovato con la sciagurataggine però di assoldare due new entry assolutamente incompatibili col genere, Ornella Muti e Alberto Sordi, nell’idea delaurentiana di remakizzare forse il “suo” Vacanze a Cortina del 1959. Ne consegue un attore in gamba come Sordi che sembra solo un vecchio rincoglionito, moralista come solo lui riusciva quando era a briglia sciolta e con delle battute che non facevano ridere neppure cinquant’anni fa. Il film quindi cerca di avere un tono più sofisticato mentre Boldi e De Sica si scambiano le mogli (Nadia Rinaldi e Kerry Hubbard) in un siparietto volgare ma mai divertente, mentre Greggio è alle prese con due fantasmi in un tripudio di brutta computer grafica e Roncato umilia il già risaputo clichè del gay macchietta in coppia con uno stanco Nino Frassica. Vacanze di Natale 91 è come un coatto che si vuole vestire da Armani per essere elegante e ne esce fuori come al carnevale di Rio. Ornella Muti in tutto questo è solo una bellissima statuina dimenticata lì forse per il piacere degli occhi.

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Un accenno però all’episodio con Ezio Greggio, non orribile come lo si racconta in giro: nel ruolo della moglie defunta Brumilde, doppiata dalla Giovanna Pini vista in Vacanze di Natale 90, troviamo Connie Nielsen famosa, tra gli altri, per “L’avvocato del diavolo” nel ruolo di Christabella Andreoli e come madre/regina amazzone nei nuovi film DC. Notevole comunque anche l’altra moglie di Greggio, la mora Susanna Bequer.

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Connie Nielsen pre Hollywood

Si va decisamente meglio con Vacanze di Natale 95 dopo una pausa di 4 anni dai cinema. Sono stati quelli gli anni tra l’altro dei successi al box office dei due Anni 90, sempre di Oldoini, e soprattutto di quella follia di indecenza narrativa che era SPQR, il film che stabilirà i canoni di comicità surreale nelle future incarnazioni natalizie dei cinepanettoni a venire, sia i Vacanze che i vari Paparazzi o Tifosi.

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Vacanze di Natale 95 è il canto del cigno di questo genere nella sua forma più pura di divertimento popolare. Dopo questo il mondo cinematografico del film natalizio esploderà o in demenze insopportabili capitanati da comici di pessimo avanspettacolo o dai soliti noti che ripeteranno all’infinito la stessa parte, sempre meno convincente e stanca. Quello oltretutto che i critici d’epoca, come i loro attori/autori, non capivano è che la commedia alla Vanzina/Oldoini/Parenti non poteva essere un divertimento pulito e poco volgare, pena la poca riuscita dell’opera come nel caso del già citato Vacanze di Natale 91. Nel nuovo millennio non poche critiche quindi useranno la carta del “Finalmente un cinepanettone per famiglie“. Che palle!

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Posso spiegarle tutto

Qui però siamo ancora ad un livello di buona e sana comicità ignorante piena di doppi sensi, di star tv che già domani non ti ricordi neanche il nome, di tette siliconate,  di culi maschili e femminile e battute completamente fuori controllo del politicamente corretto.

Forse è per questo che Vacanze di Natale 95 è uno dei migliori, sicuramente il più divertente, tra i cinepanettoni mai fatti.

Tutto è in stato di grazia: da Boldi milanese pasticcione con la paura che Luke Perry, divo del serial tv Beverly Hills, si “ciuli” la figlia (Cristiana Capotondi pre successo del Brizzi movie) a De Sica, giocatore incallito, invaghito di una statuaria moglie che vuole mollarlo. Il film è solo per loro, per le loro gang mai così sublimi, gay come poche cose altre, con persino un rapporto sessuale anale tra i due che viene casualmente consumato (Boldi viene “infilzato” in doccia dal pene eretto di De Sica che esordisce con “Posso spiegarle tutto“). Gli omosessuali, in un’epoca dove un personaggio poteva essere gay solo nella declinazione frocia pazzesca, sono oggetto di derisione, di paura omofobica, di battute varie (“Oddio c’è frocio, frocetto, frocettone, frocettissimo!!!”) che sfociano nel plagio di Scuola di polizia (Boldi che per scappare da un poliziotto “culattone” entra in un bar di omosessuali vestiti in pelle). Eppure non c’è odio, sarebbe questo sì imperdonabile, ma solo una dimensione da barzelletta dove il sesso viene bandito, dove la penetrazione se c’è è roba da ridere, dove le donne sono belle e fisicate, nude se si può, l’uomo ci prova perché deve provarci non per desiderio e alla fine stiamo assistendo ad un film con Gianni e Pinotto ma VM18.

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Con due mani!

Gira Neri Parenti, una spanna sotto il Vanzina di Vacanze in America (l’outsider del genere), ma dieci sopra l’Oldoini dei film precedenti. La sua regia, non ancora omologata ai bassi standard del genere futuro, fa il suo onesto lavoro regalandoci un ritmo indiavolato per tutta la pellicola. C’è da dire che fa un certo effetto vedere Luke Perry duettare con Massimo Boldi, vuoi anche perchè all’epoca Beverly Hills 90210 era per noi tutti una produzione di Hollywood coi soldi, mica Quei due sopra il varano per intenderci. Ecco il nostro Cipollino insieme a Dylan McKay ci faceva pensare ad un paradosso temporale dove anche Enzo Salvi poteva duettare, e per fortuna non l’ha mai fatto, con Al Pacino. Certo la fortuna al buon Luke non deve mai avergli arriso dopo Beverly Hills ma chissà quali interessanti dietro le quinte potrebbe mai raccontarci.

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Il 1995 è anche l’anno dove Christian De Sica fa il suo coming out non coming out con Uomini Uomini Uomini, terza e migliore regia della sua carriera, un Amici miei gay con una sensibilità avanti nel tempo ben diversa dalla barzelletta dei Vacanze di Natale.

Dopo questo film tutti gli altri esponenti del filone saranno, chi più chi meno, insoddisfacenti, sempre col freno a  mano e con troppi comici da varietà a riempire i lunghissimi 90 minuti e passa delle varie epopee di Boldi e De Sica, sempre meno amici, sempre più divisi.

Vacanze di Natale 2000 di Carlo Vanzina con la diva del momento Megan Gayle, l’australiana della pubblicità della Vodafone, è il primo passo verso l’abisso in  una sorta di quadratura alla Quentin Tarantino dove tutto comincia dai fratelli Vanzina e finisce con loro appena in tempo per mettere via l’albero di Natale. D’altronde come dice Riccardo Garrone nel primo capitolo “… E anche questo Natale… se lo semo levato dalle palle!“.

Andrea Lanza

 

Vincoli di sangue

25 mercoledì Ott 2017

Posted by andreaklanza in Recensioni di Andrea Lanza, slasher, thriller, V

≈ 2 commenti

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cinema, film, murder in law, vincoli di sangue

Eccoci a parlare di un brutto film, anzi di un orrendo film sconosciuto ai più, uno dei tanti horror rimasti, per fortuna, nell’oblio della vhs. Noi di Malastrana vhs siamo però come dei deviati coprofili, degli archeologi della merda filmica, perciò ci siamo approcciati, non senza fatica, a guardare questa immondizia che neppure l’essenziale Dizionario dei film horror di Rudy Salvagnini riporta.

La storia è semplicissima: una psicopatica fugge dal manicomio e torna, dopo 10 anni di oblio, dal figlio che non sa nulla delle turbe mentali della madre. Facile immaginare che il resto del film sia l’incontro/scontro tra la donna e il nucleo familiare dove si è inserita a forza, nuora e nipotini annessi, con corollario di stramberie e omicidi a random.

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La pellicola si inserisce nel glorioso filone delle vecchie pazze che ha visto sfoggiare il talento di vecchie glorie come Bette Davis e Joan Crawford in Chi ha ucciso Baby Jane?, Shelley Winters in Chi giace nella culla di zia Ruth?, e, in tempi più o meno recenti, Jamie Lee Curtis in La notte della verità e Jessica Lange in Obsession.

C’è da dire che Marilyn Adams che interpreta, in completo overacting schizofrenico, la cattiva del film, Milly, è un cagnaccio come poche, ma, a sua discolpa, a dire il vero, si parla di un film girato e interpreto coi piedi, una cosa a metà tra l’amatoriale inconsapevole e la gita di Don Buro in America.

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Il regista Tony Jiti Gill, un solo altro film per fortuna nel curriculum e non horror, non riesce mai a portare tensione ad un film che dovrebbe spaventare, è benedetto solo da una bellissima fotografia alla Creepshow, che si perde nella vhs italica, dai colori accesissimi e innaturali, ma, Dio Santo, ogni tanto, se non fosse per il budello, si potrebbe pensare ad un sonnacchioso tv movie anni 80.

Vincoli di sangue non ha un solo momento dove ci si porti a parteggiare per un personaggio, sono tutti antipatici, dai petulanti figli adolescenti, all’irritante moglie, al marito tra lo scemo e il tontolone, per non parlare di lei, l’assassina, un dito nel culo dalla prima apparizione. Cioè, io mi dico, ma se sei la cattiva di un film horror devi averle due o tre qualità che ti facciano ricordare dal pubblico per qualcosa di più di “vecchia rincoglionita assassina”, e invece la nostra Marilyn Adams tra continue lamentele, dildi marciulenti nascosti nella valigia, l’amore per i gatti nella zuppa, l’ossessione da slasher per il sesso, lo sguardo da scema del villaggio si appropria a tutto diritto il ruolo di “vecchia rincoglionita assassina”. Nei secoli dei secoli.

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Il piatto forte del film però è la comicità involontaria, con buona pace degli omicidi, solo uno, tra l’altro, degno di nota commesso a colpi di ferro da stiro. Come non citare i pantaloni rosa shocking del protagonista, Joe Estevez, fratello minore di Martin Sheen? O l’accento esageratamente straniero della donna di servizio? O quando, nel finale, la moglie, rimasta sola con l’assassina, non trova di meglio che affrontarla con una scopa di plastica dai colori di sciatta Ikea? O questa meravigliosa scena che parla da sola:

 

Il versante sesso latita, ma la figlia adolescente, ad un certo punto, senza nessuna logica di trama, decide di farsi una bella doccia mostrando fugacemente le sue tette. Poca roba come d’altronde poca roba è un film che si autodefinisce, nella sua locandina originale, “La madre di tutti gli horror” meritandosi un bel vaffanculo di chi, all’epoca, ha noleggiato la vhs, credendoci.

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Unica nota positiva di questo horror, oltre è la già citata fotografia, è il bel commento musicale di Jon McCallum, struggente e purtroppo fuori luogo in un pastrocchio come questo.

Vincoli di sangue uscì da noi in vhs per la Fox con uno di quei bei doppiaggi di merda da B movie che avevano le nostre videocassette inedite al cinema. Il nostro consiglio è di rivolgervi ad altro se avete voglia di stranezze su vecchiacci assassini come il meraviglioso American gothic di John Hough con Rod Steiger e Yvonne De Carlo. Il tempo perso non ce lo ridarà mai nessuno.

Andrea Lanza

 

Vincoli di sangue

Titolo originale: Murder in law

Anno: 1989

Regia: Tony Jiti Gill

Interpreti: Marilyn Adams, Joe Estevez, Sandy Snyder, Darrel Guilbeau, Debra Lee Giometti, Rebecca Lyn Russell, Carol Stoddard

Durata: 90 min.

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La Vera Storia della Monaca di Monza

25 lunedì Nov 2013

Posted by andreaklanza in drammatici, erotici, Recensioni di Domenico Burzi, V

≈ 1 Commento

Tag

bruno mattei, cinema, claudio fragasso, recennsioni, recensione, vera storia della monaca di monza, zora kerowa

Silenzio là in fondo! Qui si parla della Monaca di Monza, anzi, della “vera” storia della Monaca di Monza, come ci tiene a sottolineare il titolo matteiano. Sull’onda d’urto del successo di Boro “Interno di un Convento” (1978), ecco un bel conventuale fuori tempo massimo che segna l’incontro artistico/produttivo tra Bruno Mattei, qui come Stefan Oblowsky (tanto per non farsi mancare riferimenti a Borowczyc) e Claudio Fragasso (in sceneggiatura), sodalizio che durerà fino al 1989.

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Appaltato dalla Stefano Film di Nicolò Pomilia e prodotto per conto della Cinemec di Arcangelo Picchi, “La Vera Storia della Monaca di Monza” offre allo spettatore quello che promette: suore in fregola, punizioni corporali, preti arrapati e congiure di palazzo con annessa atmosfera torbida e cimiteriale a imputridire il tutto. Non si può proprio parlare di erotismo gioioso e solare da queste parti. Niente a che vedere con “La Monaca di Monza” del “nostro” Prandino Visconti, per non parlare dell’epopea manzoniana, il parto di Mattei (che girò in concomitanza con “L’Altro Inferno”) va dritto per la sua strada, fregandosene alla grande di ogni tipo di attendibilità storica, piazzando al centro del plot (o delle copule, mejo) la bellezza algida di Ulla Zora Keslerova alias Zora Kerowa nel ruolo di Virginia De Leyva, anche in nudo integrale, irretita dal piacione Gianpaolo Osio, un Mario Cutini da canile, però gran puttaniere e manipolatore che fa un po’ quello che gli pare all’interno del convento di Santa Margherita (in realtà si girò a Roma, tra le locations anche Artena, nelle cantine del palazzo Borghese).

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Grande squadra di attori che i catecumeni del Bis apprezzeranno senza meno, da Paolina Montenero, Paola Corazzi (“Le Beate Paole” diceva Mattei), Annie (K)Carol Edel (che ne ha fatte di cose in ambito bis de/genere, per fortuna nostra), Tom Felleghy, la bella e nudissima Leda Simonetti, nel ruolo della novizia Margherita, Giovanni Attanasio (prelevato di peso dagli EroSSvastica di Bruno), per non parlare della grande Franca Stoppi di “Buio Omega”, presente pure ne “L’Altro Inferno” e di Franco Garofalo, nei panni di Don Paolo Arrigone, che è colui che riesce sempre a dare qualcosa in più alla platea, che sia un gesto, un’espressione, non c’è nulla da fare, Franco buca lo schermo e ruba la scena a tutti, sia in vestale sacra, sia in calzamaglia rossa da diavolo tentatore, sia in mezzo ai morti viventi caracollanti di “Virus”. Per il resto, quando un film comincia con la scena della bella Virginia che prende i voti, alternata con immagini di cavalli che scopano (con tanto di membro equino sventolato sullo schermo) si capisce subito dove si andrà a parare, anche se non mancano inquadrature e sequenze riuscite che aggiungono quel qualcosa in più degno di essere ricordato, vedi la suorina che frusta con sommo piacere la compagna, la scena dello stupro di Virginia in chiesa o il ritrovamento del cadavere della madre superiora, divorata dai topi, che rimanda irresistibilmente a quello che si vedrà in “Rats – Notte di Terrore”.

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Ci manca eccome Bruno Mattei, siamo qui a fare (quasi) sempre gli stessi discorsi, che probabilmente hanno già rotto parecchio le palle, lo so, ma è solo per ribadire che un Colonnello del Bis come Bruno è difficile ristamparlo, ed è giusto ricordarlo sempre, non perchè abbia girato solo capolavori, il che non corrisponde a verità, ma perchè non si è mai fermato di fronte a niente, girando comunque e dovunque (anche cannibalici, W.I.P e pure “Zombie – The Beginning” e “Island of the Zombies” poco prima di morire). Però, dai, cosa si può dire ad uno che senza soldi si inventa una cosa come “Robowar” (1988), un mix atroce tra Robocop e Predator, con Reb Brown e Catherine Hickland? Solo il meglio possibile. Vostro Onore, non aggiungo altro. Consigliato.

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Per il ruolo di Virginia, si pensò in un primo momento a Leonora Fani, che per problemi con l’agente dell’epoca non accettò. La scelta cadde così su Zora Kerow(v)a, già ne “Le Evase – Storia di Sesso e di Violenze” (1978) con la Carati, Marina Daunia e Ines Pellegrini.“Lei ce la portarono…“, disse Bruno ai nocturniani. Prodotto da Arcangelo Picchi. Fotografia di Giuseppe Bernardini. Montaggio di Liliana Serra. Musiche di Gianni Marchetti. Con Zora Kerowa, Mario Cutini, Franco Garofalo, Franca Stoppi, Paola Montenero, Paola Corazzi, Leda Simonetti, Giovanni Attanasio, Annie Karol Edel, Mario Novelli, Tom Felleghy, Ornella Picozzi.

Buona visione.

A proposito delle produzioni italiane d’epoca:

“La Monaca era stato appaltato dalla Stefano Film. Praticamente noi eravamo i produttori esecutivi. Ci doveva essere un utile sul budget e io proposi di investire quest’utile su un secondo film, che diventava tutto nostro al 100%. E quindi reinvestimmo l’utile su “L’Altro Inferno”. Li abbiamo girati parallelamente. Quando si girano due film in uno, il risparmio è notevole” Bruno Mattei.

Gomarasca e Pulici, Nocturno Dossier N.45, “Il Sopravvissuto”, aprile 2006.

Domenico Burzi

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Il Tesoro di Dracula (Vita sessuale di un vampiro)

07 domenica Lug 2013

Posted by andreaklanza in erotici, Recensioni di Andrea Lanza, T, tette gratuite, V, vampiri

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erotici horror, René Cardona, santo, tesoro di dracula, vampiri che palpano tette, vampiro, vita sessuale di un vampiro

Renè Cardona è stato un prolifico regista messicano, capace di confezionare ottime pellicole sia che si trattasse di raccontare la storia di uno scimmione arrapato che una favola per bambini su Babbo Natale. Nella sua carriera diresse parecchi B movie interpretati da lottatori di catch, quello che ora chiameremmo wrestling, tra i quali il più curioso è senza dubbio il poppissimo Batwoman, risposta sexy femminile al classico Batman di Adam West. Fu anche il regista principale dei film de Il Santo, il lottatore dalla maschera argentata amato da grandi e piccini del Messico.

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Tra i film di Cardona e de Il santo spicca senza dubbio Il tesoro di Dracula, soprattutto per il ritrovamento, in epoca recente, di una versione alternativa spinta sul versante cochon. Oddio, niente materiale davvero osèe ma sembra che gli eredi del lottatore, morto nel 1984, non l’abbiano presa proprio bene impedendo la proiezione di questo cut inedito in una rassegna messicana dedicata ai vampiri patrocinata dal grandissimo Guillermo Del Toro. Ad essere poi sinceri questa versione non è proprio una cosa nuova per l’Europa visto che il suddetto film, per esempio, uscì in Italia sia come Il tesoro di Dracula (e quindi in versione soft) sia come Vita sessuale di un vampiro (in versione più hot).

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Non erano d’altronde nuove le versioni meno castigate per paesi più permissivi, succedeva anche con i nostri thriller, molto più arditi per il mercato francese. Ma cos’ha questa versione, intitolata in originale El vampiro y el sexo, in più? Poche cose, ma abbastanza succose. In primis è bene dire che ogni scena sexy ha come solo protagonista il conte Dracula, interpretato dal romano Aldo Monti, e non Il Santo. Il vampiro in questa versione palpeggia con insistenza le tettone delle sue vittime (e, come nel caso della rossa Noelia Noel, le bacia, le lecca e tenta persino un cunnilingus fuori campo).  Ecco tutto. Anche perchè, a calcolatrice in mano, si tratterebbe di si e no 10 minuti in totale. Il tesoro di Dracula è comunque ottimo, anche senza queste scene, per metà film, poi diventa una cosa pesante e francamente invedibile.

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Le assurdità di trama, come l’incipit con Il Santo che, tutto mascherato, vuole far credere di essere uno scienziato, vengono fatte dimenticare da una storia classica di vampiri non indegna per atmosfere dell’inglese Hammer. Certo fa sorridere il cotè fantascientifico alla anni 60 con un’improbabile macchina del tempo che ricorda il tunnel di Cronos, ma tutto sommato divertente anche nella sua cialtroneria. Il disastro arriva quando l’azione si sposta nel presente ed inizia una serie di assurdità, stavolta davvero poco coinvolgenti. Tutto quello che di buono c’era nella prima parte viene buttato alle ortiche e , come se non bastasse, i pochi momenti di tensione sono mortificati da una macchietta comica patetica e mai divertente. Però noi vogliamo comunque bene a Il tesoro di Dracula e, mannaggia, se potessimo tornare bambini ci divertiremmo come pazzi davanti a mazzate non stop e cattivi mai così scemi. Purtroppo però non siamo bambini, anche se Cardona (e il figlio) sono tra quei meravigliosi registi che ci hanno insegnato ad amare il cinema.

Andrea Lanza

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Versione 1:

Il tesoro di Dracula

Titolo originale: Santo y el tesoro de Dracula

Regia: René Cardona

Interpreti: Rodolfo Guzman Huerta, Noelia Noel, Roberto G. Rivera, Carlos Agosti, Hector Lechuga

Durata: 80 min. – Messico 1967

Trasmesso in tv

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Versione 2 (con credits spacciati per inglesi):

Vita sessuale di un vampiro

Regia: Terence Mervin

Interpreti: Charly Harris, Al Monthen, Jane Noel, Robert River

Durata: 90 min.

VHS: Hobby video

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Las viboras cambian de piel

18 giovedì Apr 2013

Posted by andreaklanza in G, Recensioni di Andrea Lanza, V, western

≈ 1 Commento

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cinema, guns and guts, recensione, recensioni, René Cardona, western messicano

Eccoci, i disperati, i derelitti, i bastardi che puzzano di polvere da sparo e morte, alla ricerca del film più raro, della produzione che nessuno conosce e che potrebbe nascondere una perla di meravigliosa poesia. Eccoci con la bocca che sa di pessimo sigaro mentre le nostre mani sono indecise se sparare con la colt a dei maledetti tizzoni d’inferno, neanche fossimo in Tex, o perderci tra le scollature generose di una femmina da casino.

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Renè Cardona Jr è stato uno dei registi messicani più interessanti che possiamo ricordare, non tanto per i capolavori prodotti, ma per la fattura invidiabile, da esportazione estera sicura, delle sue opere.
Figlio del regista del cult movie Korang la belva umana (esperimenti su un ragazzo fino a trasformarlo in un gorillone affamato di sesso e sangue!!!), Cardona ha girato ripoff de Lo squalo (Tintorera), disaster movie (Cyclone), pellicole anticipatrici di blockbuster americani (I sopravvissuti delle ande prima di Alive di Frank Mashall), spaccati di horror reale (Il massacro della Guyana ispirato alla setta suicida di Jim Jones) e seguiti di capolavori hitchcockiani (Uccelli 2 la paura).
Non proprio un regista senza perle di infimo o delizioso (a secondo di com’è l’approccio) bis da sfoggiare nel proprio curriculum artistico, con in più fior di attori a lavorare per lui (John Huston, Joseph Cotten, Donald Pleasence, Arthur Kennedy, Carroll Baker, Lionel Stander, Yvonne De Carlo). Ecco allora che, alla scoperta di uno spaghetti western messicano dal titolo Las viboras cambian de piel (Guns and guts) girato nel 1974 da questo auteur, le nostre fantasie e speranze si erano accese.

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Salvo fraintendimenti chiariamo subito che il film è di ottima fattura tecnica, ralenti, sparatorie, regia come il Dio del cinema western insegna, ma aggiungiamo subito che è tremendamente prolisso e noioso. Pur se girato nel 1974, quando il western italico stava morendo tra le braccia di Trinità e di una serie di spaghetti comici, il film di Cardona Jr risulta subito antitetico: sceglie la strada della serietà, calcando solo la mano in iperreali scazzottate dal sapore di assurdo, ma restando fedele ad una storia ascutta che non ammette sterzate nel pecoreccio parodistico.
Le sparatorie sono il piatto forte, molto oniriche, dilatate in un tempo quasi infinito con sangue che scorre copioso da ferite appena aperte, la lezione di Peckinpah è compresa, digerita e sviluppata in modo originale, mai emulativo, dalla forte componente di gore spettacolare. Di nudi il film abbonda, più che in altri veri spaghetti western, dei quali Guns and guts ne è il riflesso estorofilo più vicino, facilmente confondibile nel marasma di milioni di titoli prodotti nel genere, ma differente per un’anima più caliente che esaspera l’exploitation recondita nel filone. Peccato che Guns and guts si perda nella storia da Mucchio selvaggiovista e rivista centinaia di volte in diverse alternative, non ha dalla sua un gran ritmo e purtroppo, per questo soprattutto, non riesce ad imporsi nel genere pur vantando un finale nichilista e disperato.

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Sorprende che il film non sia mai stato esportato in Italia ai tempi del nostro storico spaghetti western perchè avrebbe comunque fatto, difetti a parte, la sua sporca figura tra operine come quelle di Fidani che neanche avevano il sottile genio di un Cardona jr, qui in versione terrorista dei generi.

Andrea Lanza

Las viboras cambian de piel

Titolo estero: Guns and Guts

Anno: 1974

Regia: René Cardona Jr. 

Interpreti: Jorge Rivero, Pedro Armendáriz Jr., Rogelio Guerra, Zulma Faiad

Durata: 90 min.

Inedito

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