Nel 1981 Sam Raimi rivoluziona l’idea di Horror con Evil Dead, pionieristico primo capitolo della saga che porterà nel mito il personaggio di Ashley “Ash” J. Williams, il più cazzaro e sbruffone degli eroi, interpretato dal Re dei B-Movie, Bruce Campbell. Il successo del film ne consente l’esportazione e il suo arrivo nel Bel Paese è seguito dal solito dilemma: come adatto il titolo? Siamo abituati da sempre a traduzioni incredibili, ma qui si toccano vette di genialità visto che Evil Dead diventa La Casa. Se qualcuno obietta che effettivamente succede tutto in una baita e che tradurre letteralmente avrebbe fatto schifo, sappia che sì, ha perfettamente ragione, ma comunque è un orribile compromesso. Più che altro perché, da quel momento in poi, moltissimi film horror aventi come location un edificio stregato, maledetto o infestato avranno nel titolo la parola “Casa”. Non fa nulla se non c’entra un beneamato, l’italico adattatore ce l’ha più lungo di voi e se ne sbatte: La Casa 2, La casa 3, La Casa 4, 5 e 7 (già, il 6 non esiste, acquistato come titolo seppur mai utilizzato), La Casa di Helen, Sola…in quella Casa e, per finire altrimenti andiamo avanti tutto il giorno, Chi è sepolto in quella Casa?, titolo italiota di House.
Se non bastasse su quasi ogni locandina spicca lo stesso font e la stessa C a falce, giusto per creare un meraviglioso quanto inutile trait d’union tra film che non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Curiosità a parte, in mezzo alle innumerevoli “Case” ce ne sono poche degne di nota, nel bene o nel male, ma sicuramente una di quelle che spicca è House, ovvero Chi è sepolto in quella casa?di Steve Miner, regista di Venerdì 13 parte II e III, Warlock e Lake Placid. Con il soggetto scritto dal Fred Dekker di Scuola di mostri e Dimensione terrore, il film di Miner è un pezzo d’infanzia, per chi ha già spento un po’ di candeline, e senza dubbio è uno dei degni figli di quegli eighties fantastici e irripetibili che per molti non sono mai passati. Dopotutto è il 1986, anno incredibile che sforna Top Gun, Nove settimane e ½, Il nome della rosa, Platoon, Labyrinth, La Mosca, Velluto Blu, Grosso guaio a Chinatown e basta così altrimenti mi deprimo causa brutale consapevolezza d’invecchiamento. Piccoli fruitori dell’horror crescono, in quei pomeriggi di scazzo adolescenziale o nelle serate dove speravi che i film dell’orrore ti aiutassero nelle conquiste da latin lover dei poverissimi.
Ecco, Chi è sepolto in quella casa? è una di quelle pellicole che si potrebbero erroneamente guardare solo come pretesto, causa anche banalissimo titolo italiano, e nel farlo si compirebbe peccato sacrilego. A dispetto dell’apparenza, infatti, il lavoro di Miner e dello sceneggiatore Ethan Wiley (La casa di Helen, Gli adoratori del male) è qualcosa di stupefacente, in grado non solo di vincere diversi premi, ma di restare quasi indelebile nella memoria degli appassionati di Genere. La cosa curiosa, anche se forse non sorprende, è che complice di questi affettuosi ricordi non è la trama, in realtà altalenante e non priva di buchi, bensì tutto il resto, tra invenzioni visive, intuizioni che non passeranno inosservate nel tempo, solide basi e un folle mix di horror, onirico e grottesco. La storia di Roger Cobb (il simpatico William Katt del mitico Ralph Supermaxieroe), reduce del Vietnam divenuto scrittore, non è di per sé originalissima, ma la sua narrazione è capace di regalare momenti spassosi. Cobb, un matrimonio fallito alle spalle a causa della prematura morte del figlioletto, si ritira nella casa della zia appena morta suicida per scrivere il suo nuovo libro. In quella inquietante dimora, dove anche il figlio era scomparso, si rende conto che la zia aveva ragione e che qualcosa di malefico si aggira per le stanze.
Attrezzi e utensili che svolazzano provando a uccidere, mostri nell’armadio, traumatiche visioni di vita vissuta, un essere in abito da sera che pare uscito da Evil Dead, ma soprattutto un’onirica discesa nelle tenebre attraverso lo specchio rotto del bagno e un finale magari frettoloso, ma che di sicuro lascia il segno. Un segno cazzuto e divertente, intendiamoci, perché se puntate a guardare Chi è sepolto in quella casa? per ammirarne la sceneggiatura, allora forse non avete ben compreso di cosa si tratta. No, per questa volta lasciate stare velleità varie o chissà quali recensioni critiche, questo film pur dimostrando tutti gli anni che ha, e anche di più, è un divertissement che andrebbe rispolverato più spesso: atmosfere che ricordano Evil Dead 2 senza l’imbarazzo del citazionismo becero, tocchi horror anni ’80, umorismo e un’inaspettata profondità nel condurre il protagonista dal suo tragico passato all’accettazione e alla rinascita. Che scritto così pare di vedere un thriller psicologico, ma non temete, al mostro in stile “Henrietta Knowby” con le unghie laccate avrete già sputato un polmone dal ridere. Ad avercene di film così.
Manuel “Ash” Leale
Chi è sepolto in quella casa?
Titolo originale: House
Anno: 1985
Interpreti: Steve Miner Cast: William Katt, George Wendt, Richard Moll, Kay Lenz, Michael Ensign, Mary Stavin, Erik Silver, Mark Silver, Susan French, Alan Autry, Steven Williams, Jamie Calvert, Mindy Sterling, Jayson Kane, Billy Beck
E’ il 1971 quando il cinema spagnolo del terrore partorisce uno dei suoi capisaldi, Le tombe dei resuscitati ciechi. Non si tratta del primo film dell’orrore iberico né del primo esperimento sul genere che compie il suo autore, Amando De Ossorio, ( Malenka la nipote del vampiro era di qualche anno prima), ma del migliore, uno degli horror più suggestivi e paurosi di sempre. Certo la censura di Francisco Franco deve essere aggirata, pena il pedale schiacciato sul freno davanti a idee che diventano solo concetti abbozzati, ma le intuizioni ci sono, le scorrettezze pure, il sangue scorre e i morti senza occhi, come verranno chiamati nel titolo italiano del secondo capitolo, fanno il loro effetto, lenti, inesorabili in cavalcate slow motion, ispireranno non poco il primo Fulci undead. Da qui verranno partoriti ben tre seguiti girati dallo stesso autore, molto meno efficaci ma pieni di idee valide come la chiusa del terzo segmento, il più debole, con l’incedere dei templari in una spiaggia tra le grida delle loro vittime.
Cattivo, anzi cattivissimo finale, figlio dei fumetti EC Comics e dei loro colpi di scena inaspettati e spietati nel trionfo del male. A questi (La cavalcata dei morti senza occhi, La nave maledetta e La notte dei gabbiani) si aggiungeranno dei capitoli spuri come La mansión de los muertos vivientes (1982) di Jess Franco, brutto, porcello, scalcagnato horror con le nudissime Lina Romay e Eva León a fronteggiare dei templari porconi, e l’ancor più orribile trilogia del tedesco Andreas Schnaas, El Retorno de los Templarios (2007), Don’t Wake the Dead (2009) e Unrated: The Movie (2009), tutti e tre oltre la soglia dell’horror più basso, infimo e senza gusto. Senza contare le influenze del cinema di Amando De Ossorio nell’eccellenteLa cruz del diablo (1975) dell’hammeriano John Gilling su sceneggiatura, tra gli altri, di Paul Naschy (Jacinto Molina), e il meno riuscito Le porte dell’inferno (1989) di Umberto Lenzi, sciagurato prodotto della disastrosa serie tv “Lucio Fulci Presenta“.
Inaspettatamente, in questo 2020, arriva un nuovo sequel della saga dei templari ciechi: produzione italiana e regia del famigerato Raffaele Picchio, autore di un film discontinuo, selvaggio e interessante come Morituris, e di altri horror di basso livello ma dalla regia efficace.
A produrre è la neonata Mafarka Film, già artefice nel 2019 di Fuck You Immortality di Federico Scargiali, con una forte dose di coraggio (e sfrontatezza) nel concepire un’opera low low budget che avrebbe richiesto però un minimo di possibilità finanziaria in più. A farne le spese sono gli orribili effetti visivi e l’idea cialtrona di un’apocalisse intuita soltanto attraverso le rovine di un monastero.
Per fortuna il regista Raffaele Picchio, aiutato anche dalla meravigliosa fotografia di Alberto Viavattene, riesce a confezionare un’opera professionale, al di là del budget, molto divertente e ben ritmata, forse non fedelissima al modello primordiale di Amando De Ossorio, ma dotata di una certa freschezza di intuizioni visive.
Mai una volta si sente la pesantezza da prodotto indie italico fatto di scene inutili, dialoghi declamanti e cattiva recitazione. Qui invece gli attori sono tutti molto efficaci, soprattutto il protagonista maschile Aaron Stielstra, già nell’atroce The Blind King di Picchio. Una buona prova generale che conta non solo l’altra interprete, Alice Zanini, intensa e convincente nel suo ruolo da scream queen, ma l’intero cast, capace di recitare in inglese senza far ridere le platee estere come successe tempo fa con Tulpa di Federico Zampaglione.
L’unico, per assurdo, a restare penalizzato è la star Fabio Testi, icona del cinema thriller e poliziesco anni 70, qui in versione sperduta e rimbambita, ridotto a un’assurda comparsa in una sequenza di botte marziali estemporanea, cialtrona, un po’ cretina e inutile, come il suo patetico cameo. Lunga neanche 5 minuti la performance dell’ex divo è così fuori contesto, mal recitata, imbarazzante, per lui e per gli spettatori, che ci si chiede perché non sia stata eliminata a montaggio.
La sceneggiatura, pur non avendo invenzioni narrative degne di nota, già viste, sciatte e comunque già vecchie e risapute ai tempi del primo Le tombe dei resuscitati ciechi, si riscatta per quest’aria di incredibile crudeltà, notevolissima e assolutamente imprevista, tra il Fulci autardiano e il John Carpenter de La fin absolue du monde. In questo, il finale dell’opera, nero e disperato, apocalittico e devastante, un po’ come quello di Knowing di Alex Proyas, è qualcosa di raggelante, unico e impagabile in un panorama indipendente di robivecchi vestiti a lustro che urla, agonizza e risorge in un ultimo tentativo, disperato e bellissimo di essere cinema e non scherzoni per fan.
Curse of blind dead è una bella sorpresa, un film che si spera avrà un minimo di visibilità in più che non sia quello del dvd tedesco tagliato o della sagra della porchetta, pronto ad essere presentato come grande evento. E’ un film, a suo modo colto, che cita subliminale classici come l’Evil dead di Sam Raimi e il ciondolo di Ash/Lisa o La maschera del demonio del sommo Mario Bava, che ha l’intuizione, semplice e geniale, almeno per un horror italico, di costruire una scena cult da applauso scorticamano, che non si frena nel sangue in un’orgia di sangue, mutilazioni e violenza che ti portano stavolta a William Lusting. Tutto bellissimo e, per chi scrive, vincente, anche se sembra che le critiche in generale l’abbiano ammazzato, con stroncature così feroci e immeritate da far pensare ad un odio studiato a tavolino, non tanto per il film quanto per il suo autore, disprezzato da molti per il suo primo film, Morituris. Ad avercene di film come Morituris, aggiungo: un esordio, come detto, non privo di difetti, ma sincero, ben girato e superiore alla media del genere, quegli anni, 2011, ma anche oggi. Sembra però che la misoginia della sceneggiatura e, soprattutto, la violenza verso le donne con scene brutali e insostenibili, abbia risvegliato, più dei censori templari, le ire dei benpensanti. Così Morituris ha fatto breccia nel cuore degli odiatori in buona compagnia con opere potenti come I spit on your grave o A serbian film.
E’ vero poi che i resuscitati ciechi, i blind dead, non sono poi così rispettosi dell’originale deossoriano, nel make up e nelle derive splatter, che la sequenza più iconica che i fan aspettavano ovvero la cavalcata al rallenti è ridotta a pochi secondi, ma, diamine, quando questi mostri cominciano a fare una mattanza con spine dorsali strappate e carne dilaniata a morsi, devi essere proprio uno spettatore insensibile per non esaltarti, uno che dormiva davanti al Dawn of the dead di Romero, che piuttosto che scoparsi Jenna Jameson si mangiava il gelato, un senza Dio, in poche parole.
Curse of blind dead è un treno che ti travolge, ti appassiona, e che ti fa dimenticare persino i difetti, che comunque esistono ma alla fine sono quisquilie in mezzo al divertimento.
Sia dato atto a Raffaele Picchio di aver riportato in vita con così tanto estro un cult stuprato e depersonalizzato negli anni, qui in versione così splendida da richiedere altri seguiti. Stavolta Amando De Ossorio puoi riposare in pace.
Andrea Lanza
Curse of the Blind Dead
Anno: 2020
Regia: Raffaele Picchio
Interpreti: Aaron Stielstra, Alice Zanini, Francesca Pellegrini, Bill Hutchens, Fabio Testi, David White, Jennifer Mischiati, Douglas Dean, Gloria D’Osvaldo, Micky Ray Martin, Sean James Sutton, Giulia Anna Nacca Kapelanczyk, Yoon C. Joyce, Francesco H. Aliberti, Matteo Mucavero
Correvano gli anni ottanta quando James Aviles Martin e George Seminara decisero di sperimentare cosa poteva accadere ad immergere una commedia adolescenziale con tendenze romantiche in uno spesso strato di sangue finto a buon mercato. La reazione chimica che ne risultò non fu certo esplosiva come quella delle mentos nella coca cola, ma sì dimostrò abbastanza divertente, e così, nel 1987, venne alla luce I Was a Teenage Zombie (tradotto senza apparenti motivazioni con I ragazzi del cimitero).
Sei amici che frequentano la high school, dopo una lite violenta, uccidono più o meno accidentalmente il caratteristico pusher Mussolini (che nella versione italiana diventa tristemente Musolino) e, spaventati dall’accaduto, gettano il cadavere nel fiume, pensando di sbarazzarsene. Per loro sfortuna quelle acque rese tossiche da vagonate di rifiuti pericolosi riportano alla vita lo spacciatore, che ne riemerge forzuto e determinato a vendicarsi. Quando Dan Wake(Michael Rubin), lo sportivo e popolare della combriccola, cade vittima dell’incazzato pusher, i suoi amici per salvarsi la pelle, decidono di gettare anche lui nelle acque tossiche e sperare che una volta riemerso in qualità di zombie possa combattere il loro persecutore. Accanto alle dinamiche di fuga e persecuzione che si giocano tra il redivivo pusher e il gruppetto di ragazzi, a farla da padrone è la tenera vicenda personale del povero Dan, che, considerato un incallito sciupafemmine, è invece perdutamente innamorato della compagna Cindy e vive con dolore il nuovo status di non morto, perché sa che potrebbe allontanarlo da lei.
Bisogna ammettere che la mano del regista John Elias Michalakis è tanto grossolana da far sembrare il film quasi amatoriale, gli effetti speciali sono incredibilmente low cost (il passaggio da essere umano a zombie è contraddistinto esclusivamente dalla mutazione del colore della pelle, che diventa verde ramarro), e non passa inosservato l’evidente debito con The Toxic Avenger, cult della Troma (a cui peraltro Michalakis ha preso parte), uscito (e meglio riuscito) appena tre anni prima. Però I was a teenage zombie ha il suo fascino: non ha pretese, appare assolutamente conscio delle sue possibilità (come il regista, del resto, che a quanto pare in seguito si è fatto monaco) e si indirizza più verso il trash e il demenziale che non verso l’horror.
I protagonisti, che rappresentano un po’ tutto il campionario di stereotipi giovanili (con lo sportivo, il ciccione, il nerd e il bullo dotato di moto e giubbotto di pelle), non possono non suscitare simpatia, il cattivo spacciatore tamarro come pochi resta indimenticabile e anche i personaggi secondari hanno il loro carisma (come il saggio amico barista che fa anche un po’ Happy days). I ragazzi del cimitero è un insolito connubio di trash, horror, romanticismo e commedia giovanile, che, aspramente criticato e condannato dai più, è in grado invece di divertire e anche magari di intenerire, rimanendo leggero nei suoi 90 minuti e sfoggiando anche una colonna sonora notevolissima (spicca la ballabilissima e orecchiabile I was a teenage zombie dei Fleshtones).
Alexia Lombardi
I ragazzi del cimitero
Titolo orginale: I was a teenage zombie
Anno: 1987
Regia: John Elias Michalakis
Interpreti: Michael Rubin, Steve McCoy, George Seminara, Craig Sabin, Peter Bush Allen Lewis Rickman, Kevin Nesgoda, Cassie Madden, Ray Stough, Lynnea Benson, Gwyn Drischell, Theo Polites, Steve Reidy, Cindy Keiter, Caren Pane
Nel remake di Rabid, il dispotico e umorale stilista tedesco Gunter, interpretato da Mackenzie Gray, pone un quesito su cui ogni artista dovrebbe soffermarsi prima di iniziare qualsiasi cosa: “Perché continuiamo a ripetere i vecchi trend? Perché diamo ancora vita al vecchio? Stiamo aggiungendo qualcosa di nuovo? Se non c’è anima, non può esserci vita. Quindi, soddisfiamo le masse o creiamo arte solo per quei pochi che osano sperimentarla?”
Le sorelle Soska dopo American Mary, film originale e personalissimo trasformatosi in una peste nociva per il loro curriculum, sono state costrette a mollare ogni ambizione autoriale e accettare un paio di lavori alimentari.
Poi, insperabilmente un giorno si sono trovate a mettere tutte se stesse in quello che è il classico remake commissionatogli da alcuni giovani produttori che a malapena sanno chi sia David Cronenberg.
Il film che loro amano di più del vecchio maestro canadese è La Mosca. E La Mosca è un remake ma allo stesso tempo uno dei film più personali e sentiti di Cronenberg. Quindi il loro Rabid è diventato, almeno nelle intenzioni delle Sorelline, un tentativo di riallacciare il filo con se stesse e la propria poetica.
Il personaggio di Gunter secondo me è un po’ David Cronenberg. Le Soska invece si esprimono attraverso la protagonista, la timida Rose Miller (Laura Vandervoort).
Non fatevi confondere dal loro cameo delle due perfide “malabimbe”: tutta la frustrazione e l’insicurezza delle registe è in Rose; e l’ambiente della moda è il grand guignol di questa autobiografica lotta per sopravvivenza alimentare e soprattutto creativa.
Una sfilata in rosso
Anche dove la femminilità dovrebbe regnare incontrastata, secondo lo stereotipo sessista dei vestiti e della bellezza, le donne si vedono detronizzate da questi esseri ambigui, gli stilisti, che sovente si sentono donne ma hanno pur sempre un pene da farsi invidiare.
David Cronenberg del resto è anche lui un maschio e, certe sue scelte di regia ce lo mostrano chiaramente se lo guardiamo con gli occhi attenti delle due sorelle. In un’intervista, non ricordo quale delle due gemelle lo citi, ci parlano di un momento emblematico nel Rabid originale: “La scena in cui Marilyn Chambers si alza dal letto e va all’armadio. Lei ha solo le mutandine e vuole uscire in caccia, quindi cerca qualcosa da mettere addosso. Ed ecco che vediamo i suoi seni scoperti. David poteva indugiare sulla schiena e non farceli vedere. Un regista donna probabilmente avrebbe evitato di mostrarli perché non c’era ragione. Lui no, in fondo ha ritenuto giusto non risparmiarli perché è pur sempre uomo e un uomo trova in linea di massima valido far vedere un seno, anche quando non ha nessuno peso nella narrazione”.
Le pepate sorelline non vogliono certo confliggere con il loro maestro, ma capiscono che il rifacimento, che è essenzialmente un atto d’amore verso il cinema di Cronenberg, può anche e soprattutto essere l’occasione per dare al pubblico un punto di vista di altro “gender” sulla medesima storia.
E guarda caso è proprio dove la trama aderisce di più all’originale che avviene questa traduzione femminile dei fatti. Mi riferisco alla scena della piscina, per dire. Nel Rabid originale c’è un siparietto un po’ lesbico in stile lotta di donne nella piscina, tra la Chambers e Terry Schonblum. Nel remake le Soska preferiscono mettere nell’acqua un bel “sirenetto” (Stephen Huszar) convertendo il prototipo di “carne da macello” della classica ragazza prosperosa al muscoloso e botulinico attore da fiction pomeridiana.
Siamo ciò che mangiamo
Rose è vegetariana e non mangerebbe mai qualcosa di morto o da uccidere per il proprio sostentamento. Lei soffre nella lotta per sopravvivere in un mondo di grande competizione, la giungla della moda. La sua scelta di cibarsi di cose “organiche” pur di non infliggere dolore al prossimo è coerente ma se non mangi vieni mangiato e la ragazza il più delle volte si lascia mordere e succhiare da colleghe arriviste e un superiore che si diverte a umiliarla quando non la ignora completamente. Sarà la sua trasformazione da brutto anatroccolo a tigre, che porterà Rose, non solo a conquistare terreno negli ingranaggi sociali dominati dalla mascolinità, ma anche a esprimere in pieno se stessa come designer.
Un passeggero oscuro che vuol sopravvivere…
La carne e il sangue aiuteranno Rose a mettere a fuoco l’essenza del tema della collezione di Gunter, lo Schadenfreude, parola tedesca che non ha equivalente da noi, e che significa “godere delle sventure degli altri”.
Da principio Rose è vittima del suo stesso, terribile passato. I genitori sono morti in un incidente d’auto quando lei era piccola. Già all’inizio del film vediamo che nemmeno lei è granché alla guida del suo motorino. Distratta, isolata nel proprio mondo, avanza in mezzo al traffico rispettando il luogo comune della “donna al volante”.
Fuggendo dalla festa dopo essersi resa conto che l’appuntamento con l’avvenente Brad (Benjamin Hollingsworth) è stato combinato per pietà dall’amica Chels (Hanneke Talbot) la povera Cenerentola scappa sul suo motorino e si sfracella addosso a un furgone.
La costante degli incidenti nel film delle Soska è per fare l’occhiolino a Crash, l’abbiamo capito, ma è anche funzionale alla storia.
Badate: potete divertirvi a cogliere nel remake di Rabid gli ester-eggs e gli ammicchi, ma vi assicuro che ogni riferimento sta lì per arricchire la vicenda, è ben integrato alla storia e non si tratta mai di un corollario di strizzatine ruffiane e sterili al fandom del regista.
E riguardo le collisioni tra Rose e le macchine, gli incidenti sono le tappe fondamentali che la porteranno da vittima designata, in uno sposalizio tra carne e tecnologia, a diventare l’iniziatrice di una nuova specie superiore dall’irrefrenabile rapacità parassitica.
Umano per nulla umano
Il luminare dottor Burroughs, interpretato da Ted Atherton, dice che “l’umano” è un concetto di cui bisogna liberarsi se si vuole esprimere il vero potenziale della specie. Non è un caso, però: a mano a mano che Rose passa dalla nuova carne (ormai un po’ frollata come i vecchi articoli di Canova degli anni 90) alla super-carne, ecco che la nostra “umana comprensione” verso di lei viene meno.
Proviamo pietà per Rose prima e dopo l’incidente. Disgrazie, umiliazioni, perdite, malattia e sfregio non possono che sollecitare la nostra pietà verso di lei. L’occhio lacrimevole dell’amica Chelsea è il nostro. Ma non c’è niente come quello sguardo per farla sentire davvero uno schifo.
Poi Rose diventa un essere pericoloso e infettivo, vomita sangue e mastica le chiappe agli estranei; e la nostra empatia nei suoi confronti cala e finiamo per prenderne le distanze. Capiamo che lei non ci riguarda più. È oltre l’umanità. Oltre noi. E di conseguenza ci minaccia.
Il Transumanesimo e la super-carne
La metamorfosi avviene non grazie alle insufficienti tecniche chirurgiche rappresentate dall’ordinario dottor Keloid (Stephen McHattie) ma per merito del Transumanesimo “andante” del brillante e raffinato dottor Burroughs.
Ironica la scelta dei nomi di questi due esemplari “moleriani” all’opposto nella missione chirurgica: Keloid, come il cheloide, ovvero l’ostacolo insuperabile di un intervento plastico, e Burroughs che invece richiama un certo Pasto Nudo e una letteratura che va oltre le allucinazioni con cui convenzionalmente minimizziamo gli scorci oltre le fessure della nostra misera realtà.
Ma è proprio Keloid a contattare Burroughs e comunicargli il caso di Rose; così dice il secondo, ammesso che sia vero. Perché è chiaro che il luminare racconta un sacco di balle, e affianca subito lo spettatore dietro lo specchio/schermo.
Sui miracoli che promette a Rose però non mente. Basta una pastella di cellule staminali avanzate et voilà, la ragazza ha un nuovo volto e un futuro in cui non solo riguadagna la sua integrità facciale ma non ha più nemmeno bisogno dei suoi occhiali da vista. “Ok, spider man!” le dice Chels sgomenta, quando passa a prenderla alla clinica.
La morte di dio e l’eternità staminale
Vi pongo un quesito. Se qualcuno scoprisse il segreto dell’immortalità, credete davvero che i potenti della terra gli lascerebbero diffondere questo elisir a tutti? Certo che no. Il mercato si regge interamente sulla morte; eliminandola ci sarebbe un totale capovolgimento.
Per questo motivo e molti altri che non ci spiega nel dettaglio, il dottor Burroughs è costretto a mettere in scacco il mondo, salvando prima l’aspetto di Rose ma inculcandole il male che lei diffonderà. Non è il miracolo delle cellule staminali avanzate a farlo gioire quando la congeda dalla sala operatoria, ma la consapevolezza che il suo messaggero di morte è pronto; il vampirismo e la pandemia non sono effetti collaterali volti a punire la boria deistica dello scienziato pazzo. È tutto parte di un piano.
Nel film di Cronenberg il Transumanesimo è sotteso, mai citato.
In quello delle Soska è sbandierato alla grande e alla fine trionfa pure. È la magia vera che trasforma una Cenerentola sfigurata come Rose in una dea dei Carpazi.
Secondo Burroughs e i veri transumanisti, la scienza e alla tecnologia sono i soli mezzi che possano rendere l’uomo evoluto oltre i limiti carnali e sapienziali che anche ora, in una società cinica e decadente, continuano a essere mantenuti al loro posto da una putrida morale, un fastidioso idealismo naturalistico e da una dilagante ignoranza.
Per il folle dottore è ora di smetterla di pensare al volere di un Dio superiore che non esiste ma accettare che noi uomini siamo il solo dio e che autorizzando noi stessi, nel profondo e una volta per tutte a sondare l’abisso, potremo sconfiggere la morte e diventare noi i figli dell’eterna notte che future specie caduche e inferiori adoreranno. E Rose Miller, speculare a una certa Carrie White per troppe questioni che non posso analizzare in questa sede, è la nuova Eva della distruzione e della rigenerazione eterna. Bum!
Francesco Ceccamea
Rabid
Anno: 2019
Genere: horror Regia: Jen Soska, Sylvia Soska
Interpreti: Laura Vandervoort, Stephen Huszar, Greg Bryk, Stephen McHattie, C.M. Punk, Hanneke Talbot, Jen Soska, Benjamin Hollingsworth, Mackenzie Gray, Avaah Blackwell, Lynn Lowry, Sylvia Soska, Lily Gao, Tristan Risk, Ted Atherton
Si celebra il matrimonio di Koldo e Clara, due ragazzi innamoratississimi. Dopo il matrimonio, alla festa, qualcosa infetta i festeggiati trasformati in una sorta di demoni sanguinari. Gli sposi, separati, dovranno cercare di sopravvivere. E’ l’inizio dell’inferno.
Ah l’amore! Il cuore che batte veloce e ti perdi dietro sogni che non pensavi di avere. I per sempre, i mai che si riempiono di vezzeggiativi e nomignoli, amoruccio, cucciolotto, tatina, pasticcino. L’amore che si consolida nel fidanzamento e quindi nel più puro degli atti di Dio: il matrimonio. Essere non più una sola unità ma due in una, un po’ come Aiazzone, ma con il gravare del mutuo in banca, dei conti che non tornano, dei bambini che non ti fanno dormire la notte. Ma che importa, tanto c’è l’amore.
E [REC]³ Génesis lo recita film dai primi secondi: quello che stiamo per vedere è una “meravigliosa storia d’amore”. I primi 15 minuti del film sono in linea coi due precedenti capitoli: riprese amatoriali e aria di improvvisazione che preannuncia lo sfociare della tragedia prevedibilmente in versione mockumentary. Ma è dal sedicesimo minuto che vengono cambiate le carte in tavola: la mdp cade e [REC]³ Génesis diventa un vero film con telecamere professionali e montaggio. Diavolo di Paco Plaza, orfano del socio Balaguero! Questo potrebbe pure essere un capitolo spurio, una sorta di Halloween 3 nella saga: pochi riferimenti alla storia principale (se non sublimali come uno specchio che mostra i demoni col design dell’indemoniata del primo film), un calcio alla confezione che svecchia, per assurdo, col tradizionale, la tecnica “giovane”, e tanto, tanto divertimento coatto da sala popolare di un tempo che non esiste più.
[REC]³ Génesis è tutto e di più: grottesco un po’ alla Alex De La Inglesia senza scadere nel parodistico (cosa non facile quando metti in scena un comprimario vestito da SpongeBob apocrifo armato di fucile), violentissimo alla Sam Raimi con corpi dilaniati e fatti a pezzi da una motosega), pieno di momenti cool (il taglio del vestito e la giarrettiera mostrata) ed altri di delizioso patetismo. [REC]³ Génesis è un film in primis citazionista con questi colori caldissimi da horror anni 80, figlio sì di quel Demoni che il cinema dovrebbe ringraziare con un monumento, ma che riesce, grazie alla vivacità degli eventi, ad essere opera originale, mutaforma, eccitante quasi come la sua Leticia Dolero con l’abito da sposa imbrattato di sangue e il braccio amputato.
Il film di Paco Plaza (bravissimo tra l’altro) è qualcosa di meraviglioso e incredibile, con quell’anima spagnola fiammeggiante che è impossibile riprodurre altrove, sia in Francia che in America. Dio benedica questa terra di corride e toreador, di sangue e arena, di chiche capaci di baciarti dopo avere urlato un “te quiero mucho” per poi sfondarti la testa con calci dai tacchi taglienti. Ai ai mi amor! Alla fine si esce dalla visione un po’ frastornati, è vero, ma anche soddisfattissimi, in questo che è, forse, il miglior capitolo della serie, sicuramente il più eccitante, adrenalinico e dalle tante trovate, capace di farci commuovere nel finale come alla fine di un matrimonio.
Andrea Lanza
[Rec]³ – La genesi
Titolo originale: [REC]³ Génesis
Anno: 2012
Regia: Paco Plaza
Interpreti: Leticia Dolera, Àlex Monner, Diego Martín, Javier Botet, Ismael Martínez, Jose Mellinas, Carla Nieto, Mireia Ros, Ana Isabel Velásquez, Carmen Contreras
Avevo 17 anni quando uscì Dellamorte Dellamore ed ero eccitatissimo e incazzato. Eccitato perché leggevo Dylan Dog da ormai 8 anni, da quando, per casi strani del destino, mio padre mi regalò, al mio decimo compleanno, il numero 1, L’alba dei morti viventi. Incazzato perché a Varese il film di Soavi non era uscito e io non mi ero mai spinto, un po’ come Francesco Dellamorte, fuori dal mio acquario, dalla mia palla di vetro che comprendeva la mia personale Buffalora, Marchirolo, e appunto Varese dove frequentavo il Liceo Classico. A Milano non ci avevo mai messo piede, ero un provincialotto, ma Dellamorte Dellamore lo proiettavano all’Odeon, vicino vicino a Duomo.
Avrei potuto, è vero, aspettare l’uscita in vhs, ma no, non ci stavo, io volevo vedere subito il film di Soavi: ero mosso dallo stesso furor di popolo che spingeva gli studenti in piazza Tienanmen… forse. Peccato che in tasca avessi si e no 15 mila lire, e, per treno, metropolitana e biglietto del cinema, me ne servissero altre 5000. Decisi di tentare quindi la strada della pietas dell’accattone e cominciai, nei pressi della stazione di Varese, a chiedere soldi per raggiungere l’agognata cifra. Naturalmente nessuno mi aiutò, non avevo d’altronde al mio fianco scimmiette col piattino, non sapevo cantare e i miei capelli lunghi potevano far credere che avessi bisogno solo di una dose di eroina. Eppure, quando le speranze erano perdute, arrivò lui, il mio mecenate, il mio Silvio Berlusconi come neanche fossi un’olgettina bramosa di successo, il Paperon De Paperoni di Cavaria con Premezzo, Luca, un mio amico che, mosso a pietà, mi prestò i soldi. Ovviamente, a distanza di quasi 25 anni, mi ricorda ancora le 5000 lire che non vide mai più e io, con un sorriso, a metà tra il guascone e la supercazzola, mi fingo morto, lingua fuori e zampe all’aria, perché alla fine non voglio spezzare la magia di un miracolo con la bassezza di un debito saldato.
Comunque arrivai a Milano, cercando di non perdermi, cappotto lungo alla Nathan Never, ed entrai a film iniziato, ma entrai, questo è importante perché per me Dellamorte Dellamore era un evento, una pellicola che aspettavo da anni, anche senza Dylan Dog.
Avevo comprato anni prima il romanzo di Tiziano Sclavi e l’avevo consumato: letto e riletto, affascinato, innamorato come davanti ad una bella donna. 100 pagine o poco più che avevo finito in un giorno per poi ributtarmici ancora con quella fame compulsiva che hanno gli adolescenti davanti alle cose che amano. Così come l’Evil dead di Sam Raimi era il film perfetto, il libro di Sclavi lo era, per me, nella letteratura con un personaggio frastagliato, ironico, psicolabile e sempre fuori luogo come mi sentivo io, ragazzino balbuziente, in balia del mondo e dei miei amori disperati, bellissimi e mai corrisposti, un po’ come la Lei che fa battere il cuore di Francesco, becchino di un cimitero alle prese con un’invasione di ritornanti/zombi. Ostcia.
Dellamorte in un fumetto mai uscito disegnato da Claudio Villa
Quindi l’idea di vedere quella storia al cinema, oltretutto diretta da un regista come Michele Soavi, un talento visionario che aveva saputo rendere poesia quello che sulla carta era solo un banale slasher, uno che aveva diretto quel gioiello sottovalutato de La setta, beh era un sogno che diventava realtà.
Quello che non sapevo era che tutto il cinema di genere che amavo, quello dei Fulci, dei Lenzi e dei Massaccessi, dei polizieschi alla Peckinpah di Sergio Martino e delle Case 4, degli alien 2 sulla terra e dei ripoff di Bruno Mattei, brutti ma bellissimi, sarebbe finito proprio con Dellamorte Dellamore. Dopo nulla sarebbe stato lo stesso: i film popolari sarebbero spariti su grande schermo per affacciarsi timidamente nella versione for dummies in tv, i grandi autori avrebbero spirato gli ultimi o si sarebbero, come per Dario Argento, depersonalizzati in una orrida versione da ultracorpo, i registi horror erano sempre meno horror, ci sarebbe stata l’ecatombe degli indipendenti/amatoriali, ma anche, nella resurrezione alla Shadow, quel cinema nostalgico era diventato delle amabili spoglie, si poteva solo piangere e rimpiangere mentre i nostri capelli diventavano selvaggi e poi bianchi. Con Dellamorte Dellamore si chiudeva un’epoca.
Non mi piacque quanto il libro il film di Soavi, era inevitabile, ma lo trovai comunque meraviglioso, soprattutto visto su uno schermo gigante e la pellicola 35 mm. Col tempo l’ho ancora più apprezzato come si fa davanti ad un vinello invecchiato o ad una donna che, con gli anni, trovi affascinante anche con le rughe e la bellezza imperfetta dell’età.
Forse non mi era andata giù, all’epoca, che tutta la seconda parte del romanzo era stata eliminata ma, col senno di poi, era una scelta inevitabile per un film che era chiaro comunque sarebbe stato un kamikaze suicida nel cinema di massa.
Dellamorte Dellamorte era quello che il pubblico, trascinato dalla scritta imponente sui cartelloni, “dall’autore di Dylan Dog” con i caratteri del fumetto ben riconoscibili, non voleva vedere: troppo grottesco, troppo intellettuale nei rimandi a Magritte e ai suoi amanti, all’isola dei morti di Böcklin, troppo strano, scorretto e disperato, horror ma senza sangue, ironico ad un passo dalla parodia, un alieno che non rispettava i canoni del cinema di paura ma enfatizzava gli elementi sotterranei del personaggio dell’investigatore dell’incubo, non più castrato dal formato Bonelli ma puro Tiziano Sclavi senza censure preventive.
Per questo Dellamorte Dellamore non fu un successo, forse crebbe come cult movie sotterraneo negli anni, sicuramente si pensò ad un assurdo numero 2 ma finì lì in quell’apparizione unica e irripetibile su grande schermo.
Eppure, a distanza di 25 anni dal 1994, resta un film splendido con i difetti che ora non sembrano più tali e una messa in scena potente e meravigliosa, la cosa più elegante vista in un horror che probabilmente non sapeva di essere d’autore ma lo era, chiaramente lo era, ma senza la spocchia del cinema alto, anzi con i liquami e gli umori delle pellicole basse “degenere” più che di genere.
Funziona la sceneggiatura di Gianni Romoli con l’intuizione fantastica del finale surreale e della strada che non conduce a nulla, dell’assurdo cambio di ruolo tra il protagonista e il suo assistente mentre la neve che copre la palla di cristallo ti lascia muto, imbecille e incredulo, anche a te, spettatore, che chissà quante Buffalora hai cercato di lasciare alle spalle senza mai riuscirci.
Forse le battute, d’effetto, a volte esageratamente fumettistiche, sono di troppo, ma, che cazzo, 25 anni fa le ripetevi davanti ai tuoi amici che al cinema non c’erano andati (“Ex sindaco” Baaaam!) generando invidia e risate, e, nel 2019, restano comunque deliziose, impossibili da togliere senza snaturare il prodotto.
Sclavi non era stato chiamato per scrivere la sceneggiatura, questo forse il peccato maggiore, ma c’era comunque tanto Sclavi dentro Dellamorte Dellamore, un film nato da un libro che si presentava già perfetto per il cinema con la scrittura vicina alla sceneggiatura, con i suoi movimenti di macchina come se da lì a poco dovesse essere diretto.
Michele Soavi è all’apice della forma e gira sequenze che ricordano meravigliosi quadri, non solo quando, come nel caso del bacio col sudario, cita i maestri pittori. Restano impresse nella memoria i fuochi fatui che spiano gli amanti, gli zombi di putrefazione e mandragola, la luna gigantesca sul corpo nudo della Falchi, la morte stracciona, le puttane che illudono gli innamorati, e la camera spietata che gira intorno a Dellamorte mentre, sorridendo, la donna che ama gli rivela che sposerà un altro.
Poi c’è lui, Rupert Everett, il Dylan Dog perfetto fatto carne, che attraversa la pellicola come Alain Delon ne La prima notte di quiete, sigaretta sul labbro e sguardo da cane bastonato come quelle vecchie star di Hollywood che, arrivavano in Italia, a Cinecittà, per vivere l’ultima fase della carriera, quella dei non kolossal sul viale del tramonto. Il suo Francesco Dellamorte è perfetto, la sua interpretazione tocca corde di emotività incredibili, è forse l’esempio più eclatante di un ruolo minore nella filmografia di un attore impegnato, tra James Ivory e Paul Schrader, che diventa una, se non LA prova migliore della sua intera carriera.
Anna Falchi è sì una bella statuina, ma è anche lei eccellente nel ruolo anzi nei ruoli della donna idealizzata dal protagonista: bellissima, con due seni che sono un inno a Dio anche nel silicone, e un corpo burroso che ti facevano innamorare a 17 anni e che, a 43, scopri di non avere mai smesso di sognarla. Lei, l’amore, la donna, viene resa perfettamente dalla recitazione grintosa dell’attrice, quasi una sorta di rivalsa verso il pubblico che non l’ha mai considerata, forse a torto, una brava attrice, ma che qui vive, muore e inganna come le grandi dive, le divine vampire del cinema muto, le femme fatale dei noir, le bionde di Hitchcock e del doppio ruolo alla Vertigo.
Gli effetti speciali di Sergio Stivaletti sono molto buoni, ma pagano un budget forse non così elevato, soprattutto nella sequenza della testa di una ragazzina che, come ne Il pifferaio di Hamlin, segue, grazie a fili purtroppo ben visibili, con poca presa scenica il bravissimo François Hadji-Lazaro nei panni del povero Gnaghi, assistente ritardato del protagonista. Per il resto però quando si tratta di mettere in scena gli zombi, anche nella variante fantasiosa di un morto vivente fuso ad una moto, sulla falsariga di Cronenberg o del Nightmare 5 di Stephen Hopkins, l’artista romano compie un eccellente lavoro, competitivo, come ai tempi del Demoni di Lamberto Bava, con le produzioni a stelle e strisce.
La parte del leone però lo fanno soprattutto le splendide musiche di Manuel De Sica: struggenti e immersive, una delle prove migliori del musicista scomparso nel 2014. Basti vedere la sequenza dove i boyscout si risvegliano commentata dallo score elettronico dell’autore: la scena già concitata da sola, acquista toni epici inespressi dalle immagini.
Dellamorte Dellamore resta un’opera, a distanza di un quarto di secolo dalla sua uscita, eccezionale, ancora migliore di come è stata percepita all’epoca, un film ricco di spunti, scritto in stato di grazia e diretto bene come mai prima (o dopo) da un inventivo Soavi. Alla fine, più che Negan o Dylan Dog, se ci pensiamo bene, siamo tutti stati, o siamo ancora, Francesco Dellamorte, confusi e innamorati, spauriti e non capiti tra morti viventi e vivi morenti, incerti cosa sia davvero il nostro destino, a 17 anni come a 43.
Andrea Lanza
Dellamorte Dellamore
Anno: 1994
Regia: Michele Soavi
Interpreti: Rupert Everett, Anna Falchi, François Hadji-Lazaro, Barbara Cupisti, Stefano Masciarelli, Mickey Knox, Fabio Alberici, Anthony Alexander, Katja Anton, Elio Cesari, Pietro Genuardi, Flavio Marti, Fiorenzo Marsili, Claudia Lawrence, Micha Kopman, Maddalena Ischiale, Fabiana Formica, Mariaelena Fresu, Rinaldo Zamperla, Alessandro Zamattio, Maurizio Romoli, Patrizia Punzo, Clive Riche, Vito Passeri, Sandro Prati, Tiziano Nardoni, Daniele Mezzoprete, Gianluca Gennaro, Francesca Gamba, Stefano De Tomassi, Renato Donis, Simone Ervini, Marco Fiorentini
Nel 1971, negli States, uscirono, nel circuito dei drive-in, il truce La rabbia dei morti viventi (I Drink Your Blood) e I Eat Your Skin. Era prassi per le pellicole più infime di usare la formula un biglietto/due spettacoli; così successe sia per i bevitori di sangue che per i mangiatori di pelle, lanciati dall’accattivante strillo sulla locandina, “Two Great Blood-Horrors to Rip Out Your Guts!”, quindi lo spettatore era avvertito, si trattava un doppio show che prometteva di strappare le budella allo spettatore.
Nessuno arrapato teenager da drive-in venne ovviamente eviscerato, ma la cosa più buffa era che, se La rabbia dei morti viventi soddisfaceva la voglia di zombi e budello, così non faceva I Eat Your Skin, una pellicola spensierata in bianco e nero, poco violenta e senza neppure la sequenza tanto attesa dal pubblico: il pasto orribile a base di pelle umana.
C’erano voluti ben 7 anni prima che questo film potesse trovare la via della sala cinematografica, snobbato un po’ da tutti, non troppo estremo per essere venduto, e troppo sciocco per diventare un cult tra il pubblico. In più non lo aiutava il bianco e nero, una follia nel 1971.
lntervistato dal critico cinematografico Bryan Senn, il regista Del Tenney ammise candidamente che I Eat Your Skin non era un buon film (” Non mi piaceva molto, ho sempre pensato che fosse una cazzata“). Non fu comunque un horror facile da girare: i problemi incominciarono quando la Twentieth Century-Fox, interessata a distribuire l’opera, impose categoricamente alla produzione di assoldare persone iscritte al sindacato, pena l’abbandono del film. Del Tenney, infiammato dal sacro fuoco dell’arte pura, non accettò e il film andò incontro, da vero kamikazen, al suo olocausto personale (“Tutta quella gente era lenta e poco collaborativa perciò mi sono impuntato“). Si sforarono le due settimane di rito per le riprese a causa di un terribile uragano, un presagio da vero film maledetto. A questo si aggiunsero altri problemini, malattie contratte e vari serpenti che avvelenarono diversi membri del cast. Forse era un segnale dal cielo: Dio non amava i mangiatori di pelle.
Quando le riprese terminarono, senza più nessuno interessato a distribuire I Eat Your Skin, Del Tenney aveva buttato via circa 120000 dollari. A nulla era servito ingannare alcuni investitori, poco propensi al cinema horror, vendendo il film come Caribbean adventures, quasi fosse un avventuroso esotico, e non col vero titolo di lavorazione, Voodoo Blood Bath. In qualsiasi caso la troupe non si spostò mai ai Caraibi ma girò il tutto a Miami Beach e Key Biscayne in Florida. Alla fine, quando visse la sua prima nei drive-in, Del Tenney lo vendette al distributore Jerry Gross ad appena 40000 dollari perdendoci moltissimo. Per tornare alla regia poi il nostro, da quel lontano 1964, dovette attendere quasi 40 anni quando nel 2003 firmò assieme allo sceneggiatore Kermit Christman il brutto Descendant con William Katt.
C’è da dire che il film, nel 1971, era non solo vecchio, ma praticamente un reperto storico: grazie, o in questo caso per colpa, di George Romero e del suo The night of living dead, la figura dello zombi era stata completamente ripensata. Il pubblico aveva dimenticato, o comunque non li ricercava in sala, i morti viventi classici, quelli della tradizione haitiana, schiavi lobotomizzati usati per lavorare senza sosta nei campi o diventare lo strumento di vendetta di uno stregone. A questi guardava I Eat Your Skin, ai cult anni 30/40 di Victor Halperin e Jacques Torneau, capolavori datati come Ho camminato con uno zombi e White Zombi. Il pubblico invece chiedeva ad alta voce cadaveri affamati di carne umana, film shockanti e color sangue anche nel bianco e nero più freddo di La notte dei morti viventi.
I Eat Your Skin partiva poi come il classico clone di James Bond con persino lo stesso albergo, il Fountainbleu Hotel di Miami di Agente 007: missione Goldfinger, per poi ovviamente trasformarsi in altro, un’avventura horror con voodoo e zombi.
Il protagonista Tom Harris, interpretato da William Joyce al suo unico ruolo da protagonista in una carriera iniziata nel 1954, uno scrittore donnaiolo dalla camicia perennemente sbottonata (quando non è a petto nudo), incarna lo spirito di un’opera un po’ frivola, veloce, a suo modo divertente.
D’altronde, non dimentichiamo, che il nostro eroe dalla patta sbarazzina sull’isola voodoo non vuole andarci. Come dargli torto? Storie sanguinarie, morti viventi, pericoli, poi il suo agente letterario gli confida “Un tornado ha ucciso quasi tutti gli uomini. Le donne sono tantissime e aspettano solo te”. Il nostro alla parola donne è già con la valigia in mano. “Si parte allora?”. Diavolo di un Tom Harris!
C’è da dire che il film ha un paio di sequenze di un certo pregio, non ultima la scena di apertura con un’ipnotica danza tribale e una mora ballerina, in azzardata lingerie, pronta ad essere sacrificata insieme ad una capra.
Certo I Eat the Skin ha un certo nonsense di fondo che lo rende oltre il cretinismo, ma non sfocia mai fortunatamente nel demenziale sciocco e molesto come per esempio capitava in un altra pellicola non dissimile, Bela Lugosi Meets a Brooklyn Gorilla, con però uno scimmione canterino al posto degli zombi.
Cobra atomici
Il territorio è quello dei classici low budget del terrore: un luogo esotico, un dottore artefice di terribili esperimenti, una bella in pericolo e l’eroe pronto a salvare la situazione. Potremmo imbatterci, nella peggiore dell’ipotesi in Bride of the Monster di Ed Wood, un B movie, anzi uno Z movie inconsapevolmente sublime, ma per fortuna siamo davanti ad un’opera modesta ma divertente, non un cult movie certo ma che merita un’occhiata.
Il punto forte poi sono gli zombi: armati di machete, implacabili, altissimi colossi di colore, anticipano, ben 26 anni prima, nel make up, il deliranteIl cacciatore di uomini di Jesús Franco del 1980. Del Tenney azzarda persino una scena di decapitazione senza stacchi, nulla di che secondo gli standard moderni ma si apprezza, per l’epoca, lo sforzo di osare in campo shock.
Il trucco dei non morti è semplicissimo: farina d’avena spalmata e due uova al posto degli occhi. Molti hanno storto il naso, ma quando I Eat The Skin ci mostra una trasformazione live di un povero sventurato, creata ovviamente con modeste dissolvenze, l’effetto non è dei più disprezzabili, anzi.
Jess Franco e gli zombi di I Eat The Skin
A creare questi cadaveri viventi, come prassi vuole, è un dottore, Robert Stanton al suo unico ruolo, che, nel tentativo di curare il cancro grazie a degli esperimenti su dei cobra atomici, ottiene come effetto secondario la creazione degli zombi. Se pensiate che sia abbastanza cretina l’idea dei serpentoni radiottivi, in perfetto clima di paranoia americana da atomica, dovete sapere che sulla Voodoo island si balla, ci si diverte, si tromba, a patto che non ci siano bionde sennò voodoo, macheti assassini e sacrifici umani. Indovinate di che colore ha i capelli la figlia del dottore interpreta da Heather Hewitt?
Miss Vermont 1957
Il vero cattivo del film però è un aristocratico che, come tutti i B movie un po’ cretini, vuole conquistare il mondo grazie agli zombi del Dottor Biladeau, un piano che prevede la marcia dei non morti con casse di esplosivo in mano verso non si sa dove, Washington, la casa bianca, boh. Non chiedetelo al malvagio Duncan Fairchild, interpretato da Dan Stapleton nelle duplici vesti di produttore e attore per la prima e unica volta nella vita, perché sicuro vi risponderà con una risata malvagia. Questi cattivi sono così geniali e criptici nelle loro bieche intenzioni.
L’idea della cassa di esplosivo è la scusa per forse l’unica scena davvero memorabile della pellicola, quella che potrebbe far smascellare lo spettatore sonnacchioso: con un baule in mano con scritto a lettere cubitali, come nei cartoni Warner di Bugs Bunny, Explosive, uno zombi marcia alla cieca sulla spiaggia, trova davanti a lui un elicottero, ma sapendo andare solo in linea retta, come un brutto gioco per cellulare, viene fatto a pezzi. Vi immaginate questo piano così perfetto ed elaborato nella testa del cattivissimo Duncan Fairchild che viene sputtanato da un gruppo di zombi un po’ pasticcioni che deflagrano davanti a qualsiasi ostacolo sulla loro strada? La via per Washington è lunga, my friend, e io la vedo dura.
Gli attori sono quello che sono, ma spicca per bellezza Heather Hewitt, Miss Vermont 1957 ad un passo da essere Miss America. Dopo questo film passeranno ben 15 anni prima che la ragazza ormai donna torni a calcare le scene, stavolta del piccolo schermo, con il primo episodio di Un uomo chiamato Sloane, spy story di scarso successo dalla vita breve.
I Eat Your Skin non è certo una visione imprescindibile, ma è un film che sa intrattenere e non annoiare.
Da noi è arrivato grazie alla Freak video col titolo Il voodoo dei morti viventiin un’edizione ottima, sottotitoli e video sfavillante, forse un po’ troppo per un film scacciapensieri, ma, che diavolo, non di solo buon cinema può vivere il cinefilo!
Interpreti: William Joyce, Heather Hewitt, Walter Coy, Dan Stapleton, Betty Hyatt Linton, Robert Stanton, Vanoye Aikens, Rebecca Oliver, Matt King, George-Ann Williamson, Don Strawn
Umberto Lenzi era molto entusiasta di questo suo Demoni 3. Almeno a parole.
Sulle pagine del fondamentale Spaghetti nightmares di Luca M. Palmerini e Gaetano Mistretta dichiarava:
“Ho lavorato intensamente per tre mesi su Black Demons, un horror che ritengo senza dubbio il mio capolavoro (…) girato in presa diretta americana.Parla di alcuni schiavi negri uccisi un secolo fa in una fazenda i quali, riportati in vita per mezzo di una macumba girata “dal vero”, si vendicano di chi ne causò la morte“.
Quindi un horror con un rito voodoo autentico, una pellicola maledetta, stando sempre a sentire i racconti del suo autore.
“Le riprese sono state abbastanza pericolose (sul set successero anche delle stranezze…) e l’effetto che la macumba provoca sulle nostre coscienze e sulle nostre credenze religiose, pur senza mostrare dettagli “gore”, è molto impressionante“.
Tutte belle parole, senza dubbio, in un periodo, quello d’inizio anni 90, privo di internet, dove molti nostri horror stentavano ad uscire e tutto era lasciato nella leggenda, nelle tv private e nei deliri, un po’ supercazzoloni, dei nostri autori caduti in disgrazia.
Stento a credere, a film visionato, che Lenzi, da giusto rompipalle old school come era, credesse davvero che Demoni 3, o Black demons come recitava il titolo originale, fosse non tanto “il suo capolavoro“, ma anche solo un’opera decente. Erano però quelli gli anni, miserabili e accattoni, che vedevano il cinema del nostro Umberto migrare nel Terzo mondo per una serie di orribili pellicole, soprattutto action avventurose. Alcune di queste, come nel caso del nostro Demoni 3 o di Caccia allo scorpione d’oro, entrambe del 1991, Lenzi le aveva prodotte, a zero budget, con una sua società, quindi parlarne male sarebbe stato sicuramente controproducente.
Inutile poi dirlo, lo sanno anche i sassi ormai, ma ribadiamo l’ovvio: Demoni 3 non è il secondo seguito del meraviglioso Demoni di Bava e Argento, ma un’opera che solo in Italia, nella sua uscita quasi subliminale in vhs per la Center video, si appropriava, alla cazzum, di un titolo che non sarebbe mai stato girato per davvero. Mentre Demoni 3, il vero, aveva preso la forma, diversissima e autorialmente soaviana, de La chiesa, il furbesco mercato home video cercava, grazie ai Black Demons di Lenzi, di accaparrare qualche gonzo per un noleggio. Erano gli stessi che affittavano tutti esaltati il Terminator 2 di Mattei per poi tornare incazzati in videoteca con la rabbia del truffato che non sapeva di esserlo stato.
Ormai era da tempo che il cinema di Lenzi aveva perso non solo la dignità, ma anche la capacità di essere un grandioso, rozzo e spettacolare divertimento popolare come ai tempi, non lontanissimi, di Incubo sulla città contaminata, di Cannibal Ferox o de La casa 3 (Ghosthouse). Il canto del cigno per il regista era stato il meraviglioso (e sfortunato) Hitcher in the dark (Hitcher 2- Paura nel buio) del 1989, ma, prima e dopo, c’erano state solo pellicole misere, miserabili e di rara brutta fattura come il Cop target con Robert Ginty e Charles Napier, o Le porte dell’inferno, sorta di brutto epigono dei resuscitati ciechi spagnoli. Lenzi e il suo cinema erano diventati all’improvviso sciatti e senza nerbo, uno spettacolo umiliante sia per il regista che, soprattutto, per gli incauti spettatori.
Demoni 3 è scritto male, girato peggio e interpretato da cagnacci che si agitano tutto il tempo, un vero incubo su pellicola.
Difficile davvero salvare qualcosa, non i dialoghi che fanno pronunciare ai protagonisti almeno 100 volte la parola “negro”, non la tensione che non esiste e neppure gli effetti speciali, ai limiti dell’amatoriale.
Anche la tanto declamata “macumba ripresa dal vero”, se davvero originale, ma dubitiamo, manca di pathos e di palpabile orrore esotico come invece si percepiva, per assurdo, nei porno horror caraibici di Joe D’Amato.
Lenzi sembra sperduto in un film che non sa come andare avanti e che plagia fin troppo Zombi 2 anche nella riproposta di un finale risolto a colpi di molotov. Il modello Fulci poi è palese negli omicidi con gli occhi che schizzano dalle orbite come succedeva, in meglio ovviamente, con la meravigliosa Olga Karlatos nella pellicola del 1979.
Per il resto Demoni 3 è anche noiosissimo, con un body count di appena 3 persone e l’idea, sciagurata, di una tensione che ricorda tanto i cartoni animati Hanna e Barbera di Scooby Doo con gli zombi che stanno per accoltellare qualcuno alle spalle, silenziosi come ninja, poi al minimo rumore si nascondono, dove ovviamente non si sa. Una sequenza questa, ripetuta più volte, e che, più che accendere la paura, fa nascere un sorrisino spontaneo, la morte per ogni horror.
In più, come tutti i film scemi, i protagonisti, in pieno assedio dei morti viventi incazzati, perdono il tempo a battibeccare tranquilli con dialoghi dementi, a dividersi in una casa che da tre stanze ora sembra un castello, e ad urlare senza motivo al nulla mentre, probabilissimo, gli zombi saranno andati a giocare a briscola.
Lenzi, in complicità con la moglie Olga Pehar, però ci insegna che il Brasile è un posto orribile, nel quale i camerieri vengono pagati per un mese di lavoro 500 cruzeiros, sulle 300000 lire vecchie, tanto quanto una bottiglia di vino pregiato, e, oltre ad essere chiamati “negri”, vengono sfottuti, presi a calci in culo e umiliati anche da quelli che dovrebbero essere, sulla carta, i protagonisti, i buoni. Il livello di razzismo in un film non toccava probabilmente punte così alte dai tempi del Ku Klux Klan.
Si salva il make up degli zombi, minimale ma efficace, e alcune sequenze che, prese a parte, sono potenti come l’evocazione dei morti viventi in un cimitero che prende fuoco. Anche la fotografia di Maurizio Dell’Orco con i colori saturi di un Brasile caldo e umidiccio non è male, mentre le musiche di Franco Micalizzi sono un plagio vergognoso di quelle composte per le case apocrife da Carlo Maria Cordio. In quest’aria di cialtroneria dilagante ci si mette anche la copertina, bellissima comunque, che presenta 7 zombi quando in scena ce ne sono solo sei.
Gli attori, come già detto, sono uno peggio dell’altro, antipatici per di più. Peccato perché altrove, almeno Joe Balogh, in Paura nel buio sempre di Lenzi e nel bellissimo (s)cult Monstruosity di Andy Milligan, si era rivelato un attore tutto sommato capace ed efficace, ma qui, come tutti, sembra sotto l’effetto devastante del valium in una recitazione sempre sottotono e apatica.
Scooby Doo
Non ci sono neanche le tette di rito che avrebbero alzato l’asticella almeno della serie B più cafona. C’è da dire che i 6 “negri” viventi, per dirla alla Lenzi, fanno una certa impressione quando entrano in scena, con le catene ancora ai piedi, armati con oggetti comuni che diventano nelle loro mani strumenti di morte violenta. Peccato che poi, alla fine, anche quest’idea di zombi, un po’ diversificata dai mostri cannibali alla Romero e Fulci, non viene mai sviluppata con convinzione.
Demoni 3 è uno di quei film che nascono e, per fortuna, muoiono in vhs senza possibilità di lasciare un ricordo alle future generazioni. Il (bel) cinema italiano del terrore non è di certo qui di casa.
Andrea Lanza
Demoni 3 (Black Demons)
Anno: 1991
Regia: Umberto Lenzi
Interpreti: Keith Van Hoven, Joe Balogh, Sonia Curtis, Philip Murray, Juliana Teixeira, Maria Alves, Cléa Simões, Justo Silva, Rita Monteiro
Gli anni 80 sono stati un periodo di estrema creatività per il cinema fantastico italiano, una decade che ha visto in poco tempo l’ascesa e la caduta di maestri del genere, dai Fulci e Argento migliori e quelli più sbirulini, poi i grandi Mattei che coincidevano nel miserabile, i Lamberto Bava pre Melevisione, senza dimenticare i Lenzi e le tette di Zora Kerowa, e quei nomi che nessuno cita mai come Marcello Avallone e l’immenso Maya.
Il mitico Aristide
Aristide Massaccesi ha girato nella sua carriera milioni di film, stando a imdb ben 197, ma contando le regie non accreditate, quelle incerte come il dubbioso Jailbird Rock del 1988, la lista sicuramente lievita. Il più delle volte dalla critica più nobile viene ricordato solo come un prolifico artigiano, a volte un eccellente direttore della fotografia, di certo non un bravo regista e questo è sbagliato. Non che i suoi film, la maggior parte, non fossero tirati via, con errori, più che di inefficienza, di mancanza di tempo, di frettolosità, una cosa giustificabile quando, come nel 1980, devi portare a casa 8 film. Quello che però differenziava il cinema di Massaccesi era soprattutto la potenza delle immagini, l’anarchia preponderante di un cinema più di pancia che di cervello. Quando mettevi la vhs di un suo film sapevi che sarebbe stato come andare alla trattoria sotto casa, soddisfatto e panciuto alla faccia di Sadler 5 stelle michelin.
Chi lo sa se questo dance movie sporcaccione è di Massaccesi
Massaccesi non era Bruno Mattei che di capolavori ne faceva per i motivi sbagliati, non era certo neanche Lucio Fulci che aveva invece l’aria snob di un cinema popolare alto, ma era senza dubbio bravo. Forse col tempo si era rotto, forse alla fine prevale solo lo stile quando un giorno giri uno sbudellamento e lo stesso giorno un pompino in un altro set, ma nella sua carriera c’era almeno un grande film, elegante, sinuoso, complesso, La morte ha sorriso all’assassino, una ghost story che anticipava Storie di fantasmi di Irving assomigliandogli più del libro omonimo di Straub. Coincidenze sicuramente, allo stesso modo de I guerrieri dell’anno 2072 con L’implacabile di Paul Michael Glaser, certo, ma sono quelle coincidenze che ci fanno sognare che Dan O’ Bannon vedendo Terrore nello spazio abbiano pensato ad Alien. Plausibile ma anche no.
Il suo capolavoro, La morte ha sorriso all’assassino
La morte ha sorriso all’assassino, un insuccesso commerciale purtroppo, è stato l’unico film firmato Aristide Massaccesi. Dopo, il suo nome si è annullato in tanti pseudonimi diversificati per genere: dalla morte di Aristide Massaccesi regista sono nati, come nello Split di M. Night Shyamalan, molti altri Massaccesi registi. Così abbiamo avuto Joe D’amato per l’horror e il porno, David Hills soprattutto per i film fantastici, poi i vari Peter Newton, Michael Wotruba, Alexandre Borsky e persino dell’orientale Robert Yip per le zozzerie cinoromane. Ognuno di questi nome de plume però portava solo e sempre a lui, Aristide Massaccesi, l’uomo che pirandellianamente indossava così tante maschere da poter vantare di non girare nessun film facendone però anche 10 alla volta.
Conan dei poracci
Ho conosciuto Massaccesi attraverso le pagine di Nocturno quando ero ancora un ragazzo e mai avrei pensato che un giorno avrei scritto anch’io per quella rivista che, con la defunta Amarcord, aveva plasmato il cinefilo che sono. Su Nocturno scoprivo un sottomondo incredibile, film così folli da non essere per forza mai girati, come Sbirulino, che però, lovecraftianamente, invece erano esistiti, anche se rari e introvabili. E se qualcosa di Joe D’amatob porno e, nella mia versione AVO FILM, non lo era, ora invece riscoprivo non un singolo film, ma una vera poetica cinematografica, eccessiva e affascinante, anche nei tanti capitomboli.
Oltre Kim Basinger
Massaccesi più di un Fabrizio De Angelis con Il ragazzo dal kimono d’oro faceva un cinema, soprattutto negli anni 80, di contrabbando: per esempio i suoi Eleven night eleven days erano il 9 settimane e mezzo meno patinato e più carnale, con una Jessica Moore/Luciana Ottaviani non bella come Kim Basinger ma di certo più accessibile nell’idea, già qui decantata, di cinema trattoria.
Se La morte ha sorriso all’assassino, come detto, era stato un flop, lo stesso non fu però con Buio Omega, remake di un vecchio thriller con Franco Nero, che lanciò il nome di Joe D’Amato nell’olimpo dei miti horror. Echi a Psycho, un erotismo con toni di necrofilia esasperata, scene trucidissime come le unghie strappate a forza ad una sventurata e le musiche potentissime dei Goblin contribuivano al successo di un film disturbante come pochi nel cinema italiano, terribile e necessario per il nostro orgoglio patriottico di ragazzacci ghiotti di budello e carnazza.
Dio benedica Genova
Non male neanche Antropophagus con la scena cult del feto divorato dal cannibale o Rosso Sangue, firmato però come Peter Newton, che decodificava l’Halloween di Carpenter in una chiave di violenza hardcore. Poi però Aristide si focalizzò in altri generi, i Conan dei poveri, la fantascienza dei Mad Max straccioni, gli erotici e soprattutto i porno che a fine anni 90 lo impegnarono per la maggiore, con film girati questa volta male e distrattamente, divertenti solo per la varietà delle parodie sexy, da Robin Hood a il poco pasolianiano Le 120 giornate di Sodoma. Si percepisce come al regista non fregasse più nulla di quello che stava facendo, perciò, quando girò nel 1991 questo horror, dovette essere per lui la boccata di aria fresca, l’occasione per tornare a fare qualcosa che amava.
Freddy Krueger, un mostro generico,Dracula e la creatura di Frankenstein
Frankenstein 2000, poi reintitolato Ritorno dalla morte, fu presentato in un Fantafestival di inizio anni 90 ma non fu accolto molto positivamente dal pubblico, anzi sembra che gli spettatori accompagnarono la proiezione proprio con fischi e risate. Eppure Massaccesi aveva ambizioni, a cominciare dal titolo originale che echeggiava il capolavoro letterario di Mary Shelley, ma come spesso accade, per milioni di motivi, le aspirazioni non corrispondono alla resa finale.
In un’intervista a Nocturno il nostro dichiarava “Quello doveva essere un Frankenstein (infatti al Mifed lo pubblicizzammo come Frankenstein 2000), poi abbiamo avuto delle remore a chiamarlo così. Però c’erano moltissime citazioni dal romanzo di Mary Shelley che nessuno ha capito. E poi il protagonista, Donald O’ Brien, aveva dato una prova magistrale, anche se io l’avevo scelto un po’ egoisticamente. Mi spiego: lui è caduto in bagno, anni fa, battendo la testa e rimanendo paralizzato nella parte destra del corpo e quindi aveva questo modo innaturale di procedere claudicante e una mano rattrappita. Quando girammo in una discoteca, un ragazzo disse “Ammazza quanto è bravo ‘sto qui! Cammina proprio come Frankenstein!”. Invece poveraccio era proprio così”.
Ritorno dalla morte purtroppo, (mostro di) Frankenstein umano o no, è un brutto film, girato male e noioso. Non si riesce davvero a salvare nulla, a parte una splendida fotografia dai colori saturi (sempre il regista con lo pseudonimo di Frederico Slonisko) e le musiche suggestive di Piero Montanari.
Del Massaccesi elegante de La morte ha sorriso all’assassino non c’è traccia, ma neanche del Joe D’Amato gagliardissimo e trucido dei Buio Omega e Antropophagus: gli effetti speciali cruenti ci sono ma così fatti male da generare solo imbarazzo o risate. Questo è sicuramente tragico per un horror che ricerca l’atmosfera ed è invece solo lento, che si vorrebbe feroce e mette in scena teste di bambolotti poco somiglianti alla controparte umana, un po’ come i film miserabili di Andrea e Mario Bianchi presentati da Lucio Fulci. C’è da dire però che almeno una volta, nell’omicidio del medico legale, Massaccesi alza la testa girando una scena montata discretamente e dalla buona tensione, ma è un istante in un film di un’ora e 33, lento come il valzer delle palle di Fra Giulio.
La sceneggiatura, da un’idea di Michele Soavi, poi è il punto più basso di tutta l’opera, aggiustata malamente da un Antonio Tentori mai a suo agio nei panni di sceneggiatore, che prosegue per accumuli stupidi e insensati (i sogni di Georgia/Cinzia Monreale che non portano a nulla), fino al look del moderno mostro di Frankenstein, di un certo impatto visivo, suture alla testa come il classico Karloff, ma poi ci pensi e ti chiedi perché? Non ha senso che il medico legale gli abbia aperto il cranio e non il ventre nel fargli un’autopsia. Così abbiamo un Frankenstein poser, bello da vedere, inquietante nell’interpretazione non interpretazione di O’ Brien (che si muove uguale anche quando il suo personaggio è vivo però), ma che è forzatamente shelliniano ( o whaliniano) solo per un’idea originale probabilmente tradita da una riscrittura inetta.
Costumi di Laura Gemser
In più Massaccesi si autocastra quando dovrebbe magari calcare la mano come nella sequenza dello stupro della Monreale, casto e senza neanche il nudo di rito, che si vorrebbe rifare ad Arancia Meccanica, come le inquadrature di un poster vorrebbero fare intendere, ma poi il massimo della cattiveria è pestare un bambino con l’effetto audio di una sberla di Bud Spencer in Bomber senza gli Oliver Onions.
La Monreale poi è bellissima ovviamente come moltissime genovesi benedette dal mare e da Dio, ma recita da addormentata anche prima di cadere in un vero coma e citare il suo ruolo regio in Buio Omega che però diviene, in questo caso, una rilettura molesta e fastidiosamente autocelebrativa.
Il resto del cast, ad esclusione di un convincente Riccardo Acerbi, già visto come professore porcone di Aenigma di Fulci, è tra il dilettantesco e l’inappropriato con manzi da monta hardcore che si aggirano imbarazzati sul set. Anche un veterano come Maurice Poli, in quegli anni perso in produzioni italiane miserabili, si limita a strabuzzare gli occhi e pregare di uscire fuori scena il prima possibile.
Nazisti e Rio De Janeiro
Il film poi, pur avendo le “citazioni non capite di Mary Shelley” a detta di Massaccesi, ricorda più che altro il Patrick di Richard Franklin o il già citato Aenigma di Fulci con la vendetta di una persona in coma.
Qui oltretutto la nostra Cinzia Monreale si vendica di tutti, anche di chi non sapeva fosse coinvolto nella sua aggressione.
Il dvd Raro video poi è qualcosa che deprime ancor di più la visione con la scelta di inserire come pista la traccia inglese, recitata sembra da filippini che leggono male il copione, pieno di fuori sincroni col labiale e un accento improbabile e devastante. Così abbiamo frasi come “Help, iu a mosta!” o “Ai loviù” che ti lasciano addosso un senso di disagio e inadeguatezza incredibile.
effetti brutti
Da imdb si legge che i costumi sono curati dall’ex Emanuelle nera, Laura Gemser, ma gli attori sembrano tutti vestiti con il primo capo preso dall’armadio.
Frankenstein 2000, girato non come Joe D’Amato ma come David Hills, è il simbolo di un cinema morente che cercava a tutti i costi di resistere, ma rantolava, agonizzava, fino a cadere cadavere, puzzolente e maleodorante. Da lì a poco i giochi sarebbero finiti per tutti con il bellissimo Dellamorte Dellamore, spartiacque tra il cinema horror italico in pellicola e le produzioni digitali amatoriali. Neanche Massaccesi sarebbe stato più lo stesso: La Iena, girato nel 1997, è altrettanto orribile come lo sarà il Top Girl dello stesso anno o l’ultima opera del 1999, il semi porno I predatori delle antille. Il cinema hardcore, del quale Aristide era stato un pioniere, gli aveva tolto la scintilla artistica, un po’ come quei voyeur che, ossessionati da troppe visioni segaiole, si scoprono impotenti.
Andrea Lanza
Ritorno dalla morte – Frankenstein
Anno: 1991
Regia: David Hills (Aristide Massaccesi)
Interprete: Cinzia Monreale, Donald O’Brien, Robin Tazusky, Riccardo Acerbi, Dun Dustman, Mark Frank, Mark Quail, Maurice Poli, Valter Travor, Massimo Pittarello, Max Tazusky, John Wood, Robert Milton, Susan Baker, Emy Valentino
“In realtà volevo solo fare un film. Un giorno ero fuori casa e ho notato alcuni punti nel cortile dove non cresceva l’erba e mi sono chiesto il perché, poi qualcuno mi ha detto “Ehi, sai, forse succede perché è sepolto qualcosa sotto”. C’era questo mio amico che era un assistente di macchina e conosceva molto il mito e il misticismo indiani, mi ha parlato dei Toltechi che sono vissuti in America Centrale e nel Sud America, ed erano una tribù messicana che esisteva prima degli Aztechi. Mi raccontò di alcuni misticismi e di come [i Toltechi] si seppellivano, da soli, nei quattro angoli del mondo. Pensavo fosse bello, è un buon mito. Così sono andato a cercare un po’ di roba e ho scritto la sceneggiatura in quattro giorni“
(Phil Smoot, intervistato su La Maledizione del cannibale nel 1998)
Noi di Malastrana abbiamo un debole per i perdenti, le persone che sono arrivate per tutti alla fine di una vita, ma ancora lottano e non mollano, malgrado i pugni presi, malgrado nel round dopo ci sarà un pugile ancora più grosso e forte. I nostri perdenti hanno il viso di Mickey Rourke che urla al mondo di fottersi mentre confonde passione e carriera come i romantici di Jean Luc Godard, sono i barboni che guardano il mondo dal basso verso l’alto e tu non li vedi o non vuoi vederli forse per paura che un giorno capiterà anche a te quel giro di ruota sfortunato, sono i gay, le lesbiche, i negri che se non dici negro non ti senti abbastanza bianco, sono gli zombi che invadono Piazza Diaz in Acab per rendere giustizia ad una Genova rosso sangue, è l’urlo di Franco Nero in Vamos a matar companeros perché davvero una rivoluzione non la si vince con bastoni e rastrelli ma insieme forse sì. I nostri perdenti hanno la faccia delle vhs che si impolveravano nelle videoteche, quelle etichette come l’Antoniana che sapevi che producevano solo merda e nessuno noleggiava, forse neppure tu che leggi e che ora avresti voluto farlo, ma, amico mio, il mondo è fatto di scelte, tette o culo, carbonara ignorante o cinque stelle Michelin, Evil dead o Evil in the wood? Ovvio che in questo caso Sam Raimi vince facile, almeno qualitativamente, e tu ti dicevi che avresti noleggiato quel film puzzone dopo, la volta dopo, ma poi sei diventato grande, la ps1 ha fatto spazio alla ps2, i giornaletti porno si sono digitalizzati, poi da Yuppi Du sei diventato altro, i tramonti al mare, le sere d’estate, guardi ora Netflix e pensi alle bollette più che agli occhi di una ragazza, quella che un tempo, sui calci in culo, alle giostre, ti aveva fatto battere forte il cuore. Il tempo è impietoso e molti film si sono persi dal passaggio in alta definizione, ma alcune case come la Storm video o la Quadrifoglio, che poi magari sono la stessa azienda, hanno deciso di prendere quei brutti film e dare a questi perdenti una nuova possibilità di vita buttandoli nel mercato dei dvd con la stessa qualità miserabile dell’epoca. Più grindhouse di così credo non ci sia nulla.
La maledizione del cannibale è uno di questi soldati suicidi, uscito ai tempi per la Roxy video con una copertina indecifrabile che buttava splatter a cazzum e per la Paradise 90 con un’altra ancora più brutta, verde con un volto non meglio classificabile, una di quelle vhs che sembrava dirti “non comprarmi tanto faccio schifo fin dalla locandina“. E così, come detto, è stato, ma, come tutte le cose non viste, probabilmente ha generato un sottobosco di appassionati, coprofili golosi di nefandezze, che negli anni hanno venerato ciecamente questo oggetto del desiderio mai toccato, al pari delle tettone di Jenna Jameson che mai saranno sbattute sulla tua faccia da stallone di quartiere, purtroppo, ma è un mondo difficile, si sa.
Ora il dvd Quadrifoglio di La maledizione del cannibale ha distrutto probabilmente intere esistenze perché qualcuno in più l’ha sicuramente visto, recuperato in autogrill ad un euro, massì tanto che cazzo mai sarà, ma è, è, ripeto è, Cristo.
Ora, caro il mio esteta della merda in vhs, puoi deporre il tuo saio con scritto Dark Power, il titolo originale dell’opera, puoi smettere di pensare che hai perso un capolavoro, puoi spegnere l’audiocassetta che simula la connessione 56k nei rumori, bzzz bzzz, e collegarti al tuo fan club e dirlo, deglutisci prima però perché è la tua vita che dopo il dvd de La maledizione del cannibale è messa in discussione. Scrivilo, ti aiuto io: “Il film fa cagare“. Bravo e ora, come diceva Sharon Stone in Sliver, “Comincia a vivere“.
Mai una visione filmica è stata più sofferente che vedere questo horror di Phil Smoot, un’opera incredibile che rasenta il masochismo, un’esperienza pari al sovradosaggio di Valium mentre dei nani ti infilano spille nelle palle, dormi e ti svegli urlando, così per un’ora e 20 scarsa, sperando di stare sognando ma è il reale, cazzarola.
Da dove cominciare?
Beh il film si apre con una troupe televisiva che riprende un vecchio capo indiano che sta morendo e che, prima di spirare, urla “Toltech!“. Eh sì perché all’inizio una scritta ci ha avvertito che “molto prima che l’uomo bianco venisse in America, anche prima degli Aztechi, esistevano i Toltechi. Si diceva che molti di loro fossero stregoni e che si seppellissero nel terreno vivi! Hanno praticato questo demoniaco rituale su un’altura chiamata “Power spot”. E si nutrivano dei loro simili per sostenere la loro malvagità“. Oddio non sembra una cosa molto intelligente seppellirsi vivi, poi a che pro?, forse solo per ricordare a tutti, nel club dei cattivi, che si è non solo cattivi, ma proprio super cattivi, tipo il Superman dei gaglioffi. Già mi immagino la loggia massonica dei malvagi che si riunisce e vediamo Dracula, lo scienziato pazzo, l’uomo lupo, Jack lo squartatore che se la raccontano, “Oggi ho morsicato una vergine e, ih ih ih, le ho anche palpeggiato il culo” afferma il re dei vampiri, “Io ho rubato la pensione ad una vecchia” declama fiero Mr Licantropus, ma, una voce si fa spazio tra la folla, quello del Gran Maestro dei Toltechi “Io mi sono seppellito vivo” e ride da tenebroso furfante.
Suzie Martin bellissima
Anche la storia del cannibalismo, che viene sfoggiata con vanto fin dal titolo italico, non ha molto senso visto che vediamo una sola volta, nel finale, un tolteco sfilare una freccia dal cranio di una vittima e mangiarlo. Stop. Un po’ poco per essere la maledizione del cannibale quando oltretutto i mostri poi sono quattro non uno!
Aggiungo poi tra i miei dubbi anche il nome “Power spot” che non mi sembra proprio tolteco, ma io ho la mamma greca e che ne voglio sapere di dialetti atavici? Ma non solo perché fa riderissimo l’idea di un posto infestato da morti viventi indiani incazzati che si chiama Totem hill come, che so, comprare una casa in un paese che si chiama Witchville e poi lamentarsi che ci sono delle streghe pronte ad ucciderti.
Comunque i primi 45 minuti del film, dopo la morte del vecchio capo indiano, sono tra i più sconnessi dell’intera storia del cinema: scenette che mai si amalgamano tra di loro con sottofondo di musiche estranianti, più da western che da vero horror, senza dimenticare i dialoghi deliranti e non sense dei vari personaggi (“Fai palestra per rimorchiare Tom Selleck?“). Abbiamo poi un sacco di personaggi inutili, dalla giornalista (una che trova interessante filmare un vecchio che muore per un programma tv) ad un nipote avido del defunto, che appaiono e scompaiono senza nessun motivo apparente. Senza contare molte scenette a vuoto come quella di un operaio con problemi di flatulenza che si fa fregare il camioncino da un bambino. Non preoccupatevi se nel vedere il film vi sembrerà di avere perso un passaggio importante nella storia perché non è così: Dark power è montato e ideato alla cazzo di cane e in questo ha un coraggio sfrontato e invidiabile.
Lui ha il potere di scoreggiare
Prima però che La maledizione del cannibale ci presenti i veri protagonisti, una confraternita di studenti male assortiti che vanno dalla maniaca del fitness a due fratelli razzistissimi che dicono “negro” ogni tre per due e bullizzano una ragazza di colore, facciamo la conoscenza del Ranger Girard, interpretato dall’arzillo (quasi) settantenne Lash La Rue, attore famoso negli anni 40/50 per dei western di serie B di un certo culto. Si pensi che quattro di questi, Billy il mancino (Son of Billy the Kid, 1949), La frusta nera (Outlaw Country, 1949), Le pistole di Zorro (King of the Bullwhip, 1950) e Lo sceriffo dalla frusta d’acciaio (The Vanishing Outpost, 1951), uscirono pure in Italia.
Uno nato con la frusta
Prerogativa dei western di Lash La Rue era di sparare poco e usare molto la frusta, capacità che lo aveva portato ad esibirsi anche in parchi a tema western. L’attore, a fine anni 50, con quaranta e passa anni sul groppone, cominciava ad essere troppo vecchio per i ruoli da protagonista e la sua fama di eroe bizzarro ne risentiva così come gli ingaggi, per lo più in serial tv. Perciò nel 1972, dopo quasi dieci anni di inattività, accettò con entusiasmo il ruolo principale, o almeno così credeva lui, in un nuovo film che avrebbe dovuto rilanciare la sua carriera, Hard on the Trail diretto da Greg Corarito. Non fu così perché il film si rivelò una trappola per l’attore: il regista gli fece credere che si trattasse di un “western con alcuni nudi soft“, ma invece era un vero pornazzo con due set di attori differenti, quelli vestiti intenti a recitare la parte seria e quelli nudi a darci dentro con orge e amplessi poco velati. L’attore, noto sembra per la sua morigeratezza, si vergognò come un ladro e abbandonò le scene chiedendo più volte scusa nelle rare interviste. Questo finché, dopo una piccola parte in Chain Gang del 1984, non incontrò Phil Smooth che lo ingaggiò per due film, questo Dark Power e il folle e altrettanto scalcagnato Alien Outlaw, nei quali avrebbe semplicemente fatto Lash La Rue in un cortocircuito tra reale e fiction.
porno western
Qui, come detto, il suo personaggio si chiama Ranger Girard ma poco importa perché, fin dalla sua entrata, con la musica da western a glorificare le sue gesta, si capisce subito che è solo è semplicemente il vecchio Lash che sta prendendo qualcuno a scudisciate. Lo vediamo arrivare e punire un gruppo di cagnacci, poco feroci, che nella finzione dovrebbero essere invece un branco che vuole sbranare un bambino cicciotto e che invece sono semplici cucciolotti che ovviamente non sono mai in scena con l’attore. Poco importa perché è proprio lui a fare la differenza bizzarra in un film che non ha mai nulla da dire.
Al vecchio Lash poi spettano i dialoghi più bizzarri come le terribili allusioni sessuali sulla lunghezza della sua arma o le frasi ad effetto verso i toltechi assassini, “Ti faccio saltare il naso” o “Assaggia la mia frusta, figlio di puttana” che se non fossimo davanti ad un film miserabile sicuramente applaudiremmo. Non dimentichiamo poi che l’arma del ranger Girard è forgiata “con gli elementi presi dai 4 angoli del mondo“, qualsiasi cosa possa significare questo.
Arriviamo però ora ai mostri, questi stregoni che si sono seppelliti vivi: arrivano durante la seconda metà del film e non si capisce mai perché debbano uccidere questi sventurati ragazzi. Infatti non abbiamo un libro dei morti che li ha riportati in vita, una maledizione, nulla, sembra che escano fuori dal terreno, incazzati a morte, solo perché volevano dormire e sti giovinastri facevano casino. Il corrispettivo del vecchietto vicino di casa un po’ rompicoglioni.
Se la prima parte del film poi è, anche nella sua sciatteria, seria, la seconda invece tende alla parodia insistita con questi toltechi che si ubriacano, sbagliano a colpire le vittime e si feriscono tra di loro, fanno buffe mosse di karatè, una cosa che non può non ricordare il primo Peter Jackson, quello che nel 1987 girerà Bad Taste, soprattutto alla luce di una scena splatterosissima inserita improvvisamente. Ad un certo punto un ragazzo verrà atterrato e uno dei mostri gli dilaterà la pelle della faccia, strappandola, in un tripudio di sangue che culminerà nel cranio fracassato del giovane.
C’è da dire che il film, poverissimo (120000 dollari di budget), è molto buio, ma la scena, almeno questa, sembra realizzata bene, a differenza del make up dei toltechi, quattro scappati di casa con indosso una maschera da Halloween, presa probabilmente dal Moreno dove tutto costa meno degli anni 80. Nel caso di uno di loro poi il reparto costumi gli fa indossare una comune t-shirt bianca ben poco antica. Niente a che vedere, in fatto di cialtronaggine, con il tema musicale che accompagna le loro gesta di morte, il suono di uno xilofono, una cosa più buffa che spaventosa.
Il dvd di Dark Power è oltretutto uscito in America, in una bella edizione dal video pulito, che contiene un divertente commento audio del regista con il montatore Sherwood Jones, durante il quale si racconta che i mostri erano interpretati da attori non professionisti che nella vita facevano altro tipo gli elettricisti. Non stento a crederci.
Lash La Rue arriva, dopo essere scomparso senza motivo, alla fine del film, quando quasi tutti i ragazzi sono stati massacrati, per iniziare un duello con la frusta con uno dei toltechi. Una scena che non puoi credere che esista se non la vedi: il nostro dice al resuscitato “Vieni fuori ad affrontarmi” e quello, che fino a poco prima era un sanguinario morto vivente, fa sì con la testa mogio mogio e lo segue nel cortiletto della casa.
Alla ragazza di colore (una delle due final girl) però spetta l’uccisione definitiva dei morti: proprio lei scopre che l’unico modo per sconfiggere i toltechi è usare, come dei pugnali, delle aquilacce di metallo appese al muro. Ecco che Dark power diventa Evil dead con la faccia dei cannibali poco cannibali che si scioglie peggio del low budget di Sam Raimi.
La maledizione almeno non è parco in nudi e belle ragazze, a cominciare da un bagno generoso di una studentessa per culminare con i vestitini succinti della bellissima Suzie Martin, quasi una versione anni 80 di Denise Richards.
sempre la divina al suo unico film
Per il resto il film, come già detto, è atroce, noioso, montato col culo, con il giorno e la notte che si alternano senza logica, recitato nella media del genere ma che ha una grande forza, il mitico Lash La Rue, in quegli anni oltretutto maestro di frusta per Indiana Jones di Spielberg.
In Italia l’attore non ebbe mai un culto vero e proprio ma ci piace averlo scoperto così, a fine carriera, come un nonno un po’ rintronato di Bruce Campbell, capace di corteggiare belle donne e farsi rispettare sia dagli indiani cattivi degli anni 50 che dai toltechi di 3 decenni dopo.
Non possiamo fare a meno di credere comunque che, come ai tempi di Hard on the Trail, il cinema l’abbia ancora fregato. “Phil sei sicuro sia un western?” “Massì, vecchio mio, sono cheyenne, solo un po’ più brutti”. E intanto dietro, tettine attillate alla camicetta passava, Suzie Martin. Non ti sei voltato, vecchio e morigerato Lash, sei stato forse ingannato, ma alla fine hai fatto la tua porca figura. Sei il nonno che tutti noi amanti dell’horror desidereremmo avere, uno che ci salva la vita, che non scappa davanti al pericolo ma lo affronta, a vent’anni come a cento. “Fatti avanti, figlio di puttana d’un tolteco“.
Vaya Con Dios, Lash.
Andrea Lanza
La maledizione del cannibale
Titolo originale: The dark power
Anno: 1985
Regia e sceneggiatura: Phil Smoot
Interpreti: Lash La Rue, Anna Lane Tatum, Cynthia Bailey, Mary M. Dalton, Paul Holman, Cynthia Farbman, Marc Matney, Tony Shaw, Robert Bushyhead, Suzie Martin, Dean Jones, Steve Templeton, Page Elizabeth Ray, Eric Mikesall, Tony Elwood