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Artigli di tigre il ritorno

18 lunedì Giu 2018

Posted by andreaklanza in A, azione, B movie gagliardi, comico, Recensioni di Andrea Lanza, Van Damme, War movie

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Esistono film che bisogna recensire senza l’apporto di imdb, dizionari o cazzi mazzi, tanto quello che devi sapere è nel tuo passato da ragazzino divora stronzate o nella tua fantasia. Ma facciamo un passo indietro…

Artigli di tigre il ritorno altri non è che il seguito, sempre diretto da una scimmia che si crede Corey Yuen, grandissimo regista di So close e The transporter, del capolavoro dell’infimo ma sublime Kickboxers vendetta personale, recensito qualche anno fa. Per ricordarvi bene è il film che ha consacrato tanto Van Damme, nei panni di un russo sbruffone, quanto Buana, un negretto con tendenze gayose ai danni di uno psicotico schizofrenico con il pallino di Bruce Lee.

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Purtroppo No retreat, no surrender 2: Raging thunder (il titolo originale) non ha né Buana né Van Damme né tantomeno lo spirito di un cinese che si traveste da Bruce Lee solo per dare scappellotti ad un americano cretino. E vi aggiungo, so che sarete in lacrime, mancano pure Dino ”Spaccaossa” Ramsey e il mitico cicciobello mangiahumburger. Se non sapete chi sono vi invito con un sonoro calcio rotante a ripassare il primo film, uno dei fondamentali caposaldi del kung fu scoreggione.

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Jean Claude grande assente

Questo film è la risposta ebete al classico capolavoro norrisiano Missing in action così come il primo lo era di Karate kid. Come avrete immaginato nella pellicola non c’è traccia di nessun Artigli di tigre né tantomeno è spiegato questo fantomatico personaggio da dove sarebbe ritornato. Forse, e dico forse, la produzione italiana ha cercato stavolta di attaccarsi non a Kickboxers ma a Copgirl – artigli di tigre del 1991 con il quale condivide la stessa attrice, solo che No retreat, no surrender 2: Raging thunder è del 1988! Macchine del tempo? Alieni burloni? Buana che urla strizzando il culetto? Misteri del bis miserabile delle arti marziali.

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Prima di proseguire però è bene conoscere alcune dritte per sopravvivere in Thailandia e in Cambogia, almeno seguendo i dotti consigli del film:

  • Se andate in un ristorante potreste mangiare prelibatezze come occhi di scimmia, feci di camaleonte, iguane alla tartarre e così via, tanto per dire “Spielberg, a noi Indiana Jones e il tempio maledetto ci fa un baffo”.
  • Se siete un politico morirete in un modo assurdo, ma tutto sommato buffo: un vietcong spunterà dal tombino per crivellarvi di colpi per poi tornare a ridere tutto contento nascosto tra la cacca e la pipì.
  • I cambogiani sono dei figli di puttana incredibili, non tanto per quello che fanno, ma perchè sono amici dei russi e i russi si sa sono come Satana. Si racconta che si sciacquino le palle con la vodka per stupire gli amici con gettate di fuoco.
  • I russi sono strane creature, almeno per la scimmia che si crede Corey Yuen mentre questo è a puttane a Bangkok, e sono capitanati da un tipo alto tre metri che ha il vizio di ridere per ogni cosa che lui reputa malvagia perché è da Chobin il principe delle stelle che ogni cattivo che si rispetti deve avere la risata in random.
  • I cambogiani, a loro volta, sono capitanati da un cretino che fa urletti da checca isterica e pensa di essere Bruce Lee e viene pure menato da una donna scippata da Footloose.
  • I coccodrilli, si capisce, sono come i lupi per i vampiri, servi fedeli. In più occasioni il Generale Buttiglione dei russi trascina i nemici nella fossa dei rettili e ridendo li guarda morire con battute senza senso del tipo “Sei libero: te l’avevo promesso”.
  • Sia i russi che i cambogiani nelle battaglie sanno solo avanzare, come in un brutto videogame, pur sapendo che avanti ci sono fili con delle bombe tipo nucleare collegate.

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Sapendo ora queste nozioni possiamo tornare all’appassionante film. Leggenda vuole che, appena finito il primo No retreat, no surrender, Corey Yuen, tornato dal suo puttan tour, avesse chiesto quando si sarebbe cominciato a girare. Con un’abile mossa uno dei produttori, temendo nel talento dell’autore, lo portò al ristorante con la scusa di parlare dei vari storyboard, permettendo all’abile scimmia di riuscire a girare questo secondo capitolo nella pausa pranzo. Sembra anche che fu spedito il copione a Van Damme per riprendere i panni del cattivo e al ragazzo psicotico per quelli dell’eroe, ma la risposta serafica di entrambi fu:
AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH
Che poi fa riflettere perchè Gianniclaudio era pur sempre Gianni Claudio, ma Sticchio Michia non che avesse molti ingaggi dopo il primo Kickboxers. Ma tantè…

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Non fate incazzare Cynthia

Qui comunque abbiamo un protagonista nuovo tale Loren Avedon, nei panni di Scott, un rachitico figuro che ha pessimi gusti in fatto di donne tanto da fidanzarsi con la thailandese più cessa degli anni ’80, una cosa inguardabile, un quadro astratto quasi fantozziano, e ve lo dice chi si farebbe a seduta stante l’83 per cento delle orientali a cominciare da quel bocconcino di Shu Qi. E se non sapete chi è Shu Qi diamine ragazzi, vi devo mandare contro lo spirito di Amedeo Nazzari e del suo “Che peste vi colga”.

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Neanche Shu qi è presente ma è sempre un bel vedere

Comunque la thai-cesso si chiama, nella finzione, Sullin Nguyer e, se vi chiedete perchè diavolo ha un cognome in un film di personaggi senza spessore, sappiate che il padre è un noto mafioso locale, il Signor Nguyer temuto da tutti, ma che la figlia reputa un bonaccione filantropo. Scott e Sullin sono legati da amore decennale, ma, misteri del film, lei non l’ha mai presentato ai genitori e lui per amore il fine settimana si fa in aereo Los Angeles – Bangkok solo per vederla.
Tutto procede bene finché il ragazzo non decide di portare la morosa nell’albergo dove soggiorna per darle due sacrosanti colpi di spatola.

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Spendiamo qualche parola sull’hotel: una stella, gestito da Aldo (di Aldo, Giovanni e Giacomo) vestito da cinese che, all’inizio del film, proverà la gang di portare al ragazzo delle puttane bruttissime proprio mentre questi è al telefono con la sua “bella” generando una gustosa commedia degli equivoci, tanto apprezzata in Oriente quanto non capita in Occidente. Quindi o sei un cretino o un ritardato se vuoi portarci la tua fidanzata, ma Scott non è che sia un mostro di intelligenza e voilà ecco che piovono dal cielo mafiosi thai a mò di polpette e rapiscono Sullin. Il governo locale è corrotto e vogliono accusare del misfatto proprio il nostro eroe che, potenza del caso, incontrerà mentre fugge un altro americano, un avventuriero di nome Mac Jarvik (il cognome stavolta e superfluo), che lo accompagnerà in Cambogia per farsi vendetta. Al loro fianco una tappetta peperina che non la smette di fare battute, ex di Mac, con un gusto terribile nel vestirsi (è lei la ragazza in stile Footloose). Ad interpretare l’iron girl la futura star anni 90 dei film mena-tutti di Italia uno, la celebre Cynthia Rothrock, un nome che è già un programma della serie “Sono una donna e se ti avvicini ti prendo a calci nelle palle”. I tre si aggirano in Cambogia armati di tutto punto e, pur ribadendo più volte che pullula di nemici, non ne incroceranno neanche uno. Ma ecco che, per chiedere informazioni su dove si trova il campo di concentramento gestito dai russi (che sappiamo nascondono Sullin), i nostri eroi avranno la brillante idea di fermarsi da un gruppo di monaci shaolin assolutamente pacifici. Ma ‘sti figli del sol levante non sono altro che cambogiani travestiti da monaci e, trappola dopo trappola, catturano i tre con coreografie appunto da scimmia che si crede Corey Yuen. Ma essendo cambogiani, e quindi di riflesso stupidi perché amici dei russi, verranno facilmente eliminati dai tre a colpi di karate, kung fu o di asciugamani sulle chiappe.

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Uccide più la tetta che la spada

Ecco che però, visto che siamo in un film macho, le donne sono contorno, voilà che con una scusa del tipo “Sono inciampata” la prode Cynthia viene fatta prigioniera dai cattivi. Da notare che il russo la pesta con facilità estrema per poi commentare “Sei molto forte complimenti” toccando toni di non sense quasi hellzapoppiniano. Intanto i nostri eroi camminano nella Cambogia pullante nemici senza incrociarne nessuno e, complicandosi la vita in azioni inutili di amicizia virile come scalare una montagna quando di fianco c’è una funivia e condividere in cima una birra, arriveranno all’accampamento nemico. Intanto il russo, cattivo come Maga Magò, decide che sia Sullin che Cynthia devono morire, ma solo appena verrà costruita una forca perché si sa che i malvagi devono complicarsi la vita.

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La morte delle ragazze è una cosa complessa: le due vengono legate e messe a penzolare sulla fossa dei coccodrilli mentre dei pesi che si svuotano sempre più le conducono a morte certa. “Sei un misto tra un culo di scimmia e un serpente” apostrofa Cynthia il russo mentre la fine è sempre più vicina. Ma, tatà, Scott si è messo una benda rossa in testa e pensa di essere in Rambo 2 la vendetta: spara frecce infuocate, trapassa nemici con il machete, prepara complesse trappole dove mitra radiocomandati sparano ai soldati cattivi, lancia bombe a km di distanza, e tutto per permettere a Mac di salvare le due.

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Ma, attenzione, un figlio di un limone avariato non è morto e falcia a colpi di mitra la povera Cynthia che prima di cadere secca l’infame con schizzi di sangue splatter ovunque. A lei e a Mac va il dialogo finale più bello e commovente:

Mac: Sei sempre la solita, non stai mai ferma (e piange)
Cinthia (ferita e agonizzante): Se me l’avessi chiesto tu mi sarei fermata (colpi di tosse carichi di sangue)
Mac: E cosa ti ha fatto pensare che non te l’avrei chiesto? (e piange)
Cinthia: E cosa ti ha fatto pensare che io l’avrei fatto? (e spira)
Mac (piangendo) Sei sempre la solita, vuoi avere l’ultima parola (lacrime e forse scena necrofila tagliata dalla versione italiana)

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Ma il russo non è morto e credendosi Van Damme si strappa la maglietta, ma non è Van Damme e lo si capisce da come si muove con la velocità di un toro zoppo. Ingaggia una lotta incredibile con Scott in versione Rambo dei poveri che lo colpisce con ogni cosa mentre quello sbadiglia e ogni tanto ride malvagio. Ma ecco che Scott da buon americano usa un quadro di Lenin per ferirlo e lo avvolge nella bandiera russa instupidendolo, poi lo lega alla jeep e lo lancia nella fossa dei coccodrilli. Per Confucio, però, il generale bolscevico pur con le gambe dilaniate dai morsi degli animali cerca di trascinare il veicolo del ragazzo verso morte certa ottenendo solo di trovarsi schiacciato dal mezzo. Allora Scott spara alla jeep mandando al creatore russi, coccodrilli e pure la scimmia di Corey Yuen che sarà sostituita da un macaco per No retreat, no surrender 3 (American Shaolin). Al disperato Mac che piange la morte di Cynthia, Scott, limonando Sullin, dirà: “Sii felice, era una brava ragazza in gamba”.

E sticazzi no?

Andrea Lanza

Artigli di tigre – Il ritorno

Titolo originale: No Retreat, No Surrender 2: Raging Thunder Dati: Anno: 1987Genere: arti marziali (colore)

Regia: Corey Yuen

Interpreti: Loren Avedon, Max Thayer, Cynthia Rothrock, Patra Wanthivanond, Matthias Hues, Nirut Sirichanya, Jang Lee Hwang, Perm Hongsakul, Chesda Smithsuth, Grisapong Hanviriyakitichai, Roy Horan, Bunchai Im-arunrak, Opisok Praechaya, Sanchai Martves, Suang Sosretananant

Durata: 105 min.

Aka “La vendetta dei maestri di kickboxing”, “Raging Thunder”, “American Champion No 2”, “No Retreat, No Surrender 2”, “Karate Tiger 2”. 

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La prova

20 giovedì Lug 2017

Posted by andreaklanza in P, Recensioni di Manuel Ash Leale, Van Damme

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a prova, roger moore, the quest, van damme

C’era una volta Jean-Claude Van Damme e c’era una volta anche la mia adolescenza. Facile accostare le due cose, per il sottoscritto inscindibili, tanto che ogni volta si chiacchieri di JCVD scatta il momento nostalgia, quelle maledette epifanie che ti fanno sentire vecchio anche se tanto vecchio, in fondo, non lo sei. Ma è così, inutile negarlo, l’action man belga fa volare la mia mente a tempi più lieti, dove non avevi nulla a cui pensare se non a fare colpo sulla ragazzina dai capelli rossi che ti mandava in pappa cervello e capacità vocali. Che poi, diciamocelo, il cinema degli ottanta e inizio novanta creava esempi ammazza autostima. Sì perché noi, Van Damme, non lo siamo stati mai. Ci sarebbe piaciuto e provavamo a darci arie da grandi uomini, eroici e combattivi, ma poi qualcuno ti faceva fare il sub nella sabbia del campo di calcio oratoriale e tu ridimensionavi le aspettative. Era proprio lì, mentre respiravi il gesso delle linee, che capivi la fregatura. Come diceva Sordi ne Il Marchese del Grillo: ”Mi dispiace…ma io so’ io e voi non siete un cazzo”.

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Non siete un cazzo

Eppure esiste un film, tra l’altro diretto da JCVD in preda a velleità autoriali, dove il Nostro non è il personaggio più cool. Strano a dirlo, lo so, ma a rubargli la scena, complice un carisma attoriale d’altri tempi, è un attore inglese, Cavaliere dell’Impero Britannico, Ambasciatore UNICEF e sette volte 007. Il film è La Prova e lui, per chi non l’avesse ancora capito, è Sir Roger Moore.

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Vaya con Dios, Roger

Ebbene sì, in un film di arti marziali a spiccare è l’unico che non le pratica. A dirla tutta La Prova è uno dei film ai quali Moore era meno affezionato, nondimeno resta un punto di forza in un lavoro altrimenti piuttosto stereotipato. The Quest, titolo anglofono, vede il solito JCVD alle prese con un torneo, il Ghan-gheng, dove si affrontano i migliori lottatori provenienti da tutto il mondo. Christopher (Van Damme) si ritroverà a combattere per la vittoria e per la vita dei suoi amici. Ora, potrebbe cogliervi una lievissima sensazione di déjà-vu, ma non fateci caso, passerà. Specialmente se non avete visto Senza esclusione di colpi.

69c85ea2d0516139f78dec52a3f085b5 Sottigliezze a parte, sarebbe ingiusto affossare La Prova, siamo dopotutto nel 1996 e JCVD è ancora molto popolare, tanto da cimentarsi, come già detto, non solo nel soggetto e nell’interpretazione, ma pure nella regia. Il risultato è qualcosa che, in fondo, un poco sorprende per professionalità, cura e attenzione, facendo dimenticare in fretta la mancanza di originalità del plot. Van Damme è capace di rendere il tutto funzionale, muovendosi in bilico fra i toni seriosi di altri lavori, come appunto Bloodsport o Lionheart, e quelli più ironici, mantenendo per tutta la durata il senso epico dell’avventura.

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Jean Claude ironico

Non si gridi al miracolo, intendiamoci, qui non siamo davanti a un Hard Target e Jean-Claude non è John Woo. Occorre però dare a Cesare quel ch’è di Cesare: La Prova è invecchiato molto bene e il fatto che il box office all’epoca non l’abbia premiato non sminuisce affatto il valore della pellicola. Una pellicola impreziosita, concedetemi il termine, da un Roger Moore che appare sempre sornione e divertito da ciò che sta facendo.

maxresdefaultIl suo Lord Dobbs è un ladro, pirata, gentiluomo, l’elemento di disturbo in un mondo di guerrieri, un infido approfittatore che però non riesci a detestare. The Quest rimane uno dei lavori migliori di JCVD, dall’ambientazione esotica del Siam di inizio ‘900 ai combattimenti tra stili diversi, intriganti e ben coreografati. Altri tempi e un altro cinema, passato come la nostra giovinezza, ma sempre capace di gasarci come tanti anni fa, gli anni di che belli erano i film, gli anni del “qualsiasi cosa fai”, gli anni del “tranquillo siam qui noi”. Il tempo passa, gli uomini falliscono, gli eroi restano. Lunga vita a Jean-Claude Van Damme.

Manuel Ash Leale

La prova (The quest)

Regia: Jean Claude Van Damme

Soggetto Frank Dux e Jean-Claude Van Damme

Sceneggiatura Steven Kliven e Paul Mones

Interpreti:Jean-Claude Van Damme: Christopher Dubois,  Roger Moore: Lord Edgar Dobbs, James Remar: Maxie Devine, Janet Gunn: Carrie Newton, Jack McGee: Harry Smythe, Abdel Qissi: Khan, Kristopher Van Varenberg: giovane Christopher

Durata: 94 min.

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Pound of flesh

13 venerdì Mag 2016

Posted by Manuel Ash Leale in action, P, Recensioni di Manuel Ash Leale, Van Damme

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darren shahlavi, jean claude van damme, pound of flesh, recensione, van damme

Ogni volta che penso a Jean-Claude Van Damme vengo assalito dalla malinconia. Gli anni del suo apice cinematografico erano, dopotutto, gli anni della mia adolescenza e non posso esimermi dal ricordarli con tenerezza, anche nei rimorsi e nei rimpianti. JCVD è in qualche modo paragonabile agli 883, all’A-Team e alle serate passate in sala giochi, quando ancora con questo nome si intendevano le stanze piene di cabinati e tavoli da biliardo. Impossibile non associarlo ai tentativi di approccio col gentil sesso, naturalmente falliti in modo misero, perché lui era lui e noi eravamo dei poveri sfigati. Per di più sovrappeso. Insomma, la sua leggenda ci ispirava e ci portava a fare figure ignobili, entrate di diritto nei manuali su come non sedurre una ragazza.

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Ma poi, ahimè, si cresce, e tante cose che ci sembravano cool iniziano a perdere fascino, l’aura mitica vacilla e rischia di dissolversi al vento della realtà. Van Damme, come tanti di noi, non ha passato indenne la prova del tempo, tra brutti trascorsi dovuti ad alcool, droghe e scelte discutibili a livello professionale. La spirale discendente della fama lo ha fagocitato, inflessibile come l’ispettore Harry Callaghan, e per diverso tempo il belga è scomparso dal circuito che vale, pur non fermandosi praticamente mai. Le eccezioni che contano sono poche, nella sua filmografia post 1995, sicuramente JCVD (2008), The Eagle Path/Full Love (2010/2014) e The Expendables 2 (2012). Tuttavia, a differenza di colleghi che pur trovandosi in produzioni becere fanno ancora i divi dei tempi che furono, Van Damme è conscio del suo passato e dei suoi sbagli, capace quindi di metterli in scena con un’umiltà che di certo non avremmo mai associato al suo nome.
Con queste premesse nasce Pound of Flesh, e Jean-Claude ci tiene a tal punto da promuoverlo in ogni modo possibile, con tanto di comparsata sacrificale da Conan O’Brien.

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Se siete tra quelli che hanno smesso di seguirlo ai tempi di Timecop, e ritenete ogni cosa fatta dopo solo un appannato simulacro della sua gloria ormai decaduta, ricredetevi. Il belga ha fatto tanti passi falsi, è vero, ma qualcosa è cambiato e quello che abbiamo davanti oggi è un professionista che si muove tra sensi di colpa, performance eccezionali e l’affetto di chi non lo ha mai abbandonato. Purtroppo, le performance sopra citate sono spesso sprecate, poiché le produzioni a cui principalmente partecipa non sono all’altezza di ciò che lui sa dare. Credo vi verrà spontaneo, a questo punto, pensare che Pound of flesh sia tra queste, ma non correte troppo, per quanto non l’abbia nominato tra le eccezioni, qui c’è qualcosa di più ed è manna dal cielo per Van Damme e la sua ricerca di personaggi all’inseguimento di redenzione. La storia di Deacon Lyle, infatti, ci racconta del suo viaggio per donare un rene alla nipote malata. Ex legione straniera ed esperto di rapimenti e salvataggi, Lyle cade però nella trappola del mercato nero e dopo essersi fatto sedurre da una donna si risveglia senza il rene da trapiantare. Raccontato così sembra quasi una farsa da leggenda metropolitana, o da canzone di Elio, ma la ricerca di Deacon, in compagnia del fratello, metterà a nudo l’uomo che, per l’ennesimo errore, rischia di bruciare l’unica possibilità di fare qualcosa di buono nella vita. Come può JCVD resistere a una storia in cui raccontare anche qualcosa di sé?
Intendiamoci, Pound of flesh è un DTV, con tutti le magagne che questo tipo di produzioni contiene, eppure con una caratterizzazione dei protagonisti sopra la media, dei combattimenti ben fatti e un Jean-Claude che non solo ci propone qualcosa di nuovo, ma si esibisce anche in una sorta di epic split come da tanto non faceva. Accanto a lui un John Ralston altrettanto importante e mai in secondo piano, nei panni del fratello, uomo profondamente credente e agli antipodi. Insieme danno una buonissima prova, convincente e davvero ben delineata.
Detto questo io vi saluto, vi ringrazio e arrivederci a presto.

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Eh magari…ma le cose buone si fermano qui, pur sempre di un DTV stiamo parlando. Se anche la sceneggiatura pare essere stata pensata e non raffazzonata dopo una dose di crack, i limiti ci sono e si vedono. Il resto del cast, a eccezione del compianto Darren Shahlavi, è da dimenticare, la regia del solito Ernie Barbarash ha qualche tocco di personalità in più rispetto all’abitudine, ma non basta a coprire le lacune e le superficialità di tutto il film. Vedere Van Damme che mena gente pestandola con una Bibbia ti fa tornare a credere in Dio, ma purtroppo non basta questo a fare di un film appena sopra la mediocrità un’opera sublime. Onore a lui, al suo spirito di sacrificio e all’ennesima ottima performance, peccato però per l’occasione mancata.

Pound of flesh si ferma alle ottime intenzioni, senza però andare più in là, ma l’unico motivo è da imputare a una produzione davvero non all’altezza. In mano a produttori seri e a un buon regista, ci saremmo leccati i baffi.

Manuel “Ash” Leale

Pound of flesh

Anno: 2015

Regia: Ernie Barbarash

Interpreti: Jean-Claude Van Damme, John Ralston, Aki Aleong, Charlotte Peters, Darren Shahlavi

Durata: 1h 44m

DVD/BRD: italia/import

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Street fighter – sfida finale

05 sabato Set 2015

Posted by andreaklanza in azione, fantascienza, film pericolosamente brutti, live action, Recensioni di Daniele Bernalda, S, Van Damme, videogame

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cammy, film da rivalutare negli anni, raoul julia, street fighter, street fighter guile edition, van damme, videogames

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Sì, noi di Malastrana andiamo contro tendenza. Si capisce.
Senza disdegnare i mezzi che l’attuale tecnologia ci fornisce, la VHS rimane il nostro supporto preferito e il VCR il nostro credo.
Oltretutto abbiamo un debole per quelli che la comun gentaglia definisce ‘film di merda’.
Perchè dico ciò? Semplice, perchè “Street Fighter – Sfida Finale” è unanimamente (o quasi) bocciato come film di merda. Ma come è possibile? E’ un film adorabile!
Si sappia: la mia sarà una recensione anarchica, schietta, dettata dal cuore e dalla passione.
Ok, questo sia chiaro fin da subito: io amo Van Damme. Un amore davvero profondo… un colpo di fulmine nato in una notte di mezza estate, dopo aver visto quel “Bloodsport – Senza esclusione di colpi” che noi tutti, uomini eroici e romantici, ben conosciamo.
Grazie a lui ho praticato karate per 5 anni e ho imparato a fare la spaccata tra le sedie: il proprio idolo va emulato bene, perdio!
Tuttavia penso che il karateka di Bruxelles sia stato l’eroe di molti pischelli che, come me, negli anni ’90 si ammazzavano di film d’azione e videogames, rigorosamente VS Fighting e Beat ‘em up.
Ma anche ora, dopo avere abbondantemente superato i trent’anni, la mia vita è condita di film d’azione e (retro)videogames.
E guarda caso ho un debole anche per “Street Fighter II”, il marchio dal quale il nostro bel film è stato tratto.
E’ quasi inutile dirlo, ma lo dico: nel periodo tra il ’94 e il ’97 la cartuccia di “Street Fighter II Special Champion Edition” per il mio fedele Sega Mega Drive era una specie di oracolo, un faro nelle notte verso cui fare rotta per trovare calore e conforto.
Il divertimento domestico era inesauribile e quando si usciva e si faceva una tappa in sala giochi, guarda caso buona parte delle monetine finivano ad ingrassare il cabinato del videogioco di casa Capcom.
E’ quindi possibile immaginare la felicità del sottoscritto nel leggere sulla mia rivista di videogames preferita che un tale chiamato Steven de Souza avrebbe schiaffato su celluloide quel fantastico gioco, e che nel ruolo dello spazzolone Guile c’era il mio eroe, il dio degli action movie a base di arti marziali, colui il cui nome suona mitico e virilissimo: Jean Claude Van Damme.
“Wow, ecchecazzo, sì!” Così dissi il giorno in cui la notizia mi si palesò davanti.

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E infine, il gran giorno arrivò: Varese, Cinema Arca, una sabato pomeriggio dell’Aprile 1995.
Quel giorno la sala era praticamente inondata di gente. E si parla di un vero cinema, non di quelle merde di multisala che ci sono ora, ahimè dominanti in questa triste ed infelice epoca. Ma va beh.
Che ci volete fare, erano begli anni: in quel periodo sui nostri teleschermi passavano regolarmente buzzurri del calibro di Jeff Speakman, Dolph Lundgren, Don ‘The Dragon’ Wilson, Brandon Lee… e il nostro Van Damme, ovviamente: tutti personaggi di poche parole che picchiavando sodo.
Erano amici di tutti noi.
Inoltre, nel biennio ’94 – ’95 ben tre pellicole furono tratte da videogames di successo, e guarda caso del genere VS Fighting: “Double Dragon”, con il nostro bravo Mark Dacascos e il ‘T-1000’ Robert Patrick, il qui presente “Street Fighter – Sfida Finale” e il bellissimo “Mortal Kombat”, uscito nelle sale sul finire di quell’anno ’95 (e anche qui, ricordo bene, la sala era fottutamente satura di gente).

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In “Street Fighter – Sfida Finale” non vi è una regia poderosa, una fotografia commovente… ne tantomeno una scenggiatura da strapparsi i capelli dalla testa.
No, il film è ovviamente un pretesto per dare un volto ai personaggi del famoso videogioco, con la messa in scena di un contesto di guerriglia tra il malvagio dittatore di turno con il suo seguito, e l’impavido eroe a stelle e strisce con tutti i suoi alleati. Mettiamoci poi una buona dose di botte, il solito messaggio a sfondo politico con bandiera a stelle strisce dominante sulla muscolosa spalla di Van Damme, e una sana dose di grezza ironia. Risultato: un film per tutti, per grandi e piccini.
“Street Fighter – Sfida Finale” è un film se vogliamo molto semplice, che si presenta al mondo con la voglia di stupire, affascinare ed incuriosire. Una mossa intelligente e un po’ fortunata… e al botteghino ha avuto ragione: il motivo di tale successo è dovuto ovviamente al marchio “Street Fighter II”, poi certamente all’attore di punta, quel Van Damme all’epoca 34 enne e ancora grande superstar dei film d’azione, in grado di richiamare in sala un buon numero di appassionati.
Sarà poi per l’ultima interpretazione di Raoul Julia, morto poco dopo la fine delle riprese del film… insomma, tutta una somma di fattori azzeccati.

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Non aspettatevi però di vedere “Hadoken”, “Shoryuken”, o mosse speciali che sfidano la forza di gravità: no, niente di tutto questo, se non pallidi tentativi. Sotto questo aspetto aveva fatto qualcosa di più Wong Jing, dalle parti di Hong Kong, quando l’anno prima confezionò il divertente e a suo modo spettacolare “Future Cops”, pellicola goliardica e fumettosa, nella quale i più grandi divi del cinema hongkongese (attori del calibro di Andy Lau, Ekin Cheng, Jacky Cheung, Aarok Kwon, ecc… ) impersonavano i personaggi del videogame “Street Fighter II”, in una produzione così folle che solo il cinema della ex colonia britannica poteva produrre.

kylie-minogue-cammyE il cast dello “Street Fighter” firmato Steven de Souza invece? Belle scelte, altre no.
In breve, per nominare qualcuno di loro: si è detto Guile che fa Van Damme… scusate, volevo dire Van Damme che fa Guile. Ok, ci sta , perchè no. Azzeccatissimo. Zangief ok, un simpatico colosso tutto muscoli e niente cervello, dalla parte di Bison perchè crede che lui sia il buono… e per il quale lavora gratis. Ok anche per Vega, il ninja spagnolo. Gli insipidi Sagat e Dalshim sono rispettivamente uno un cotrabbandiere d’armi, l’altro uno scienziato costretto al volere di Bison allo scopo di dar vita al soldato perfetto, ovvero Blanka, sul quale mi rendo conto che è meglio stendere un velo pietoso. Forse il punto davvero più basso del film, con quella parruccaccia color arancio e il corpo pitturato di verde che affonda davvero nel ridicolo. Raul Julia è sufficientemente psicopatico nel ruolo del Generale Bison, e ci piace. I suoi deliri di onnipotenza lasciano il segno.
Tralasciando quella chiattona di Chun Li, noi maschietti allupati abbiamo apprezzato moltissimo la pop star Kyilie Minogue nel ruolo di Cammy… con quelle sue labbra, quel suo fisico e quelle sue treccine bionde…
Certo, poi vedi Ryu e Ken, i veri protagonisti del videogame, e ti chiedi “Perchè?”
Ma alla fine va bene così, sono due ragazzi dal cuore d’oro e combattono per la pace e per le cose belle, come noi giovani volevamo, e quando iniziano a picchiare gli sgherri di Sagat, beh, picchiano forte e finiamo per dire grazie a Byron Mann e Damian Chapa per avere dato il volto ai due eroi principali del videogame.

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Forse ora un film come “Street Fighter – Sfida Finale” non avrebbe senso, ma 20 anni fa lo aveva. Era il periodo giusto. Bisogna filtrarlo in una certa ottica: questa pellicola è un importante tassello dei suoi tempi. In anni cupi in cui tutto cambia e muta alla velocità della luce, il film di De Souza si erge come baluardo di un cinema cazzuto, di serie B, se così si può dire, tuttavia così ‘perfetto’ nella sua sfrontata ignoranza da riempire le sale cinematografiche e, a suo modo, divenire un successo.
A distanza di anni passati, fa nostalgia pensare al faccione di Van Damme che svettava sulle locandine che tapezzavano la città. Un Van Damme che, da lì a pochi anni, avrebbe tristemente iniziato la parabola discendente della sua carriera…

Bison: “Tu mi hai reso un uomo molto felice.”
Guile: “Tra poco sarai un uomo morto.”

Così fu.

RIP Raoul Julia

Daniele “Danji Hiiragi” Bernalda

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Street Fighter – Sfida finale

Titolo originale: Street Fighter

Anno: 1994

Regia: Steven E. de Souza

Interpreti: Jean Claude Van Damme, Raul Julia, Ming-Na, Kylie Minogue, Simon Callow, Wes Studi, Andrew Bryniarski, Joe Bugner

Durata: 100 min.

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Kung Fury

21 venerdì Ago 2015

Posted by andreaklanza in action, azione, B movie gagliardi, curiosità, K, Recensioni di Andrea Lanza, Van Damme

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anni 80, barbare a cavallo di dinosauri, cortometraggi fighi, david haselhoff, kung fury, ragazzi del computer, spacconate senza un domani, triceratocops, van damme, videogames

Tante le incognite dell’estate: un mattone può colpirti alla testa, puoi innamorarti di una sirena oppure vincere il caldo facendo una rapina. Se l’ultima opzione ti riesce, ecco allora che ti vedi già spalmato su un’isola tropicale, mojito alla mano e belle ragazze – tette sode – culo scolpito nel marmo, che ti rendono meno difficile l’arsura del solleone dei Carabi pirateschi. Certo poi esistono le varianti, ovvero la prigione e il tuo compagno di cella che ti guarda birichino con la saponetta in mano, o ancora peggio di finire romanticamente crivellato dai colpi incazzosi della polizia, che non sarà quella di Miami beach, ma cazzo uccidono anche loro. Quindi magari ripieghi sulla tua ps4 e su una rapina a Gta V che sicuro non ti ucciderà realmente, ma tu a quel mare ci pensi davvero e il solleone si avvicina. Dove diavolo sono le puttanelle tropicali? La vita a volte è ingiusta.

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Ah i Caraibi!

Eppure la noiosa estate, quella dei telefilm sempre uguali, degli amici che ti dicono “Stasera spacchiamo” e ti ritrovi a 40 anni a fare le stesse cose dei tuoi 18 anni, quella dei pub che mai ti ridaranno la tua giovinezza, malgrado 15 km di corsa, malgrado la fede che non ti segna più il dito, perché cazzo, ammettilo Andrea, sei vecchio… Ecco quell’estate da depressione esistenziale può riservare qualche sorpresa, e ridarti per mezz’ora quello che Dio, il governo, la grande mietitrice con la falce ti hanno rubato: i tuoi 14 anni. Gli stessi anni che andavi alle giostre per fare colpo sulla ragazza più bella del tuo paese e ti preparavi un piano perfetto, dialoghi alla David Mamet, pugno di ferro alla Van Damme per fronteggiare i probabili teppisti sulla tua strada, e finivi miseramente sullo sfondo a fare quello che meglio ti riusciva, un cazzo. Allora tornavi, coda tra le gambe, e ti buttavi in un film ed era più bello di quelli che vedi oggi, non perché lo fosse davvero, ma perché eri tu ad avere l’entusiasmo e gli occhi del fanciullino, quello che la cecità e youporn, le rotture di cazzo e la tua ex moglie, il cinema italiano e i suoi figli indipendenti faccio un film con mille lire babbo, ti hanno portato via. E lo dice anche Kaiser Soze, se il diavolo lo porta via sono cazzi.

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Ed ecco che trovi Kung Fury, arrivato per caso su passaparola di un amico che, sguardo perso da folle, ti dice “E’ bellissimo, come i film degli anni 80”, e tu ci credi e non ci credi, vuoi perché te lo dice sputando sangue e allora pensi al panfilo, allo yatch, goobye my friend, l’ultimo viaggio non lo faremo insieme, vuoi perché tutte le volte che senti la frase, “come i film degli anni 80” non è mai vero. Anche perché siamo sinceri, i film degli anni 80 si facevano negli anni 80, tutti i tentativi nuovo millennio di resurrezione di una decade che è diventata, per citare, anzi malcitare, il Leonardo Notte di 1992, “uno stato mentale”, sono falliti miseramente. Non sono I Mercenari 2 a riportarci i nostri eroi amici dell’infanzia, non è un Tulpa a regalarci un nuovo Tenebre argentiano, non sono i Vanzina con un’ultima sfilata a riempire le sale di un Sotto il vestito dal sapore di un funerale, no, i tempi giustamente sono cambiati, anche l’approccio lo è, ma soprattutto loro, i Rambo, gli Stallone, le Renèe Simonsen, gli assassini nerovestiti, sono tutte favole che mitizzi e non vuoi davvero rivedere perché è finito purtroppo il tempo delle seghe.

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Eppure Kung Fury arriva, come uno snuff, come una visione che non ti aspettavi, la doccia gelata quando sei spaparanzato sul bordo piscina. Kung fury è il telefilm mai visto nei tuoi 14 anni, che non sarebbe mai stato prodotto probabilmente, ma che tu avresti consumato puntata dopo puntata su scalcinate vhs registrate e riregistrare. In mezz’ora ti trovi catapultato in un mondo fatto di spacconate, di calci volanti e spaccate incredibili, di donne scosciate a cavallo di dinosauri, pronto ad inserire il tuo cazzo di 200 lire nella speranza che stavolta il fottutissimo Hitler, il Kung fuher, il boss finale possa essere ucciso. E dietro di te la folla di ragazzini della spiaggia. Andrea… Andrea… Ecco, giri il cappellino al contrario. Over the top, ragazzi, over the top. E arriva lui ed è allora che capisci che in palio c’è il tuo destino, ora, in una partita da 200 lire.

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Kung Fury è un corto di mezz’ora, una follia di un regista/attore svedese, tale David F. Sandberg, che decide di chiedere la cifra minima di 200 mila euro per realizzare il suo progetto, un revival folle degli anni 80, grazie al sito Kickstarter.  Pubblica il trailer e neanche 24 ore dopo arriva alla cifra desiderata, ma non solo: nel giro di un mese raggranella ben 600 mila euro, tre volte quello richiesto. Ecco allora che, grazie ad un budget “faraonico”, Sandberg realizza il suo sogno e lo fa maledettamente bene, ingaggiando persino David Hasselhoff che gli canta una canzone, terribile come tutte le canzoni dell’ex Mitch Buchannon di Baywatch, ma a suo modo commovente.

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In Kung Fury non ci sono i film degli anni 80, non c’è lo stesso spirito, ma c’è lo sforzo di analizzare gli eccessi e i cliché di una decade cinematografica, le battute ad effetto, i personaggi sopra le righe, la follia di una tecnologia non alla portata di tutti, e quell’aria ingenua anche davanti a temi forti come il nazismo. In questo Kung Fury è perfetto nella sua esimia durata di soli 31 minuti, un minuto in più era troppo, ma tutto in questo corto funziona perché è un gioco, una macchina del tempo che ti appassiona e ti fa ridere, ti ruba il tempo di una scrollata di pisello facendoti illudere che sei tornato bambino, anche se non lo sei.

Kung Fury allora diventa il film che alle elementari raccontavi e tutti gli amichetti ti guardavano con gli occhi spalancati a dirti Wow, e non importava se il film esisteva o meno, ma era necessario il momento di quel Wow che portava la tua fantasia all’apice del suo potere. Ecco allora che potevi persino infilarci nel tuo racconto un triceratopo poliziotto al fianco di Cobra, tanto il film era vietato ai 14 e sarebbe passato molto tempo prima di finire in videoteca o in tv.

Ci sono pure io, ragazzi!

Ci sono pure io, ragazzi!

Kung Fury ha tutti gli elementi che rendono grande una spacconata diventata film: i teppisti da Giustiziere della notte 3, le macchine che volano come aerei prima che Bruce Willis le usasse come proiettili in un brutto Die hard, il suo protagonista granitico come un Dolph Lundgren dei bei tempi (lo stesso regista), un capo della polizia burbero, un nerd smanettone capace di hackerare il tempo e i proiettili come neanche I ragazzi del computer, i dinosauri, le belle donne di contorno, la pubblicità invasiva, il momento melò, lo splatter e le battute, tante, come i cazzotti.

All’inizio gli intenti sono rivelati subito quando il simbolo degli anni 80, un cabinato da sala giochi, prende vita e comincia a fare casini in città, come neanche Godzilla nei migliori Honda. Da qui è tutto è crescendo, di situazioni, persino di emozioni, assurde come essere colpito da un fulmine e morso contemporaneamente da un cobra, ma geniali, che culminano in un lungo combattimento dove il film si inchina ai videogames, i vari Mortal Kombact o Street fighter, e al loro stile. Ecco che vediamo il Kung Fury combattere con decine di nemici nazisti mentre uno sfondo animato si muove, sempre uguale, con i cattivi come platea, e se avessi un dannato joystyck ora lo useresti per menare le mani anche te.

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Poi c’è lui, il Kung Fuher, Hitler, ma non l’Hitler studiato nei libri di scuola, ma la versione action, maestro di kung fu, il nemico più odiato ora, che tu sia di destra o di sinistra, che tu sia anarchico o abbia tatuato sul culo il Mein Kampf, perché arrivato a quel punto tu sei il protagonista, e hai infilato il tuo gettone da 200 lire per vedere sanguinare quello stronzo, e lo vedrai, cazzo.

David F. Sandberg capisce in pieno cosa il pubblico si aspetta e riesce a condire la sua insalata in maniera impeccabile, con i colori saturati giusti e la geniale paraculaggine quando rende uno scontro ancora più spettacolare grazie all’escamotage dei difetti da vhs smagnetizzata. Arriva poi ad osare regalandoci persino una sigla del suo pseudotelefilm che, cazzo, sembra più vera del vero, con tanto di spiagge e delfini alla Miami Vice.

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Certo non vi ho detto di Thor, dell’aquila del Fuher, degli omaggi a Terminator, ma basta raccontare, il film lo trovate qui sotto, con i sottotitoli in italiano. Se volete farci sapere cosa ne pensate scriveteci, commentate, non abbiate paura, perché Kung Fury non è un corto, è una vera esperienza. Per il resto inserite il vostro gettone e buon divertimento.

Fight!

Andrea Lanza

L’invasione zombie secondo l’Asylum: Z nation

01 domenica Feb 2015

Posted by andreaklanza in anteprima, B movie gagliardi, Recensioni di Andrea Lanza, splatteroni, Van Damme, zombi

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andrea lanza, asylum, john hyams, peter hyams, scifi, serial, walking dead, z nation

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Diciamocelo chiaramente: l’Asylum non è che ha mai sfornato chissà quali capolavori. Stiamo parlando d’altronde di una casa cinematografica famosa per i figli mongoloidi dei blockbuster. Una cosa che può piacere a Fin il benzinaio del Texas che sputa cicche di sigaretta, ride sparando ai cartelli stradali e sogna le tette di Mary Lou Parker mentre si inchiappetta il suo chihuahua. L’Asylum piace ai senza Dio, alle meretrici di Babilonia, a Cicchetto e Tiramolla, ai due fan di Gordon Link, a quelli che cazzo il Corvo 2 l’ha girato il regista dei Cure, ma non a chi ama un cinema con almeno uno stile che faccia la differenza. Certo perchè mai uno dovrebbe sbavare per l’uscita di Atlantic Rim, con un’ora di chiacchiere e poco altro, quando può vedersi comodo comodo un Pacific Rim pieno di mazzate, di mostri ben fatti e stronzatone da fumettaccio stracazzuto alla Ishirō Honda? Per nessun motivo perché Transmorpher non vale Transformer, pure nella sua totale imbecillità, perché I am Omega non è I am a legend anche se il titolo è simile, perché lo Sherlock Holmes dell’Asylum è divertente i primi dieci minuti, ma non è cinema nè mai lo sarà, è la scoreggia di un mediocre che copia i grandi, qualunque essi siano. D’altronde ci sarà un motivo perché al Louvre non spicca una bellissima copia della Monna Lisa con lo sfondo di un cielo azzurrissimo ma quella di Leonardo? E non scomodiamo i nostri Bruno Mattei, Aristide Massaccesi o Claudio Fragasso perché è vero che la loro filmografia è piena zeppa di imitazioni basse, da John Milius a James Cameron da John McTiernan a George A. Romero, ma un conto è copiare senza estro, un conto è rielaborare la materia in una forma inaspettata, anche nel plagio, seguendo la regola del lepre fulciano che fa capolino quando pensi di avere visto tutto. Eppure un segnale di cambiamento si è percepito anche in territorio Asylum: Sharknado, Zombie night di Joel Gullagher e Hansel & Gretel sono stati il primo passo per raggiungere la decenza cinematografica in una selva di orrori brutti da fare spavento. Sempre filmacci si intende, ma nella media di un prodotto di cassetta, una cosa che sembra una manna dal cielo visto i precedenti. Certo i Bikini Spring breakers alla faccia di Harmony Korine vengono (e saranno sempre) sfornati, ma le rivoluzioni si cominciano sempre con un piccolo, flebile movimento.

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Z nation è la risposta Asylum a Walking dead di Robert Kirkman, il serial zombie più visto di sempre, e come risposta/fotocopia ne ricalca lo schema on the road e gran parte dei personaggi. Solo che stavolta accade l’imprevisto, il guizzo da guappo, quello che doveva essere un disastro diventa un piccolo miracolo. Sia chiaro: Z nation non vale neppure l’unghia di Walking dead, ma a suo modo è comunque un capolavoro, un prodotto così ferocemente oltre gli schemi da trasformare la cretineria in genio. In 13 episodi si assiste a talmente tante cose, situazioni, idee che diventa difficile soffermarsi sulla stronzata, che comunque esiste, ma ci si lascia coccolare dalla sostanza, da quello che Z nation alla fine è, fantasia al potere, anarchica, molesta fantasia. Ecco stavamo parlando di rivoluzione e Z nation è la cosa che si avvicina più ad essa, dove la dignità di essere un prodotto fruibile al grande pubblico diventa realtà. Ecco che nasce inaspettato lo stimolo per l’iperbole, l’esagerazione, con quel gusto molto pulp dello scazzo rielaborato che manca ai prodotti deviati e derivati. Ecco se Walking dead è un ristorante stellato, Z nation è la trattoria di Trastevere dove il vino scorre sempre e comunque e sai che alla fine ti alzerai sazio, cambiano i modi ma la sostanza è la stessa, la soddisfazione. E’ alla fine un problema di scelta, di essere schizzinosi, di eiaculare o sborrare, di romanticismo o sesso selvaggio: volete zombi li avrete, volete una bella sceneggiatura siete sulla strada sbagliata, ma anche qui il tiro viene aggiustato dalla follia e dalle invenzioni inaspettate.

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Prendiamo per esempio il sesto episodio “Resurrection Z” dove nel finale muore un personaggio fino ad allora cardine, un po’ l’equivalente del Rick Granes di Walking dead. Impossibile, o per lo meno improbabile, che la Fox attui la stessa scelta nel suo serial zombesco salvo poi trovarsi davanti agli studi kamikazen di fan in delirio omicida. Eppure in Z nation quest’idea della precarietà del ruolo da protagonista diventa un’arma vincente, già attuata nel pilot dove l’antipaticissimo Harold Perrineau di Lost e Oz, uno dei due o tre volti noti al grande pubblico del serial, muore prima del finale. Ecco che la serie B o C o Z annienta le certezze del mainstream e non lascia addito alla prevedibilità che il nome di, che so, Brad Pitt in Z world ti rassicura, perché lo sanno pure i sassi, le star non muoiono nelle produzioni importanti. Certo poi esistono eccezioni come il Ben Affleck di Smocking Aces, ma sono appunto eccezioni.

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In Z nation gli attori sono brutti, cagnacci e non spiccano per simpatia, sono l’equivalente umano delle comparse zombi, un po’ meno truccati ma la linea recitativa è sempre di grugniti e di approccio fisico. Le ragazze che dovrebbero essere le fighe della produzione hanno le imperfezioni da video gonzo porno, con il culone da mangia hamburger, il corrispettivo della tua vicina di casa se scoppiasse davvero l’apocalisse ZOMBI. In questo il pubblico si trova trasportato in un contesto, almeno attoriale, da reality, annullando tutta l’artificiosità da fiction, con i corpi scolpiti dalla palestra e le frasi più belle e ad effetto. Qui vige invece la scorrettezza, i cannoni fumati in faccia agli zombi, i dialoghi che pronunceresti anche tu davanti ad un mangiacarne incazzato e quest’atmosfera incredibile da torture porn bulgaro. Sarà la fotografia smarmellata, saranno le ambientazioni da Sarajevo post atomica, ma ogni puntata di Z nation ti fa respirare una sensazione di morte e distruzione incredibile, di fame e miseria quasi da combact film, un po’ come succedeva per il nostro sfortunato e abominevole Zombi 3.

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Ma Z nation non è solo follia e scazzo, anche se alcune invenzioni come gli zombi radioattivi sono davvero oltre l’umana concezione, ma anche il tentativo di portare temi alti in una produzione bassa. Se bisogna fare uno sforzo biblico per non spegnere la tv fino a Home Sweet Zombie dove il classico plot Asylum di tornadi e squali diventa l’assurda variante zombi e tornadi, già a partire dall’episodio 6, Resurrection Z, il prevedibile diventa inaspettato e giù di sette suicide, di sparatorie western, di mandrie di zombi che si comportano come nel giochino per IPHONE Zombie tsunami, mangiando ogni cosa gli si pari davanti, in un cammino di devastazione dalle connotazioni surreali. Ecco Z nation dal sesto episodio è un crescendo di WOW e applausi, di popcorn sgranocchiati e rutti liberi, ti riporta più di una madeleine proustiana agli anni della tua infanzia quando anche Zombi horror di Andrea Bianchi era genio. Poi arrivano quei due episodi che ti lasciano spaziato, Zunami e Die Zombie Die… Again, dove il gruppo viene lasciato in disparte e ci si focalizza solo su tre personaggi. In questi due frammenti si parla del tempo, dei paradossi, dell’ineluttabilità del destino, la trama arriva a toccare corde di sensibilità inaspettata quando arriva a concentrarsi sull’umano più che sul superficiale. Certo la struttura è da episodio di Star Trek, soprattutto in Zunami, ma si denota un tentativo apprezzabile di non essere solo un prodotto fotocopia.

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E poi naturalmente c’è Murphy. Si perchè è vero che Walking dead è Rick, Daryl e Michonne, e non basta mettere ad una ragazza di colore una spada per rapire il cuore dei fan, ma Z nation ha Murphy che è uno dei personaggi più belli degli ultimi anni. Murphy è il paperino dei fumetti, il pusillanime che non vorremmo mai essere, ma è anche una vittima degli eventi. Si trova suo malgrado coinvolto nel ruolo di salvatore del genere umano, è stato morso dagli zombi ma grazie ad un vaccino non si è tramutato, quindi nel suo sangue ha la cura. Il serial lo segue mentre il suo carattere si evolve, mentre assistiamo ad una trasormazione anche fisica che gli fa mutare pelle, mentre si trova costretto a dover scegliere da che parte stare, i suoi amici improvvisati o i morti viventi che gli assomigliano sempre più. In Welcome to the Fu-Bar morsicherà un umano, in Zunami farà entrare uno zombi in uno stabile a divorare la moglie e la figlioletta, ma salverà più volte i suoi compagni da morte certa. Murphy non è un uomo, è una nuova specie, a metà tra la nostra e quella dei cadaveri, nè buono nè cattivo, solo incazzato come lo saremmo noi se qualcuno ci avesse fatto il regalo di un ruolo che non abbiamo richiesto. Jena Plinsken invocherebbe la fine del mondo: come dargli torto?

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La figura di Murphy, più che l‘Eugene di Walking dead, ricorda molto il Gary Fleck della trilogia letteraria sugli zombi di  David Wellington, anche lì come qui un personaggio che si trova suo malgrado ad essere protagonista di un’evoluzione/rivoluzione dell’epidemia zombi.

Altro punto di merito di Z nation è la presenza come regista (gli episodi migliori sono i suoi) di John Hyams, figlio del Peter di Atmosfera Zero e Timecop, e famoso per essere uno dei migliori autori di action testosteronici degli ultimi anni. Hyams è riuscito nell’impresa disperata di dare dignità alla serie degli Universal soldier, diventando il Re Mida del film d’azione del nuovo millennio. Iil suo tocco autoriale in Z nation lo si percepisce prepotentemente: quando gira lui ecco che la serie davvero acquista una dignità inaspettata.

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Mentre scriviamo la serie è stata confermata per la seconda stagione, ma in Italia resta purtroppo ancora inedita. Noi potremmo dirvi di aspettare che prima o poi la trasmetteranno anche da noi, ma che cazzo, esiste internet, siamo nel nuovo millennio, Z nation è strafiga, che aspettate a scaricarla? Z nation è lì per sorprendervi. A noi è successo.

Andrea Lanza

 

 

Senza tregua (Hard Target)

19 sabato Apr 2014

Posted by andreaklanza in azione, capolavori, Recensioni di Manuel Ash Leale, Van Damme

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hard target, john woo, recensione, senza tregua, van damme

Non ho mai cercato l’efferatezza fine a se stessa, ho sempre privilegiato la poesia, l’eleganza dell’azione.

Chiunque conosca anche solo un poco la filmografia di John Woo non può esimersi dal riconoscere la veridicità di questa affermazione. La poetica di Woo, Leone d’Oro alla carriera nel 2010, è nell’azione più pura e nella violenza mai fine a se stessa, ma intesa come strada per la redenzione. Difficile, probabilmente, riuscire ad intendere in modo preciso ciò che i film del regista cantonese rappresentano, ma la questione si pone esclusivamente per la nostra differenza culturale. Abituati come siamo al machismo hollywoodiano e cresciuti con i miti dei film americani, gli inossidabili eroi invincibili interpretati dai grandi action-man che hanno fatto la storia del Genere, da Sly Stallone a Schwarzenegger, Willis, Norris e tutti gli altri, è palpabile la complessità nel definire un action movie “poetico”. Eppure la maestria di Woo sta proprio qua e film come A Better Tomorrow e Hard Boiled sono lì a dimostrarlo.
Non sorprende, quindi, la corte che Hollywood fece al regista cinese nei primi anni novanta, tanto da convincerlo a lasciare Hong Kong e volare negli States per il suo primo film americano, Hard Target, nel 1993. Certo è che non tutti si fidavano ciecamente dello straniero, forse proprio per quella differenza culturale sopra citata, oltre che per il diverso approccio all’action che Woo aveva sempre adottato nelle sue opere. Per un motivo o per un altro, la Universal decise di produrre, sotto però la supervisione di Sam Raimi, che con la sua Renaissance Pictures figura infatti tra i produttori. Il film non aveva un budget molto elevato ma la sfida era un’altra: girare un film americano con lo stile di un regista cinese che, in patria, era considerato una star.

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Tra gli script presentati è quello di Chuck Pfarrer (Virus, Pianeta Rosso) ad essere scelto, ma quando Woo tenta di ingaggiare come protagonista Kurt Russel, la produzione sembra non essere d’accordo e alla fine il ruolo va ad una delle star più in voga del momento, Jean-Claude Van Damme.
Sulla questione esistono diverse versioni: in una è il belgian hero a fare pressioni alla Universal per recitare con John Woo, in un’altra sono gli impegni di Kurt Russel a costringere il regista a ripiegare su JCVD, in un’altra ancora è Van Damme che convince Woo a fare un film con lui in America. Ma qualunque sia la versione della storia e qualunque sia la verità, i fatti non si possono cambiare. E dicono a lettere cubitali che Hard Target è un John Woo trattenuto. Di Senza Tregua, titolo italiano che come sempre lascia a bocca aperta per l’attinenza con l’originale, esiste infatti una versione director’s cut, circolata negli States dopo che il film fu tagliato e censurato, cosa che sicuramente non rese molto felice il regista cinese. Ed è un vero peccato perché di potenzialità, sebbene si basi su di una sceneggiatura altalenante, questo film ne ha parecchie.

Non dare la caccia a ciò che non puoi eliminare.
Da sola, la tag-line di Hard Target basterebbe a far capire i territori bellicosi dove si aggira la pellicola, che sembra modernizzare elementi di Schoedsackiana memoria, riconducibili a The Most Dangerous Game, pellicola diretta appunto da Ernest B. Schoedsack nel 1932, in contemporanea al suo capolavoro, King Kong (1933). Rivisitazione involontaria oppure no, la trama di Senza Tregua si snoda lungo New Orleans e il bayou, presentando finalmente un JCVD che non solo sfoggia i suoi calci leggendari, ma si diletta anche con armi da fuoco e acrobazie motociclistiche: tutto ha inizio con l’uccisione di Douglas Binder, veterano dell’esercito ora ridotto ad un senzatetto, che decide di partecipare, dietro lauto compenso, ad una caccia all’uomo, dove la preda è lui stesso. Quando scompare, la figlia Nat si mette sulle sue tracce e trova inaspettato aiuto in un ex soldato delle forze speciali, Chance Boudreaux, senza lavoro e bisognoso di soldi. Scopriranno che dietro alla morte di Binder c’è la mente di Emil Fouchon, che organizza caccie all’uomo per ricchi borghesi annoiati e si ritroveranno presto costretti a combattere per la loro vita.

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Un western moderno, serrato, sporco, violento e senza scrupoli, in una New Orleans difficile e problematica, Hard Target è un giro sulle montagne russe, una grande salita prima della discesa senza freni nella follia e nell’action esplosivo e infernale di un finale duro, girato con maestria da un grande dell’azione made in Hong Kong, che anche qui, nel suo primo film a stelle e strisce, non manca di utilizzare i suoi marchi di fabbrica, ralenti perfetti, inquadrature memorabili, scontri violenti e senza tregua. Nonostante un discreto successo al botteghino la critica non mancò di definirlo il peggior film del cineasta asiatico, soprattutto per la scarsa considerazione di cui godeva all’epoca Jean-Claude Van Damme, considerato un attore scarso e di poco talento. È innegabile che non fosse, così come non lo è tuttora, un interprete da Oscar, ma i luoghi comuni, le frasi fatte e gli stereotipi si sprecavano, figli di quello snobismo proprio di certa critica non solo estera, ma anche italiana. Facile fare i critici definendo capolavori i film che lo sono senza ombra di dubbio, più difficile trovare bellezza, poesia, qualità e onestà in opere che vanno comprese aldilà dell’apparenza e della prima, singola e svogliata visione. Da questo punto di vista, Van Damme non è stato molto fortunato, sebbene sia diventato, nel corso degli anni, un buon attore, che riesce anche ad andare oltre gli action nonostante per lui rimangano una seconda casa.
L’inespressivo belga, come da tanti viene definito, possiede ancora una fisicità e un atletismo invidiabile e John Woo non mancò di notarlo, nel ’93, andando oltre stereotipi e sfottò, sfruttando al meglio le capacità di JCVD in scene tese, coinvolgenti, rapide, con qualche sprizzo di machismo, è vero, ma pur sempre di una produzione americana si trattava. E al fianco di un protagonista che non solo mena pugni e calci come se non ci fosse un domani ma cavalca moto e salta con nonchalance su auto in movimento, ci sono Yancy Butler (Witchblade, Kick-Ass), Wilford Brimley (Sindrome Cinese, La Cosa, Cocoon), Arnold Vosloo (La Mummia, Darkman 2, Blood Diamond) e soprattutto un cattivo con i fiocchi, uno spietato Lance Henriksen (Terminator, Aliens, Millenium).

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Sono passati ventun anni dall’uscita nelle sale. Nel frattempo tante cose sono cambiate, nel cinema e nel modo di intendere l’action, sono nate nuove stelle e le preferenze degli spettatori sono mutate con l’avvento delle nuove generazioni, per la maggior parte più inclini ad un cinema veloce, istintivo, cool e colmo di realistica CG. Nulla in contrario, ma forse qualcosa l’abbiamo perso per strada, vendendo l’anima di qualche eroe per un pugno di effetti speciali. Già, gli eroi, quelli che sistemavano la situazione con calci e pugni, o con ogni arma a portata di mano, quelli che cercavano di fare la cosa giusta anche se con mezzi non proprio ortodossi, combattuti e combattenti, magari frustrati e sofferenti, divertiti o divertenti. Non gli Iron Man, i Thor, i supereroi e nemmeno i Jack Sparrow, ma gli altri, i John McClane, gli Axel Foley, i John Matrix. E perché no, anche gli Chance Boudreaux, con l’imbarazzante capigliatura mullet di un Van Damme all’apice e nel pieno di un successo a cui forse non era preparato. Hard Target ha qualche difetto, non è perfetto, non è un capolavoro. Ma quando ti si para davanti una scena finale così, diretta da uno dei più grandi registi action in circolazione, tutto il resto può andare bellamente a farsi fottere.

Manuel “Ash” Leale

Senza tregua (Hard target)

Anno: 1993

Regia: John Woo

Interpreti: Jean Claude van Damme, Lance Henriksen, Yanci Butler, Arnold Vosloo, Wilford Brimley, Kasi Lemmons, Marco St.John, Wilford Brimley, Chuck Pfarrer

Durata: 97 min | 73 min (cut) | 116 min (Director’s Cut) | 128 min (Workprint Version)

HardTargetPoster

Cyborg (la versione vulgata)

22 mercoledì Gen 2014

Posted by andreaklanza in action, C, fantascienza, Recensioni di Andrea Lanza, Van Damme

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albert pyun, cyborg, van damme

A rivederlo oggi Cyborg di Albert Pyun è meno orribile di come ce lo ricordavamo, anche se gli evidenti difetti di una storia costruita quasi improvvisandola sulle ceneri di I dominatori dell’universo 2 sono evidenti. Non è storia nuova che il disastro commerciale del film(accio) con Dolph Lundgren e Frank Langella, nei panni rispettivi di He-man e Skeletron, fermò l’idea di un seguito (ma sembra ci fossero anche assegni non pagati alla Mattel per i diritti) anche se erano già stati costruiti dei set per girarlo.

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La gloriosa Cannon di Golan and Globus pensò bene allora di richiamare il regista del progetto abortito (e di Spiderman), Albert Pyun, un autore versatile e veloce, famoso per un fantasy violento ed erotico, La spada a tre lame, e qualche brutta opera per l’Empire di Charles Band (Vicious Lips). Sul set regna il malcontento: al regista hawaiano viene imposta la novella star Jean-Claude Van Damme mentre lui sognava il più quotato Chuck Norris. Il film viene scritto in un weekend e girato in appena 24 giorni, e i produttori gridano al disastro vedendo Cyborg completo ed esigono un nuovo montaggio.

In originale il film è cupo e violentissimo, si ricorda una scena dove Van Damme viene attaccato ad un pozzo con del filo spinato mentre una bambina cerca di non farlo precipitare devastandosi le mani, l’opera si apre con il nostro eroe crocifisso che urla mentre la musica rock sovrasta le grida, il sesso è più marcato così come le morti trucide. Pyun non riconosce l’opera come sua e accusa la star belga di aver spinto i produttori al massacro artistico a favore di un’opera più anonima, ma classicamente action con i calci e i pugni che hanno la meglio stavolta sull’atmosfera. C’è da dire che, se nella versione vulgata si perde molto dell’atmosfera originale, il film ha comunque preziosi rallenti e un personaggio principale meno banale di tanti altri Van Damme movie più famosi e riusciti. I dialoghi poi, pochi e secchi, “Sono bravo a far allontanare la gente da me”, “Ti ho salvato solo perché mi facevi pena” “Odio gli uomini ma amo i bambini”, amplificano la dimensione sottilmente onirica dell’opera, sempre a metà tra narrato presente e passato, donando al personaggio principale quasi un’aurea da western moderno.

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Siamo in quel sottogenere, il post-atomico, che ha come referente più vicino il Mad Max di Miller, ma non solo. Pyun saccheggia a piene mani dal cartoon Ken il guerriero per il suo eroe tormentato in un mondo violento e in rovina. Molte poi le somiglianze, volute, non volute, con 2019 dopo la caduta di New York di Sergio Martino, con la stessa idea di un viaggio per portare in salvo una donna importante per il futuro del mondo.

Il film è comunque ben girato e alcune scene fanno la loro sporca figura come l’agguato dall’alto di un Van Damme in equilibrio nel vuoto solo con la famosa spaccata. Non solo, la fotografia gioca molto con i colori saturi e i filtri riuscendo ad essere iper-realisticamente fumettistica, dimensione nella quale Cyborg si fa perdonare le ingenuità di una sceneggiatura inesistente.

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Del film esistono due seguiti, uno con la non ancora star Angelina Jolie, ma senza Van Damme, e un remake quasi contemporaneo, sempre prodotto dalla Cannon, American cyborg. Questo di Pyun resta il migliore, il primo tassello di una filmografia che vedrà spesso il connubio di calci volanti e androidi in film di un certo culto come Nemesis. Cyborg, come detto, merita una riscoperta perché col tempo appare non il disastro che ricordavamo, ma un onesto B-movie anche nella versione massacrata e buttata in pasto al pubblico di pecoroni.

Nota pessima: il doppiaggio italiano.

Andrea Lanza

Cyborg

Anno: 1989

Regia: Albert Pyun

Interpreti: Jean-Claude Van Damme, Deborah Richter, Vincent Klyn, Dayle Haddon, Alex Daniels, Blaise Loong, Ralf Moeller, Haley Peterson, Terrie Batson, Jackson ‘Rock’ Pinckney, Janice Graser

Durata: 90 min.

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Apocalypse now con spaccata: la saga degli Universal soldier

21 martedì Gen 2014

Posted by andreaklanza in B movie gagliardi, fantascienza, I grandi saggi di Malastrana vhs, Recensioni di Andrea Lanza, Van Damme

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luc devereaux, universal soldier, universal soldier day of reckoning, van damme

Universal soldier, da noi I nuovi eroi, sembrava all’epoca uno dei tanti film costruiti su misura per una delle tante star del cinema d’arti marziali, quel Jean Claude Van Damme, maestro della spaccata e alternativa low budget ai più costosi Stallone e Schwarzenegger. Ad aggravare il tutto la presenza come comprimario, nel ruolo del cattivo di turno, di un altro attore, non propriamente famoso per le sue perfomance shakespeariane, il Dolph Lundgren, ex Ivan Drago del cultone fascio reazionario Rocky IV. Eppure da Universal soldier del 1992 vennero partoriti ben 6 seguiti, 3 per il cinema e 2 per la tv, tutti, negli alti e bassi, assolutamente autoriali e diversissimi tra loro fino al miracolo targato John Hyams dell’anno scorso, il Day of reckoning che ridiscute ogni capitolo portandoci nel cuore di tenebra di una vicenda dalle inaspettate connotazioni filosofiche.

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 I nuovi eroi

L’incontro tra il tedesco Roland Emmerich, futuro regista di Godzilla ed Indipendence day, e la star belga Van Damme è uno dei più felici nella carriera di entrambi. Il primo aveva alle spalle tanti interessanti film scifi (Joey, Moon 44) e il desiderio di sfondare ad Hollywood, il secondo era una stella della serie B ancora in attesa di essere sdoganata nella A. Universal soldier diventa quindi per regista e attore il lasciapassare per film più ricchi e importanti, quei proverbiali “occhi della tigre” che Mickey urlava a Rocky, la fame e la povertà per arrivare al successo. La sfida è quella di girare un grande film con il budget non altissimo (25 milioni di dollari si legge su imdb): la regia, quasi da western fordiano, e l’interpretazione, forse mai come qui convincente, di Van Damme, centrano il bersaglio. Il miracolo riesce anche grazie all’altra incognita, Dolph Lundgren, incredibilmente a suo agio nei panni del sadico e psicotico antagonista, il sergente Andrew Scott.

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Il film racconta della resurrezione, come cyborg, di un plotone di soldati uccisi, vent’anni prima, in Vietnam, armi spietate e senza possibilità di essere uccise, una sorta zombi senza nessun altro stimolo che ammazzare per il proprio Paese. Il problema nasce quando uno di questi (Van Damme) prende coscienza di sè e cerca di disertare, aiutato da una giornalista in brama di Pulitzer. La formula della pellicola è semplice: Robocop più Terminator più mazzate da orbi, vera serie B che non ha nulla però da invidiare per messa in scena e spettacolarità alle produzioni più ricche. La scena iniziale in Vietnam è da antologia con vette di cattiveria abbastanza inusuali (la morte improvvisa di due innocenti), ma non è che dopo il film ci vada meno leggero con omicidi gratuiti e carne dilaniata da coltelli in cerca di microchip.

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Il film, come già detto, è molto ricco a livello visivo con sparatorie esagerate, inseguimenti su autocarri, esplosioni di pompe di benzina e automezzi: di certo è difficile annoiarsi. Non è di certo un capolavoro ma un buon prodotto che servirà a suo scopo: Roland girerà il faraonico Stargate e Van Damme sarà diretto dal poeta del film d’azione, John Woo. C’è comunque una certa amarezza sotterranea nel finale, forse neppure così happy end come sembra distrattamente: come farà a sopravvivere il soldato buono senza la possibilità di refrigerarsi adeguatamente o di usare il tonico muscolare, uniche cure contro una morte di indicibile dolore? Il film non ce lo dice ma nel 1998 arriva il primo seguito, girato per la tv senza Van Damme.

Universal soldier 2: brothers in arms/Universal soldier 3: Unfinished Business

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Van Damme nel 1998 sta cominciando una carriera discendente, ma riesce a mettere a segno alcuni buoni colpi a livello artistico lavorando con registi del calibro di Tsui Hark o Ringo Lam. Quindi, come in passato per altre pellicole (Kickboxer 2), rifiuta il ruolo in quello che doveva essere il seguito de I nuovi eroi, Universal soldier 2: brother in arms. Si pensò che una serie tv, ispirata al film di Emmerich, fosse una buona idea ma purtroppo il progetto, forte comunque di comprimari efficaci come Gary Busey e Burt Reynolds, fallì dopo solo un altro film tv (Universal soldier 3: Unfinished Business) che doveva fungere con questo da pilot. Il prodotto non è per niente male a discapito del suo successo: sparatorie al rallenti come nei film di Hong Kong, ottime scene d’azione e una storia abbastanza interessante che, pur ampliando quella originale vista ne I nuovi eroi, aggiunge personaggi e colpi di scena efficaci. Il regista Jeff Woolnough, con un passato e un futuro solo di prodotti televisivi, mostra per assurdo un occhio cinematografico girando due perfetti film d’azione scifi che nulla hanno da invidiare a pellicole uscite sul grande schermo.

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A convincere meno sono gli attori, a cominciare dal protagonista Matt Battaglia che sostituisce Van Damme, inespressivo e poco a suo agio nei momenti non prettamente d’azione. La trama segue la fuga del soldato Luc Deveraux, inseguito dagli Universal soldiers, e del suo ricongiungimento col fratello anch’esso cyborg, una storia che nel terzo segmento si colorerà di toni da tragedia elisabettiana con i due consanguinei uno contro l’altro. I due tv movie non si risparmiano nè in nudi nè in scene di violenza (coltelli negli occhi e carne dilaniata con crudeltà) e alla fine dispiace questa serie non sia andata in porto. Nel 2011 però arriva la notizia che un nuovo prodotto tv ispirato a Universal soldier sia stato vagliato da un nuova casa di produzione, la FremantleMedia Enterprises. Da quanto è trapelato il nuovo soggetto, affidato a Damian Kindler, autore noto per Stargate SG1, sarà principalmente ispirato al film originale e per smorzare i costi il prodotto verrà girato in Canada. Sulla rivista Variety si anticipava che i produttori sarebbero interessati ad ospitare le due star dell’originale, Jean Claude Van Damme e Dolph Lundgren, nel pilot. Troppo bello? La serie, annunciata per fine 2012, per ora è in stand by e se ne sono perse le tracce. Triste destino quello televisivo per gli Universal soldier!

Universal soldier: il ritorno

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Visto che la serie tv non andò in porto si pensò di vagliare un altro film, questa volta con la star originale Van Damme. Al progetto non parteciparono nè Dolph Lundgren nè il regista Roland Emmerich, si optò per un attore poco noto ma atletico nei panni del cattivo, il nero Michael Jay White, e di affidare la regia ad un ex stuntman con velleità registiche, Mic Rodgers, controfigura storica di Mel Gibson. Mai scelta fu più disastrosa: Universal soldier: il ritorno è il punto più basso raggiunto dalla serie, un meritato flop al botteghino, indecente ovunque lo si analizzi. Si punta ancora di più sull’azione tamarra a base di scene videoclippate malamente con tanto di musicaccia rock sparata al massimo del volume per inebetire spettatore, con il risultato di rendere le sequenze solo più confuse. I combattimenti poi, mal coreografati, sono troppo lunghi e noiosi, un po’ come il film stesso che non supportato da una trama accettabile è un eterno scappa, sparo, combatto, incredibilmente poco appassionante.

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Ciliegina sulla torta una sceneggiatura che scimiotta 2001 Odissea nello spazio con tanto di computer dai sentimenti umani, con l’aggravante di un certo velleitarismo in un film infantile e stupido, pieno di incongruenze e personaggi insapori, capace di trattare la materia kubrickana con la sensibilità più di un boscaiolo che vuole andare a far casino in città. Anche i problemi sorti dalla fine del primo film sul destino del nostro eroe Luc Deveraux vengono liquidati con la frase di circostanza “E’ guarito”, ma i come o i perché di questo miracoloso prodigio (la sconfitta della morte) non ci è dato sapere. Vengono dimenticati i due precedenti tv movie e si riparte da zero, a Van Damme viene data persino un’antipaticissima figlia e ogni tre per due gli sceneggiatori sentono il bisogno di mettere in bocca ai vari personaggi battute cretine o ad effetto, triste retaggio dei clichè da film d’azione anni 80. La curiosità è che Michael Jay White era presente anche nel primo film in un ruolo invisibile come soldato comparsa, quasi una sorta di anello di congiunzione tra le due pellicole. Il film comunque è universalmente disprezzato un po’ da tutti, critici e fan, ed è stato dimenticato nei successivi seguiti. Van Damme oltretutto regala al suo pubblico una performance attoriale imbarazzante, lui che ne I nuovi eroi si era contraddistinto per una buona recitazione.

Universal soldier: regeneration

Per un altro Universal soldier bisogna aspettare 10 anni. A girarlo è John Hyams, figlio di quel Peter che diresse, oltre a capolavori scifi come Capricorn one e Atmosfera zero, uno dei migliori Van Damme anni 90, Timecop. Il budget scende esponenzialmente e il film viene girato in Repubblica Ceca come tanti action del nuovo secolo, segno di un deterioramento del genere testosteronico dagli anni d’oro della Cannon. Van Damme reinterpreta di nuovo il soldato Luc Deveraux, ci si dimentica della figlia avuta dalla giornalista Victoria, e si riesuma un invecchiato Dolph Lundgren come villain.

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Purtroppo il film è sì pieno di buone intenzioni, ma la regia non è all’altezza delle premesse, incapace di camuffare la povertà estrema del set con le esigenze spettaclari di un buon action movie. I due attori se la cavano, ma a fare la parte del leone è un’impressionante caratterista, Andrei ‘The Pit Bull’ Arlovski, capace di trasmettere una furia animalesca nelle scene dove appare. Fa un cammeo il figlio di Van Damme, Christopher, nel ruolo di uno scienziato, ombra del padre (con la bellissima sorella Bianca) in quasi tutte le produzioni vandammiane, ma incapace ritagliarsi una propria dimensione attoriale. Il film comunque, uscito anche da noi al cinema è la prova generale da parte di John Hyams per il vero capolavoro della serie, il quarto capitolo.

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Se il terzo capitolo era il più povero e pedestre, girato, tanto per essere ridondanti nel pauperistico, in Europa dell’Est, questo quarto capitolo possiede una richezza visiva che sublima il budget a disposizione facendo il culo a tanti film miliardari. Che John Hyams non fosse un cretino era agli occhi di tutti soprattutto grazie al suo Dragon eyes, un inedito gangsta kung fu (afro vs coreani vs italiani), brutto, sporco e cattivo è vero, ma, maronna santa, di un virtuosistico nelle scene d’azione da far cadere la mascella per terra.

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Finalmente dopo tanti action anni 90 pulitini ed esangui, proprio nella morte dei generi popolari americani, o almeno nella loro resurrezione da mercato video di Porta Portese, il film d’azione aveva ritrovato la sua dimensione gladiatoria, ossa rotte e nasi sanguinanti, incurante del budget miserrimo a disposizione. Universal soldier: day of reckoning è un passo avanti ancora, quasi un suicidio artistico, un capitolo che c’entra o non c’entra con gli altri episodi, un vaffanculo ai puristi e alla natura prettamente commerciale dell’opera. Abbiamo sempre Van Damme nei panni di Luc Devereaux, soldato/cyborg, ma lo ritroviamo in una nuova dimensione, trasformato nell’anima e nell’aspetto: pelato, sguardo assente, capace di sparare nella prima sequenza ad una bambina davanti ad un padre. Universal soldier gronda sangue e cupezza, osa citare Conrad e Coppola, muta una star di ridanciani film circensi in una maschera da tragedia shakesperiana. Siamo probabilmente davanti al film d’azione più metafisico degli ultimi anni, la dimostrazione che si può fare arte (ancora) attraverso il cinema popolare. Universal soldier butta in faccia allo spettatore le scene di lotta più belle dell’ultimo decennio, sporca tutto con mutilazioni e coreografie tanto realistiche da farti stringere i denti quando un machete si conficca nel braccio dell’eroe di turno (ancora Andrei ‘The Pit Bull’ Arlovski). Psichedelico, intimistico, feroce, virtuosistico fin dalla prima sequenza in soggettiva e via via di piani sequenza impressionanti. Universal soldier: day of reckoning non è solo il non ritorno dell’action vandammiano, ma probabilmente dell’action del nuovo millennio, una follia così accellerata e assoluta che trova le sue radici poprio nella miseria di un prodotto diretto in video con l’anima di un Hard boiled wooiano. E chi ora può accusare Van Damme di essere ancora un cane a recitare? L’attore belga dimostra oltretutto di essere tanto umile da lasciare il posto al vero protagonista, Scott Adkins, l’uomo che è riuscito, tra l’altro, a rendere cult un filmetto di basso profilo, sulla carta, come Undisputed 2. Non cosa di tutti i giorni in un mondo che va a avanti a capricci di star, ex o meno che siano, di gridolini da prima donna che sfociano in progetti così assurdi da essere follia scriteriata come I mercenari 2. Qui siamo in un altro mondo, per fortuna.

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Andrea Lanza

I nuovi eroi (Universal Soldier) – film del 1992 diretto da Roland Emmerich

Universal Soldier – Progettati per uccidere (Universal Soldier II: Brothers in Arms) – film del 1997 diretto da Jeff Woolnough

Universal Soldier – Progettati per uccidere 2 (Universal Soldier III: Unfinished Business) – film del 1998 diretto da Jeff Woolnough

Universal Soldier: The Return – film del 1999 diretto da Mic Rodgers

Universal Soldier: Regeneration – film del 2009 diretto da John Hyams

Universal Soldier: Day of Reckoning – film del 2012 diretto da John Hyams





Kickboxers vendetta personale

05 domenica Mag 2013

Posted by andreaklanza in action, azione, film pericolosamente brutti, Recensioni di Andrea Lanza, Van Damme

≈ 4 commenti

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corey yuen, film di mazzate, kickboxers vendetta personale, recensione, recensioni, rocky 4, russi stupidi, van damme

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No Retreat, No Surrender è uno di quei film che da bambino potevano essere materia di venerazione, soprattutto se eri nato nei meravigliosi anni 80, la decade dei Cobra, dei Commando e dei Rambo.

D’altronde le cose che ci piacevano di più all’epoca, insieme ai mostri che sputavano sangue e bile, erano le pellicole dove si menava più che parlare, e, madonna ragazzi, che sganassoni. Questi erano importanti e basilari elementi che rendevano un film qualunque una vera esperienza di culto. Peccato che Surrender no more fosse una mezza sòla: Van Damme, strillato nella locandina, era presente per dieci minuti massimo, nella parte di un russo cattivo, Karl Andrei, alla faccia che eri più russo te con i capelli neri e il colorito olivastro. Ma non solo: il protagonista era un ragazzino sfigato, ma sfigato sfigato, con problemi di bipolarismo tanto da vedere il fantasma di uno scemo vestito da Bruce Lee che neanche assomigliava a Bruce Lee. Quindi ricapitoliamo: siamo passati da film figo con Van Damme che mena tutti a film sfigoso come Peter Griffin vestito da Alì Babà, una cosa che neanche a raccontarla ci potresti credere, un film con Van Damme senza Van Damme, con Bruce Lee che torna dal mondo dei morti per allenare un ragazzo senza motivo apparente che non fosse la demenza dello sceneggiatore. In più ci si mette pure la distribuzione italiana che importa il film in vhs come Kickboxers – vendetta personale spacciandolo per il seguito del successone Kickboxer che ha consacrato Van Damme insieme a Senza esclusioni di colpi (tutti film posteriori, ma usciti nel Bel paese prima di questa “perla”).

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No Retreat, No Surrender miscela con la grazia di un elefante Karate kid di Avildsen con una serie di idiozie di tutto rispetto che non potete non sapere, il prezzo sarebbe una follia ala Lovecraft. Proveremo perciò a commentarvi nel dettaglio questo film. All’inizio c’è un padre che fa il karate (ehi ma non era kickboxer?) che è bravo bravo, ma arrivano dei russi capitanati da un nanetto tipo Dotto, ma laccato come un italiano nei film di Scorsese, che fuma pure il sigaro alla motherfucker badass, che vuole la palestra del pover’uomo per “conquistare New York”. Ora io mi chiedo ma cazzo se ne fa la mafia russa di una palestra grande come il mio bagno, sporca e senza neanche un attrezzo per allenarsi? Oh Ivan Drago si pompava in un posto che sembrava la Nasa degli atleti non nella bettola della Sora Lella, ma è anche vero non sono un mafioso russo e quindi non ho ben presente i piani di conquista dei bolscevichi contro il capitalismo a stelle e strisce, probabilmente il prossimo passo sarebbe stato “Ehi compagni conquistiamo tutti i chioschi di hot dog di Seattle!”. Mi dico però che siamo in un film americano e quindi i russi un po’ scemi devono essere.

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Ecco questi mafiosi sono tre, il capo più due guardie del corpo, una è appunto Van Damme, ed è proprio Gianniclaudio ancora non famoso, con lo sguardo perso di “devo fare successo devo fare successo” ma la consapevolezza di “chi me l’ha fatto fare?”, che spezza la gamba al padre e pesta il figlio, lo scemotto bruceleeano che vi accennavo poco sopra. Segue il cambio città e ritroviamo la famigliola infelice, composta da padre zoppo, figlio pazzo e madre che si vedrà si o no due volte, ma tanto è un film macho e chissenefrega delle donne, scappata a gambe levate in altri lidi, con la promessa “Basta karate” (ma non era kickboxer ripeto?). Per aggravare le cose il ragazzo è ossessionato da Bruce Lee, roba che non tiene nascosto sotto il materasso della cameretta la rivista Big tits, ma giornali ritraenti il suo idolo a petto nudo.

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Ecco il ragazzo, già da questo, si potrebbe capire non ha le rotelle a posto con l’aggravante di principio di confusione sessuale che viene peggiorata da Mumba o Samba o Abdul, il vicino di casa negro (si perchè è proprio una cosa razzistissima solo a descriverlo) che fa la solita spalla comica, senza far ridere per altro. Questo nuovo personaggio si veste da Michael Jackson sfigato in Thriller, balla la breakdance controfigurato e guarda lascivo il protagonista in una serie di siparietti che si vogliono comici, ma altamente gay, che sfoceranno nella scena davvero incredibile dove vediamo il negretto mangiare un gelato mimando una fellatio sedendosi sul pacco del suo amico che fa flessioni tra due sedie in calzoncini da “Debbie si fa Dallas e pure il Canada”. Ma il peggio deve ancora arrivare, vi giuro, ed ecco che spunta fuori un ciccione malvagio, un ragazzotto che il clichè da Goonies in avanti vorrebbe essere un simpaticone un po’ cazzaro ed invece è un grassone molesto con la voce da castrato.

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Questo personaggio, incredibile e a suo modo geniale, non è rappresentato psicologicamente meglio di “Grande Puffo contro Gargamella”, di lui si sa solo che è circondato da finti amici golosi di cheeseburger e che non sa mangiare nulla senza sbrodolarsi di salsa il viso. Dopo un battibecco con il protagonista del tipo “Ehi Bruce Lee, scappa che scorreggio” e quello di tutta risposta “Uaaaaaaa sono il discepolo del piccolo drago, fatti sotto culone molle”, si scoprirà che il ciccione è un membro della palestra di un gruppo di karatechi cattivi che non esiteranno ad umiliare il nostro eroe. Segue una diatriba col padre zoppo che, continuando senza motivo avercela col figlio, gli urlerà frasi senza senso tipo “Il karate è vita! Non devi fare a botte” con l’idea che dietro questo film ci sia una cellula preistorica di Scientology che vuole minare la vostre certezze di tutti i giorni. Scopriamo qui che il giovane ha una fidanzata, pure bona, e che il capo dei bulli della palestra è innamorato di lei, un certo Dino “spaccaossa” Ramsey. Naturalmente botte da orbi con scene marziali di sodomissione quasi sessuale e il protagonista che corre piangendo dal “suo” negretto.

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Ora voi dovete spiegarmi dov’è spuntata questa fantomatica fidanzata, no perchè io ho visto il ragazzo parlare solo con il suo amico Buana e al max con il ciccione “ti spacco il culo a suon di frittelle”, quindi mai, e dico mai, una sola volta che l’ho sentito citare lei in un dialogo, ma ecco che, sbam, appare per magia, regina dell’eterosessualità (forse) salvata. Vi ricordate vi dicevo che Bruce Lee in carne ed ectoplasma allenava lo sciroccato protagonista? Ecco, un fascio di luce, una porta aperta nell’Aldilà e, musica ambient da brutto kung fu movie, voilà che appare il Piccolo Drago in versione molesta (da’ gli scappellotti al suo allievo, lo inizia ad allenamenti assurdi tipo “ti lego la gamba cerca di volare con la forza della mente” e così via). Intanto però Buana vede il suo amore in preda alla follia allenarsi da solo pateticamente e parlare col vuoto (“Va bene Bruce?”) in una scena che muore e finisce lì in un montaggio abborracciato e dilettantesco. Ma il peggio a livello narrativo sta arrivando, la sagra del delirio: il padre da campione di karate è diventato puliscicesso di un bar per camionisti, ma non solo, anche punching-ball di teppisti in vena di giocare a “io prendo a calci lo zoppo”. L’uomo per un po’ subisce, ma poi si ribella prendendole ancora di più. Ecco che arriva il Bruce Lee psicolabile, due calci, tre urletti, e salva il genitore. Abbracci e baci “Avevi ragione il karate è anche spaccare il culo ai teppisti” e si arriva al momento clou: mafia russa contro l’America a colpi di arti marziali.

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Infatti i mafiosi capitano per sbaglio pure nella nuova città dove si è rifugiata la famiglia del protagonista, addocchiano una palestra a caso, quella del ciccione per intendersi, e dicono “Conquistiamo pure questo pezzo di mondo”. Stavolta però sfidano a duello i migliori karatechi locali: tutti contro Van Damme. Sticazzi dico io, contro Van Damme non si può vincere. Il belga in versione maledetto figlio di puttana russo la prima cosa che fa per dire “Ehi sono Jean Claude Van Damme! Un giorno sarò famoso” è fare la famosa spaccata in versione gradasso. Ma ricordatevi vige la regola del serpente assassino pure qui: puoi essere bravo quanto vuoi, sparare razzi su per il cùo come Godzilla, avere il potere di Crom, ma quando incontri il protagonista diventi scemo per ragioni di sceneggiatura, cominci a menare l’aria, guardare il vuoto con aria sognante e per forza di cose, sbam, cadi a terra. Così Van Damme fa l’errore della sua vita: dopo una grattata di palla e tre sbadigli decide di alzare le mani contro la fidanzata del nostro eroe! Non l’avesse mai fatto! Uaaaaaaaaaaaaaa, calcio volante e il belga è a terra. Non serve togliersi la maglietta per mostrare i muscolacci, Gianniclaudio, sei praticamente già al tappeto. E così accade. Folla in delirio, i russi sono già a Cracovia a parlare con Gorbaciov (“Un altro americano ci ha fatto il culo dopo Stallone”) e palpatine dell’amico Buana mentre il nostro eroe bacia la sua donna. Fine.

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Ma io mi dico: è mai possibile che questo guazzabuglio indecente l’abbia girato Corey Yuen?, uno dei migliori coreografi di scene d’azione di Hong Kong, uno che da regista ha girato almeno tre cult, The transporter, So close, e, il manuale per la masturbazione nerd, Dead or alive con le patatine menanti più arrapanti del globo. No no, io non ci posso credere perchè neanche una scena di questo film rispecchia la sua bravura, dev’esserci un errore tipo che so “Corey Yeun è uscito con due prostitute a chi facciamo girare sto film?” ed ecco che arriva Banjin, il pulisciscale della produzione, che prende la macchina da presa al contrario mentre i produttori sorridendo esclamano “Tanto sempre muso giallo è”.

Però vi consiglio questo Kickboxers perchè è uno di quei film che devi vedere prima di morire, uno di quei film che nella loro cialtronaggine ti fanno amare il buon cinema e rimpiangere tutte quelle pellicole alimentari che ci facevano spanciare dalle risate e che ora, se esistono ancora, sono molto meno divertenti. Chissà saremo cresciuti noi? Eppure Buana un posto nel mio cuore ce l’ha, maledetto piccolo negretto frocio.
Ora mi manca solo di vedere Bruce Lee. Uatà!

Andrea Lanza

Kickboxers – Vendetta personale

Titolo originale: No retreat, no surrender

Anno: 1986

Regia: Corey Yuen

Cast: Kurt McKinney, Jean Claude Van Damme, J. W. Fails, Kathie Sileno, Tai Chung Kim, Kent Lipham, Ron Pohnel, Dale Jacoby, Peter Cunningham, Timothy D. Baker

Durata: 90 min.

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